domenica 26 luglio 2020

Invito a scomparire. Marco Travaglio

Coronavirus: in città si riducono i positivi. Gallera e Fontana ...

Da cinque mesi Attilio Fontana e Giulio Gallera, i due caratteristi che sgovernano la Lombardia, sgomitano in un appassionante testa a testa (testa si fa per dire) per aggiudicarsi il primo avviso di garanzia. E noi, lo confessiamo, puntavamo tutto su Gallera, anche perché la sfangherebbe agevolmente con l’incapacità di intendere e volere. Invece, sul filo di lana, l’ha spuntata il governatore umarell, insospettabile per quell’aria emaciata da vecchietto sul punto di esalare l’ultimo respiro. Poi Report, anticipato dal Fatto, scoprì il contratto di fornitura da 513 mila euro per 75 mila camici e 7 mila set sanitari assegnato il 16 aprile dall’agenzia regionale Aria Spa, senza gara, alla Dama Spa del cognato e della moglie del presidente leghista: Andrea e Roberta Dini. Fatture previste per il 30 aprile, pagamento in 60 giorni. Il 19 maggio l’inviato di Report Giorgio Mottola iniziò a far domande in Regione. E intervistò il cognatissimo Dini. Che, al citofono, provò a negare: “Non è un appalto, è una donazione, chieda pure ad Aria”. Mottola richiamò spiegando di avere le carte della fornitura. Allora Dini cambiò versione, ammettendo quanto non poteva più negare, ma precisando che tutto era avvenuto a sua insaputa: “Non ero in azienda durante il Covid… chi se n’è occupato ha mal interpretato. Ma poi me ne sono accorto e ho subito rettificato tutto perché avevo detto ai miei che era una donazione”. “Subito” mica tanto: l’affidamento è del 16 aprile e la “rettifica” arriva solo il 22 maggio, quando già l’inviato Rai è sulle tracce dello scandalo e Dama inizia a stornare le fatture, cioè a rinunciare ai soldi pubblici.
Interpellato sullo scoop di Report, anche Fontana sposò la linea Scajola: “Non sapevo nulla della procedura e non sono mai intervenuto in alcun modo”. Diffidò la Rai dal trasmettere servizi non autorizzati da lui. E annunciò querela al Fatto. Ma chiunque avesse occhi per vedere capì subito che quella commessa da mezzo milione a cognato e moglie del presidente lumbard era andata bene a tutti finché Report non l’ha scoperta. Poi fu tramutata in tutta fretta in una donazione e le fatture in un errore da “rettificare” ex post, con una corsa precipitosa a coprire tutto con una toppa peggiore del buco. Come se un tizio accusato di rubare tentasse di dimostrare che non è vero restituendo il maltolto al legittimo proprietario.
Intanto accadevano altre cose che nessuno poteva sospettare: la Procura di Milano riceveva una segnalazione di operazione sospetta dall’ufficio antiriciclaggio di Bankitalia, allertato dall’Unione fiduciaria di Milano, che aveva bloccato un bonifico urgente ordinato da Fontana il 19 maggio.
Si trattava di un versamento di 250 mila euro al cognato dal conto che Fontana ha in Svizzera con 4,4 milioni di “mandato fiduciario”, frutto di un’eredità di 5,3 che dal 2005 nascondeva al fisco su due trust alle Bahamas e poi sbiancò nel 2015 (da presidente del Consiglio regionale) grazie alla voluntary disclosure del governo Renzi. Un chiaro tentativo di rimborsare Dini per il mancato affare con la Regione: infatti l’indomani il cognato scrisse ad Aria che avrebbe non più venduto, ma regalato i 49 mila camici e 7 mila set già consegnati. Ma, appunto, il bonifico fu bloccato per la causale generica e sospetta. Così Dini, rimasto a bocca asciutta, interruppe lì la donazione “spontanea” alla Regione (che non riusciva a proteggere i sanitari dal Covid) e tentò di rivendere i restanti 25 mila camici a una casa di cura per 9 euro l’uno anziché 6. Poi, appena la GdF acquisì gli atti dalla fiduciaria, Fontana annullò il bonifico. Perciò non solo Dini e l’ex ad di Aria, ma anche Fontana sono indagati per frode in pubbliche forniture. Ma non è per questo, cioè per un reato ancora tutto da accertare, che Fontana deve dimettersi subito. Bensì per i fatti acclarati che lui ha maldestramente tentato di nascondere.
1) Un pubblico amministratore non può nascondere ai cittadini milioni di euro alle Bahamas e in Svizzera.
2) Chi accede alla voluntary disclosure riporta fondi neri all’ufficialità in cambio di cifre irrisorie e dell’anonimato e ammette di averli detenuti illegalmente all’estero e al riparo dalle tasse: dunque non può ricoprire cariche pubbliche.
3) Fontana non pretese dal cognato i restanti 25 mila camici previsti dal contratto, che invece Dini voleva vendere a una Rsa, privando così medici e infermieri di protezioni fondamentali per l’emergenza.
4) Fontana ha mentito al Consiglio regionale e all’opinione pubblica, giurando di non aver “saputo nulla della procedura” e di non esservi “mai intervenuto in alcun modo”: invece sapeva tutto dall’inizio (lo informò subito il suo assessore Raffaele Cattaneo) e intervenne fino alla fine: prima favorendo la ditta di famiglia e poi, una volta smascherato, tentando di coprire le tracce del suo mega-conflitto d’interessi.
5) Nel vano tentativo di difendere il suo indifendibile sgovernatore, Salvini attacca la Procura col refrain berlusconian-renziano della “giustizia a orologeria” (senza spiegare quali sarebbero gli eventi elettorali influenzati dall’indagine, visto che siamo a fine luglio).
Ps. Annunciando querela, Fontana ci accusò di pubblicare “fatti volutamente artefatti per raccontare una realtà che semplicemente non esiste”. Attendiamo a piè fermo le sue scuse.