giovedì 12 agosto 2021

Caccia a Messina Denaro tra ovili e pizzini. - Giampiero Calapà

 

Dove si può “ammucciare” il boss.

C’è un circuito di go kart, poi bisogna inerpicarsi per l’ennesima trazzera in un viaggio sfiancante attraverso la Sicilia più remota e arcaica. Siamo tra Villapriolo e Villarosa, provincia di Enna, contrada Giurfo.

Non c’è un’anima ma la suggestione di essere osservati è prepotente: la vegetazione, dove più alta, è perfetta per ammucciare, nascondere: infatti guardando bene si scorge un casolare, dall’alto si noterebbe che è a forma di elle. Matteo Messina Denaro potrebbe nascondersi in un posto simile. Qui il 3 dicembre del 2007 ci arriva la polizia per catturare Daniele Emmanuello, 43 anni, in quel momento nella lista dei latitanti più pericolosi considerato secondo solo all’imprendibile boss di Castelvetrano. “Fermo, polizia!”, sembra di sentire le urla degli agenti in questo silenzio che pare ammutolire pure le cicale. Emmanuello si catapulta fuori dalla finestra, in pigiama, cominciando a correre quando il sibilo degli spari irrompe sulla scena. “Abbiamo sparato in aria”, sosterranno i poliziotti. Ma Emmanuello è a terra, colpito anche alla nuca. Morto. È stato latitante per undici anni, amico di Giovanni Brusca, tra i carcerieri di Giuseppe Di Matteo, noto come “boss dei ragazzini” perché reclutatore di minorenni da introdurre al terrore di Cosa nostra impiegandoli come killer al servizio del male.

Messina Denaro, 59 anni compiuti il 26 aprile scorso, latitante dal 1993, gode ancora di grande “rispetto” e di diversi livelli di protezione, invece, anche strettamente legati a una sorta di scudo massonico in cui spesso si sono imbattuti i magistrati e la commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi dal 2013 al 2018: in una audizione del 3 agosto 2016 proprio la presidente affermò: “Come spieghiamo che Castelvetrano è la patria di Matteo Messina Denaro e ha la più grande concentrazione di logge massoniche in rapporto alla popolazione di qualunque parte del nostro Paese? Un consigliere comunale ha sostanzialmente dichiarato che avrebbe dato la propria vita perché non fosse catturato Messina Denaro”.

E che Matteo Messina Denaro goda ancora di consenso e ammirazione è fuor di dubbio. “Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo”, disse una volta Paolo Borsellino. Quel tempo non è ancora arrivato: la scorsa domenica 25 luglio la figlia di Messina Denaro (che il latitante non avrebbe mai incontrato) ha partorito e sui social non sono mancati auguri e felicitazioni al neo nonno anche da parte di giovanissimi. “Al di là della pietas umana che può accompagnare un decesso o la nascita di una nuova vita – ha scritto il giornale online di Marsala Itacanotizie.it –, nelle sue varie trasformazioni la mafia resta sempre il peggiore tra i mali che affliggono la nostra terra. Sottovalutarla è il miglior servizio che le si possa rendere per consentirle di continuare a prosperare, nei suoi mille interessi e nelle sue molteplici collusioni”. Nonostante in questi anni a ogni nuovo arresto di mafiosi e collusi, soprattutto intorno a Trapani, inquirenti e stampa abbiano parlato di “cerchio che si stringe”, fino a ora Matteo Messina Denaro è rimasto un fantasma.

L’ultima traccia è del 14 luglio scorso: nell’operazione a Torretta, eseguita dai carabinieri su delega della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, è emerso che Lorenzino Di Maggio, una volta tornato in libertà, nel 2017, secondo le accuse del pentito Antonino Pipitone, sarebbe stato il “postino”, addetto alla consegna di pizzini per Messina Denaro. “Gran parte dei pizzini sia della provincia che dei mandamenti di Palermo – ha riferito il pentito – che dovevano arrivare al superlatitante arrivavano sempre a lui (Di Maggio, ndr). I biglietti gli venivano consegnati dove lavorava o a casa della madre”. Poi Calogero Caruso, a cui venivano consegnati da Di Maggio, “a sua volta li consegnava a Campobello di Mazara, utilizzando l’auto del Comune di Torretta dove Caruso all’epoca lavorava”.

Se questa traccia corrispondesse a verità, sarebbe quindi scontato che Messina Denaro non è lontano dalla Sicilia o, comunque, che spesso ci ritorna. Il consigliere del Csm Nino Di Matteo in un’intervista al Tg2 un anno fa spiegò: “Una latitanza così lunga come quella di Matteo Messina Denaro si può comprendere soltanto in funzione di coperture istituzionali e forse anche politiche. È gravissimo che, dopo tutti questi anni, lo Stato non riesca ad assicurare alla giustizia un soggetto condannato tra i principali ispiratori degli attentati del ’93 di Roma, Firenze e Milano che fecero temere al presidente Carlo Azeglio Ciampi che fosse in atto un golpe. Matteo Messina Denaro è certamente custode di segreti di quel periodo, di quella campagna stragista del 1993, che lo rendono in grado ancora di esercitare un potere di ricatto nei confronti delle istituzioni. Ecco perché sarebbe veramente un segnale bello se finalmente venisse rintracciato, arrestato”. E Antonio Ingroia, ex pm del processo Trattativa proprio come Di Matteo e oggi avvocato, si rivolge direttamente al latitante: “A questo punto è Matteo Messina Denaro che deve scrivere la parola fine, dovrebbe trovare il coraggio e la dignità di consegnarsi allo Stato, prendersi la responsabilità di confessare tutti i suoi orribili crimini e rivelare tutto ciò che sa rispetto a quei terribili anni delle stragi: voglio fargli sapere che, qualora decidesse di farlo, proprio io che ho messo alla sbarra Bruno Contrada e Marcello Dell’Utri, sarei pronto ad assumerne la difesa come suo legale. Ma deve raccontare tutto, proprio tutto, dando i nomi dei mandanti a volto coperto. Lui li conosce”.

ILFQ

Anche la latitanza di questo bieco individuo è la dimostrazione che politica e mafia sono in sintonia.

Mi rifiuto di credere che lo Stato non sia in grado di scovare ed arrestare Matteo Messina Denaro latitante da decenni, è evidente che il mafioso goda di copertura e protezione ad alti livelli.

Cetta

Afghanistan: i talebani avanzano e prendono Ghazni, a 150 km da Kabul.

 

Si tratta del decimo capoluogo caduto in una settimana. Per gli Stati Uniti, la presa della capitale afghana è prevista entro  90 giorni.


I talebani hanno conquistato Ghazni a soli 150 chilometri da Kabul. Si tratta del decimo capoluogo di provincia caduto nelle loro mani in una settimana.

"Hanno preso il controllo di aree chiave della città: l'ufficio del governatore, il quartier generale della polizia e la prigione", ha detto Nasir Ahmad Faqiri, capo del consiglio provinciale di Ghazni, aggiungendo che in alcuni parti della città sono ancora in corso combattimenti. 

In Afghanistan oramai è sempre più il caos. E se pubblicamente si continua a ostentare sicurezza, dietro le quinte a Washinton e nelle capitali europee sono rimasti in pochi a professare ottimismo di fronte all'irrefrenabile avanzata dei talebani.

La rapida disintegrazione delle forze di sicurezza afghane è a questo punto davanti agli occhi di tutti. Tanto che la caduta di Kabul, se continua così, è ora prevista entro 90 giorni, se non nel giro di un mese. L'allarme parte dalla stessa amministrazione Biden, con le previsioni di qualche giorno fa divenute già carta straccia, quelle che indicavano la possibile caduta della capitale nelle mani dei talebani in un arco di tempo tra sei o dodici mesi. Ma la conquista di Faizabad, nel nord del Paese, e la resa di centinaia di soldati governativi che si erano ritirati vicino all'aeroporto di Kunduz dopo la caduta della città del nordest, fanno capire come oramai la situazione stia precipitando.

Una situazione impensabile quando Joe Biden annunciò il ritiro completo delle forze militari Usa dal Paese entro il 31 agosto, ponendo così fine a una guerra durata vent'anni.

Ma di fronte alle crescenti critiche per aver di fatto abbandonato l'Afghanistan al suo destino, il presidente americano non arretra di un millimetro. "Non sono affatto pentito della decisione presa", ha ribadito rispondendo alle domande dei reporter alla Casa Bianca: "E' ora che i leader afghani si mettano assieme e comincino a combattere per conto loro, per il loro Paese. E' questione di volerlo".

Biden ha quindi ricordato ancora una volta come Washington nelle ultime due decadi ha speso ben 1.000 miliardi di dollari per addestrare e armare le forze di sicurezza di Kabul, senza contare il costo pagato in vite umane.

ANSA

A che serve un giornale. - Marco Travaglio

 

La nostra petizione al premier Mario Draghi perché allontani dal governo il sottosegretario fascioleghista all’Economia Claudio Durigon ha raccolto, in mezza giornata di un giorno d’agosto, 25 mila firme. L’ennesima prova del fatto che non c’è vacanza, vittoria pallonara o medagliere olimpico che riesca a distrarre la nostra comunità di lettori e sostenitori dai valori che contano davvero: trasparenza, legalità, antifascismo, disciplina e onore, scolpiti nella nostra Costituzione ma quotidianamente calpestati dal Governo dei Migliori. Un governo senza opposizione, con tutte le lobby e i poteri in cabina di regia e tutta la presunta informazione sdraiata ai suoi piedi, che non riesce a liberarsi di un piccolo e agguerrito giornale, un po’ come il Giulio Cesare di Goscinny e Uderzo non riesce a espugnare il villaggio di Asterix. E, ogni volta che prova ad allungare le mani, l’indomani trova quel che si merita sulle nostre pagine. Ci hanno provato col presunto esperto di Covid, tal Gerli, nel Cts: beccati e costretti a farlo dimettere. Ci hanno provato con l’uomo dei Benetton alle Fs: colpiti e affondati. Ci hanno provato coi subappalti liberi nelle grandi opere: sgamati e indotti e alla retromarcia. Ci hanno provato con la schiforma Cartabia che di fatto aboliva la giustizia: smascherati e forzati a un (pur parziale) dietrofront. Ci hanno provato con l’agente Betulla “consigliere giuridico” di Brunetta: scoperti e respinti con perdite. Ora provano a silenziare lo scandalo del sottosegretario all’Economia che prima annette alla Lega il generale della Guardia di Finanza che indaga sui 49 milioni fregati dalla Lega e poi vuole intitolare al fratello del duce il Parco Falcone e Borsellino di Latina: la campagna del Fatto e le firme dei nostri lettori terranno desta l’attenzione finché il Parlamento voterà la mozione di sfiducia dei 5Stelle, cui han già aderito Pd, Leu e SI, oltre all’Anpi e a una miriade di associazioni antimafia.

Immaginate che accadrebbe se tutti i giornali facessero i cani da guardia della democrazia, anziché i cani da compagnia: avremmo già sventato tante vergogne dell’ultimo semestre e magari ci saremmo risparmiati la Fornero consulente di Draghi sulle pensioni, i turboliberisti a menare le danze della politica e il fisioterapista di Malagò nello staff dirigenziale dell’ad di Cassa depositi e prestiti Dario Scannapieco. Basterebbe che, nelle conferenze stampa di Draghi, anziché scambiare la trasparenza per lesa maestà e complimentarsi per quanto è bravo e bello, tutti i giornalisti gli chiedessero conto e ragione di ogni scandalo. Magari il premier resterebbe sulle sue posizioni. Ma almeno sarebbe costretto a spiegarle. O ad abolire le conferenze stampa.

ILFQ

L'Italia brucia, due morti in Calabria uno in Sicilia.

 

Nel Reggino le vittime sono due anziani, un agricoltore ha perso la vita nel Catanese.


Giornata nera sul fronte degli incendi: le fiamme hanno divorato ettari di bosco in Calabria, Sicilia, Sardegna, Campania. Si registrano anche tre vittime, due in Calabria e una in Sicilia.

Un triste bilancio che si aggiunge ai due morti, zia e nipote, sempre in Calabria qualche giorno fa. La Regione chiede ora al governo lo stato di emergenza. "Il tema degli incendi è un'emergenza che deve trovare risposte immediate e vanno trovate con i ristori da dare a chi oggi ha perso tutto", ha assicurato il ministro delle Politiche agricole, Stefano Patuanelli, in visita in Sicilia alle comunità colpite dai roghi.

Incendi che potrebbero avere una matrice dolosa ma che risultano anche frutto della scarsa manutenzione e prevenzione delle distese boschive delle quali è ricca l'Italia. "Abbiamo mappato oltre 40 cause alla base degli incendi boschivi: dalle ripuliture dei fondi alle bruciature delle stoppe ai comportamenti dei piromani, che sono una percentuale residuale, al vandalismo. E' capitato anche di giovani che hanno dato fuoco per vedere in azione la macchina dei soccorsi", spiega il colonnello Marco di Fonzo, comandante del Nucleo Informativo Antincendio Boschivo del Comando Carabinieri Tutela Forestale. Un agricoltore di 30 anni è morto a Paternò (Catania) schiacciato dal suo trattore nel tentativo di spegnere un incendio in un podere nell'area di Ponte Barca. Stava trasportando una botte piena d'acqua sul suo trattore che all'altezza di una curva lungo la statale si è capovolto schiacciandolo e uccidendolo sul colpo.

A Pergusa (Enna) le fiamme hanno minacciato un gruppo di case e due famiglie sono state evacuate. Due le vittime in Calabria, la regione oggi più colpita, che ha visto in fumo ettari di bosco sull'Aspromonte. Un uomo, Mario Zavaglia, di 76 anni, è morto nelle campagne di Grotteria (Reggio Calabria). Si era recato nella sua proprietà per accudire il proprio orto in contrada Scaletta, alle falde dei monti della Limina. In pochi minuti le fiamme hanno circondato l'abitazione senza lasciare scampo all'anziano. Sempre in provincia di Reggio Calabria, a Cardeto, un uomo di 79 anni, Nicola Fortugno, è stato trovato morto a causa delle ustioni provocate dall'incendio scoppiato nella zona.

Altre quattro persone sono rimaste ustionate a Vinco, frazione pedemontana di Reggio Calabria, e sono state portate in ospedale. In Campania, un uomo di 68 anni stava cercando di spegnere un incendio divampato nel proprio terreno ma è stato investito dalle fiamme e per questo è ricoverato in codice rosso in ospedale a Benevento. L'incidente è avvenuto in località Rotola, nel comune di Ceppaloni.

Sono state complessivamente 32 le richieste di intervento aereo ricevute dal Centro Operativo Aereo Unificato del Dipartimento della Protezione Civile oggi, di cui 10 dalla Calabria, 9 dalla Sicilia, 4 dalla Sardegna, 4 dalla Basilicata, 2 ciascuna dalla Campania e dal Lazio, una dalla Puglia. Stamani grande apprensione al santuario mariano di Polsi, a San Luca (Reggio Calabria). Era circondato dalle fiamme che hanno colto alla sprovvista centinaia di pellegrini che arrivavano in auto e a piedi da Cinquefrondi (Reggio Calabria). I vigili del fuoco hanno 'scortato' i pellegrini per consentire loro di lasciare in sicurezza l'area minacciata dalle fiamme. La protezione civile ha poi chiuso la principale via d'accesso, all'altezza di Gambarie, e di fatto il santuario, noto in passato per gli incontri tra i capi 'ndrangheta che però ha visto negli ultimi tempi un ritorno di fede popolare proprio grazie a questi pellegrinaggi, è di fatto isolato. "I piromani sono assassini ambientali. Ma le istituzioni possono e devono fare di più per fermare il fuoco, anche attraverso una coscienza collettiva più attenta e diffusa", affermano i vescovi della Calabria.

ANSA
Per evitare che ciò accada bisogna controllare i territori con droni e telecamere e imporre ai forestali di fare il loro lavoro per eliminare tutto ciò che può causare un incendio.
Ma, purtroppo, tutto ciò non avviene per noncuranza ed irresponsabilità di chi dovrebbe
provvedere a fare il lavoro per cui è pagato profumatamente.