giovedì 11 aprile 2019

Tangenti per il Mose di Venezia, i grandi accusatori patteggiano.

Tangenti per il Mose di Venezia, i grandi accusatori patteggiano
Piergiorgio Baita

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Claudia Minutillo e Giancarlo Galan

Tra loro l'ex ad di Mantovani, Baita. Il Gup ha disposto confische per circa 24 milioni. In una prima fase dell'inchiesta avevano raccontato il sistema di mazzette che girava attorno alla costruzione dell'infrastruttura.

VENEZIA - I grandi accusatori della vicenda Mose, tra i quali Piergiorgio Baita e Claudia Minutillo, indagati a loro volta principalmente per corruzione, hanno patteggiato oggi la pena concordata con i Pm Stefano Buccini e Stefano Ancillotto davanti al Gup Gilberto Stigliano.

A patteggiare sono stati Piergiorgio Baita (ex amministratore delegato della Mantovani), Claudia Minutillo (imprenditrice, ex segretaria di Giancarlo Galan), Mirco Voltazza, Nicolò Buson e Pio Savioli. I primi tre, che dovevano rispondere di corruzione e frode fiscale, hanno patteggiato 2 anni, mentre Buson e Savioli, quest'ultimo solo per reati fiscali, hanno chiuso la vicenda giudiziaria con un anno e 8 mesi. Per tutti, riferiscono i legali, la pena è stata sospesa.
Il Gup ha disposto confische per circa 24 milioni, per la maggior parte a carico di Baita e Buson, per i ruoli che avevano in Mantovani. Un primo tentativo di patteggiamento era fallito perché Baita e Buson (ex direttore finanziario di Mantovani) non avevano dimostrato la possibilità di saldare le richieste economiche.

Gli indagati, in una prima fase dell'inchiesta sul Mose, condotta dai Pm Buccini e Ancillotto, avevano raccontato il sistema di tangenti che ruotava attorno al Mose. Da lì era nata l'operazione che aveva portato nell'estate 2014 all'arresto di 35 persone, tra le quali l'ex governatore Galan, l'ex assessore regionale Renato Chisso, l'ex sindaco di Venezia Giorgio Orsoni.


https://www.repubblica.it/cronaca/2019/02/28/news/mose_venezia_patteggiano-220377914/?ref=drac-1

Mose, con le tangenti di Galan appartamenti di lusso a Dubai. Sequestrati 12,3 milioni di euro.

Tangenti Mose, sequestrato il tesoro di Giancarlo Galan

Coinvolti due commercialisti che facevano da prestanome per conti in Svizzera.

ROMA. Le tangenti che arrivavano dal Mose finivano su conti svizzeri. Un sequestro di 12,3 milioni di euro è stato eseguito dalla Polizia economico finanziaria di Venezia, su ordine del Gip di Venezia, nell'ambito di un'indagine per riciclaggio internazionale ed esercizio abusivo dell'attività finanziaria, riguardante il reinvestimento all'estero delle tangenti incassate dall'ex presidente del Veneto, Giancarlo Galan.

Le indagini hanno consentito di accertare che tra il 2008 ed il 2015 due commercialisti padovani avevano garantito, tramite il loro studio professionale, l'intestazione fiduciaria di quote di una società veneziana, che dalle indagini sul Mose era risultata essere di fatto riconducibile all'ex ministro ed ex governatore del Veneto Giancarlo Galan. I professionisti avevano messo inoltre a disposizione conti correnti in territorio svizzero, intestati a società di Panama e delle Bahamas e gestiti da due fiduciari, le cui somme sono state  trasferite su un conto corrente presso una banca di Zagabria, intestato alla moglie di un terzo professionista del medesimo studio padovano.

Le ulteriori investigazioni e l'esecuzione di una rogatoria in Svizzera hanno permesso di accertare che il ricorso all'interposizione di società in paesi off-shore era stato utilizzato dai professionisti esteri su larga scala per consentire a numerosi imprenditori veneti di riciclare ingenti somme proventi dell'evasione fiscale realizzata nel tempo. Nel corso della perquisizione presso gli uffici di una società fiduciaria elvetica, è stata infatti sequestrata una lista contenente i nomi di numerose società italiane che avevano affidato la gestione dei capitali derivanti dal "nero" ai professionisti svizzeri, i quali, pur non avendo i requisiti per l'esercizio dell'attività finanziaria in Italia, li avevano raccolti  su conti esteri intestati a società olandesi, svizzere, rumene, di Panama, Curacao e delle Bahamas, una delle quali aperta tramite lo studio Mossak & Fonseca, emerso nell'ambito dei c.d. "Panama Papers".

In un secondo tempo le somme sono rientrate nella disponibilità degli imprenditori italiani che le hanno utilizzate per comprare  appartamenti di lusso a Dubai e in fabbricati industriali in Veneto. I sequestri sono in corso di esecuzione riguardano disponibilità finanziarie detenute presso banche venete, 2 imprese e quote di società e 14 immobili in Veneto e Sardegna.


https://www.repubblica.it/cronaca/2019/04/11/news/galan_riciclaggio-223778428/

La telefonata a Fazio contro l’invito a Di Maio.




Il Fatto Quotidiano racconta oggi che dietro l’ospitata di domenica sera di Luigi Di Maio da Fabio Fazio c’è un retroscena curioso, che parte da una telefonata ricevuta dal conduttore per cercare di dissuaderlo dall’invitare il leader M5S:

A non essere tanto normale è invece una telefonata partita dai piani alti di Viale Mazzini qualche giorno prima, tra venerdì e sabato, proprio a Fazio e anche al direttore del Tg1 Carboni, dopo che è stata resa nota la scaletta del programma. Un colloquio in cui un alto dirigente Rai, come riportava ieri anche il sito Dagospia, avrebbe tentato di convincere il conduttore a declinare l’invito al ministro del Lavoro.
Una conversazione dove si è fatto notare se fosse proprio il caso, a un mese e mezzo dalle Europee, di avere ospite Di Maio e se, nel caso, si fosse pensato a un riequilibrio nella settimana successiva con un ospite leghista. E, dato che Salvini da Fazio non ci va, se non fosse il caso comunque di evitare l’ospitata di Di Maio. Non una telefonata di censura, nemmeno un ordine perentorio, ma una sorta di moral suasion anche assai educata.
Secondo il Fatto il dirigente che si è mosso è Fabrizio Ferragni, capo delle relazioni istituzionali, vicino al presidente Foa:
Nella nuova Rai gialloverde, infatti,di lui si dice che sia molto apprezzato dalla Lega e dal presidente Marcello Foa. Quando Foa ha un impegno istituzionale, spesso ad accompagnarlo c’è Ferragni. Ed è farina del sacco di Foa la decisione di spacchettare la comunicazione, con la conferma di Ferragni. Con chi non aveva buoni rapporti, invece, è Mario Orfeo, di cui era vicedirettore al Tg1. E quando quest’ultimo passa alla direzione generale, gli preferisce, come suo successore, Andrea Montanari.
 https://theworldnews.net/it-news/la-telefonata-a-fazio-contro-l-invito-a-di-maio

BOLLITI E MARINATI - Marco Travaglio



L’assoluzione di Ignazio Marino dalle accuse di peculato e falso è una buona notizia per lui e una pessima notizia per chi – da Renzi e Orfini in giù – lo cacciò anzitempo dal Campidoglio nel 2015, spalancando le porte ai 5Stelle. Ma è anche un’ottima occasione per misurare la febbre del cosiddetto “rapporto fra politica e giustizia” che i partiti continuano a non risolvere a 27 anni da Tangentopoli e infatti continua a destabilizzare sia la politica sia la giustizia. La giustizia ha le sue regole: i reati li fissa il Codice penale, le indagini e i processi li regola il Codice di procedura, le indagini, i rinvii a giudizio e le sentenze li decidono i magistrati in base alle prove che è o non è riuscita a raccogliere la polizia giudiziaria, nei tempi biblici previsti dal nostro farraginoso sistema. La politica ha, o dovrebbe avere, le proprie regole che si basano, o dovrebbero basarsi, sui fatti e seguire logiche e tempi del tutto diversi. I fatti possono emergere da cronache giornalistiche, da denunce politiche, da indagini o sentenze giudiziarie, o da mille altre fonti: quando sono assodati, o almeno plausibili, e un partito li ritiene gravi e incompatibili col proprio Codice etico, può decidere di espellere, dimissionare o sfiduciare il dirigente o rappresentante che li ha (o è sospettato di averli) commessi.
Quali fatti erano addebitati a Marino? Aver messo in conto al Comune 56 cene spacciate per “istituzionali”, ma in realtà private, per 20 mila e rotti euro. La notizia emerse dagli uffici comunali, nella feroce faida fra Marino e i suoi oppositori interni al Pd. E venne a conoscenza del Fatto, che diede per primo la notizia, e delle opposizioni, fra cui i 5Stelle che la cavalcarono. Marino fu indagato dalla Procura, rifiutò di dimettersi e il Pd lo sfiduciò a viva forza con una raccolta di firme fra i consiglieri indetta dal commissario Orfini nello studio di un notaio. Senza neppure un dibattito e un voto di sfiducia in Consiglio comunale. In tribunale Marino fu assolto e in appello condannato a 2 anni. Ma sia le motivazioni dell’assoluzione sia quelle della condanna davano per assodato il fatto: cioè le cene a spese dei contribuenti. Il Tribunale lo assolse per mancanza di dolo, ritenendo che Marino avesse fatto pasticci con la carta di credito comunale a causa della gestione approssimativa della sua segretaria, che gli rimborsò quelle spese private a sua insaputa. La Corte d’appello invece ritenne che Marino lo sapesse, dunque che la sua condotta fosse dolosa. Ora la Cassazione ha annullato senza rinvio la condanna perché “il fatto non sussiste” (il “fatto” è la condotta contestata come illecita dall’accusa).
Il che, assodate le 56 cene a spese del Comune, può significare due cose soltanto: o non è provato il dolo di Marino, oppure cenare con moglie e/o amici a spese dei cittadini per importi dell’ordine di 20 mila euro non integra i reati di falso e peculato. Lo scopriremo dalle motivazioni. 
E dal processo parallelo a un’ex collaboratrice di Marino, che giurò di essere a cena con lui (mentre lui era con la moglie) ed è stata rinviata a giudizio per falsa testimonianza; e all’ex segretaria che gestì il pastrocchio delle note spese ed è a giudizio per falso. Ma è già imprudente la dichiarazione di Marino che, dolendosi comprensibilmente per essere stato cacciato da “sindaco eletto”, aggiunge: “Ripeto a testa alta che non ho mai utilizzato denaro pubblico per finalità private”: e allora perché restituì 20 mila euro al Comune a scandalo scoppiato? Imprudente anche la rivendicazione della sua “giunta impegnata a portare la legalità nella Capitale”: dimentica il suo vicesindaco e altri membri della maggioranza indagati o arrestati per Mafia Capitale. Imprudentissimo poi Zingaretti, che deduce dal dispositivo della Cassazione “la correttezza di Marino”: non tutto ciò che è penalmente irrilevante è eticamente e politicamente commendevole. Rischiano di aver ragione, a loro insaputa s’intende, Matteo Renzi e Matteo Orfini, quando rivendicano la sfiducia a Marino. Dice Renzi: “La vicenda degli scontrini è stata una violenta campagna di fango del M5S. Ma le dimissioni di 26 consiglieri Pd e il decadimento (sic, ndr) di Marino non avevano niente a che fare coi problemi giudiziari o con gli scontrini. Nel 2015 la scelta del Pd romano (sic, ndr) fu totalmente figlia di valutazioni amministrative legate al governo di Roma. Decisione politica, non guerriglia giudiziaria”. Dice Orfini: “Non devo scusarmi perché quella scelta l’ho assunta spiegando fin dall’inizio che non era legata all’inchiesta. Marino non era adeguato a quel ruolo, stava amministrando male Roma, la città era un disastro”.
Ma i due Matteo, parlandone da vivi, potrebbero dirlo solo se il Pd fosse uso rovesciare le sue svariate giunte comunali e regionali mal governate, anche molto peggio di quella di Marino: invece risulta averlo fatto solo quella volta, guardacaso prendendo a pretesto l’indagine prima giornalistica e politica (i 5Stelle fecero nient’altro che il proprio mestiere di oppositori), poi giudiziaria sulle cene a sbafo. Che, in un partito intransigente, avrebbe potuto bastare e avanzare, infatti all’estero ci si dimette anche per molto meno. Invece apparve subito come un pretesto ridicolo, ad Marinum, per un partito che teneva al governo noti indagati come De Filippo, Castiglione, Vicari, poi Lotti ecc.; che candidava, teneva e tuttora tiene in piedi un governatore plurimputato come De Luca; che si è appena alleato in Basilicata col suo ex governatore arrestato Pittella; e in Calabria ancora sostiene la giunta del governatore inquisito Oliverio. Ma c’è sempre una prima volta: ora Zingaretti potrebbe fissare un Codice etico valido per tutti e poi, tanto per cambiare un po’, applicarlo a tutti.

Chi diavolo ha fatto fuori Di Battista? - Rosanna Spadini




Non riesco a capire… spero non sia stato Luigi Di Maio, perché infastidito dalle proteste di Dibba contro l’appiattimento troppo servile nei confronti della Lega, vedi salvataggio per il processo farsa di Salvini che si sarebbe risolto in una strabiliante fuffa. Vedi continue critiche a certe linee di governo che tradivano l’identità originaria del MoV, perché né destra né sinistra non vuol dire dare un colpo al cerchio e uno alla botte in maniera indifferenziata, ma riuscire a bypassare le ideologie, intese come camicie di forza che impediscono di scegliere secondo ragione e buon senso.
Lo aveva detto proprio il vecchio Casaleggio: “Un’idea non è né di destra, né di sinistra, ma è buona o cattiva”. E finora lo slogan identitario era stato rispettato, al contrario di quanto è avvenuto al governo Salvimaio, che ha spesso trascurato lealtà e onestà nei confronti dei suoi elettori.
Di Battista è sparito? Sta facendo un corso di falegnameria che lo attizza parecchio? Sta partendo per l’India? Perché non è presente alla kermesse di Ivrea? Perché non sarà presente alla prossima campagna elettorale per le Europee?
Molte sono le domande che si fanno attivisti ed elettori, ma certo non credono alle sue dichiarazioni, circa il desiderio di mettersi a girovagare per il terzo mondo, inviando ficherrimi reportage al Fatto Quotidiano, sulle sue esperienze antropologico culturali, come fosse un novello Ulisse spinto dalla sete di conoscenza.
Forse però la scomparsa di Di Battista è un segnale molto più diretto e meno enigmatico di quanto possa sembrare, che riguarda la crisi interna e identitaria che sta vivendo il M5S. una forza politica che perde sistematicamente le battaglie amministrative, incapace di mettere radici sul territorio, dominato com’è da un anarchismo strutturale endemico, che genera automaticamente correnti antitetiche in continuo conflitto tra di loro per la conquista di un posto al sole, faide interne concepite soltanto al fine di screditare gli amici/avversari, e per far emergere unicamente i propri paladini.
Se l’anarchismo metodologico aveva favorito la nascita del MoV, e permesso di reclutare velocemente una classe dirigente autogeneratasi per palingenesi spontanea, tratta direttamente dalla società civile, ora sta impedendo il radicamento sul territorio, la vittoria in molte elezioni amministrative e il reclutamento di soggetti capaci in grado di affrontare le sfide politico sociali del presente e del futuro.
Nel tempo l’anarchismo endemico ha provocato la nascita di numerosi feudi territoriali dal forte potere gestionale, probabilmente sfuggiti al monitoraggio dei vertici, che pilotano direttamente le candidature, organizzando pacchetti di voti da destinare ai loro epigoni servili, spesso degli emeriti incapaci, che una volta arrivati a ricoprire qualche carica, o rimarranno legati da vincoli indissolubili ai loro feudatari (in cambio di che?), oppure alla prima occasione passeranno al gruppo misto, tradendo il mandato elettorale e i loro elettori.
Forse per questo Di Battista se n’è andato in India… forse non è riuscito a salvaguardare l’identità del MoV, la sua carica rivoluzionaria, i suoi valori tipici quali onestà, trasparenza, democrazia diretta. Vero che governare significa fare scelte, quindi dividere l’elettorato, però molte sono state le delusioni: Tap, vaccini, scuola, Ilva, salvataggio giudiziario di Salvini, Tav (??).
Nel caso del salvataggio di Salvini la scelta del MoV in quel caso fu assolutamente sbagliata e suicida, i 5 Stelle in quell’occasione tradirono i propri valori e dannarono se stessi. È bastato un anno di governo perché il virus del maschio Alfa strozzasse in fieri la rivoluzione.
Infatti se il MoV avesse veramente voluto cambiare le cose, avrebbe dovuto agire diversamente, senza doversi zerbinare in tante occasioni ai ricatti leghisti, molte vicende in cui all’opinione pubblica è sembrato che a decidere la linea del governo fossero stati i capricci dell’alleato/rivale, più che una vera sintonia esecutiva.
Una vera rivoluzione non dovrebbe essere strozzata sul nascere da pentimenti, rimorsi, rammarichi su quello che si sta facendo, ma l’esatto contrario e cioè dovrebbe essere una continua riaffermazione delle strategie poste in atto e una continua sfida verso le competizioni future.
La rivoluzione 5 Stelle voleva dare risposte a domanda di senso e di prospettiva, cercava di reagire alle ingiustizie e alle diseguaglianze. Ma la famosa “rivoluzione culturale” di cui parlava Grillo in realtà non è mai iniziata, basti solo pensare al fanatismo da parte del MoV nei riguardi della profilazione del candidato simbolo, che deve essere necessariamente giovane, non importa se colto/a, ma sempre un assiduo frequentatore del web, generatore indefesso di post di propaganda, sorriso accattivante e simpatico, abile collezionista di consensi, come fosse il ball boy di una partita di tennis.
Come per i “frati cercatori” di un tempo, che svolgevano l’umile mansione di reperire risorse presso il popolo, gli attivisti e portavoce dei 5 Stelle sono investiti dell’incarico di raccattare voti presso il popolo del web, umili yesmen assolutamente prostrati al volere dei loro capibastone di riferimento, che dettano loro programmi ed eventi da svolgere. I contestatori sono merce da scartare nel meraviglioso e libero mondo del MoV, gli eretici sono roba da bruciare sul rogo perché considerati avversi all’unico vero credo ammissibile, deciso sempre e comunque dai vertici, non certo dalla base, che serve come paravento democratico.
L’unico verbo dei 5 Stelle deve essere la rinuncia alla critica, la completa umiltà, l’obbedienza  volontaria, la pace interiore e l’assoluta fede nello spirito del MoV. Deve essere l’esclusiva e acritica sottomissione all’unica fede politica, una sorta di fanatismo ideologico spesso causa d’intolleranza, e di violenza verbale nei confronti di chi ne professa una diversa.
Il MoV è una tecnocrazia applicata alla politica, le votazioni raccolte su Rousseau, spesso attraverso cordate preconfezionate, scandiscono le tappe elettive, favoriscono il clientelismo più malsano, premiando così figure opache, afone, inespressive e ambigue, cioè l’esatto contrario della meritocrazia tanto proclamata.
Ironia della sorte l’umorismo di Grillo, che avrebbe dovuto rappresentare l’antidoto contro ogni forma di fanatismo, non è servito a salvaguardare la verginità della rivoluzione e ha dovuto cedere di fronte ai vizi della politica: arrivismo, superficialità, clientelismo, arroganza, ottusità, autoreferenzialità.
Dibba a questo punto è sparito, non si conoscono i veri motivi, ma si possono intuire. La sua partenza è stata probabilmente provocata da uno scontro interno tra le diverse anime del MoV, i cui vertici non sono stati in gradi di scongiurare.
Il primo segnale di impazzimento è stata proprio la sua scomparsa dalla scena politica, dopo l’exploit a Parigi presso i Gilets Jaunes che avevano fatto lui e Di Maio a febbraio, e dove era apparso marcato a vista e impedito nei movimenti. Però il tentativo di arginare la perdita di punti nei sondaggi non era riuscito, e l’evento aveva rilevato una spaccatura interna tra i due non ancora irrecuperabile, ma certamente evidente.
Nella gestione di governo i 5 Stelle hanno perso troppo tempo a impedire che le numerose “manine” dell’alleato potessero taroccare l’iter delle leggi da approvare, si sono lasciati anche logorare da un partner/avversario che ha cercato quotidianamente di drenare voti dal loro elettorato al suo, e che in parte c’è riuscito alla grande.  Insomma la maionese richiede diversi ingredienti dosati con precisione, va amalgamata e montata al punto giusto, diversamente impazzisce.
Ora il M5S senza Di Battista è come una Ferrari che non riesce a superare i 100 km orari, questo sembrano dire i sondaggi nel momento in cui c’è ancora molta strada da compiere per l’esecutivo. La legislatura ora dovrà proseguire continuando ad affrontare le prossime sfide: europee, flat tax, def. Ma la partita si fa sempre più difficile e la mancanza di Dibba pesa ogni giorno di più.
In parole povere chi li ha votati comincia a nutrire dei dubbi sulla validità della scelta espressa circa un anno fa, magari temendo di aver puntato sulla squadra sbagliata. I vertici hanno compiuto indubbiamente degli errori strategici, ma il ripristino delle posizioni perse non può avvenire senza un’autocritica seria e costruttiva, che al contrario pare essere stata per il momento scartata.
Non bastano migliaia di likes su Facebook e sorrisi smaglianti stampati in faccia per arginare l’inadeguatezza di certe strategie improvvisate, o dettate da scarse conoscenze storico politiche. Occorrerebbe molta più saggezza, che non può che derivare da sapienza e cultura.
Ed escludere dalla battaglia quotidiana un soggetto così fondamentale come Di Battista, dimostra carenza di quell’ingegno strategico, che non si trova tra gli spot di propaganda.
Dibba per il momento se n’è andato, non voglio pensare che sia stata l’arroganza del potere ad escluderlo, ma indubbiamente è sparito dalla scena politica. Forse dalle lontane radure indiane ripenserà alla verità di quel motto famoso espresso proprio da un vecchio arnese in odore di mafia, che lui si era proposto di combattere: “Il potere logora chi non ce l’ha”.
Oppure si siederà sulle rive del Gange aspettando il passaggio del cadavere di qualche suo nemico.