giovedì 11 aprile 2019

Chi diavolo ha fatto fuori Di Battista? - Rosanna Spadini




Non riesco a capire… spero non sia stato Luigi Di Maio, perché infastidito dalle proteste di Dibba contro l’appiattimento troppo servile nei confronti della Lega, vedi salvataggio per il processo farsa di Salvini che si sarebbe risolto in una strabiliante fuffa. Vedi continue critiche a certe linee di governo che tradivano l’identità originaria del MoV, perché né destra né sinistra non vuol dire dare un colpo al cerchio e uno alla botte in maniera indifferenziata, ma riuscire a bypassare le ideologie, intese come camicie di forza che impediscono di scegliere secondo ragione e buon senso.
Lo aveva detto proprio il vecchio Casaleggio: “Un’idea non è né di destra, né di sinistra, ma è buona o cattiva”. E finora lo slogan identitario era stato rispettato, al contrario di quanto è avvenuto al governo Salvimaio, che ha spesso trascurato lealtà e onestà nei confronti dei suoi elettori.
Di Battista è sparito? Sta facendo un corso di falegnameria che lo attizza parecchio? Sta partendo per l’India? Perché non è presente alla kermesse di Ivrea? Perché non sarà presente alla prossima campagna elettorale per le Europee?
Molte sono le domande che si fanno attivisti ed elettori, ma certo non credono alle sue dichiarazioni, circa il desiderio di mettersi a girovagare per il terzo mondo, inviando ficherrimi reportage al Fatto Quotidiano, sulle sue esperienze antropologico culturali, come fosse un novello Ulisse spinto dalla sete di conoscenza.
Forse però la scomparsa di Di Battista è un segnale molto più diretto e meno enigmatico di quanto possa sembrare, che riguarda la crisi interna e identitaria che sta vivendo il M5S. una forza politica che perde sistematicamente le battaglie amministrative, incapace di mettere radici sul territorio, dominato com’è da un anarchismo strutturale endemico, che genera automaticamente correnti antitetiche in continuo conflitto tra di loro per la conquista di un posto al sole, faide interne concepite soltanto al fine di screditare gli amici/avversari, e per far emergere unicamente i propri paladini.
Se l’anarchismo metodologico aveva favorito la nascita del MoV, e permesso di reclutare velocemente una classe dirigente autogeneratasi per palingenesi spontanea, tratta direttamente dalla società civile, ora sta impedendo il radicamento sul territorio, la vittoria in molte elezioni amministrative e il reclutamento di soggetti capaci in grado di affrontare le sfide politico sociali del presente e del futuro.
Nel tempo l’anarchismo endemico ha provocato la nascita di numerosi feudi territoriali dal forte potere gestionale, probabilmente sfuggiti al monitoraggio dei vertici, che pilotano direttamente le candidature, organizzando pacchetti di voti da destinare ai loro epigoni servili, spesso degli emeriti incapaci, che una volta arrivati a ricoprire qualche carica, o rimarranno legati da vincoli indissolubili ai loro feudatari (in cambio di che?), oppure alla prima occasione passeranno al gruppo misto, tradendo il mandato elettorale e i loro elettori.
Forse per questo Di Battista se n’è andato in India… forse non è riuscito a salvaguardare l’identità del MoV, la sua carica rivoluzionaria, i suoi valori tipici quali onestà, trasparenza, democrazia diretta. Vero che governare significa fare scelte, quindi dividere l’elettorato, però molte sono state le delusioni: Tap, vaccini, scuola, Ilva, salvataggio giudiziario di Salvini, Tav (??).
Nel caso del salvataggio di Salvini la scelta del MoV in quel caso fu assolutamente sbagliata e suicida, i 5 Stelle in quell’occasione tradirono i propri valori e dannarono se stessi. È bastato un anno di governo perché il virus del maschio Alfa strozzasse in fieri la rivoluzione.
Infatti se il MoV avesse veramente voluto cambiare le cose, avrebbe dovuto agire diversamente, senza doversi zerbinare in tante occasioni ai ricatti leghisti, molte vicende in cui all’opinione pubblica è sembrato che a decidere la linea del governo fossero stati i capricci dell’alleato/rivale, più che una vera sintonia esecutiva.
Una vera rivoluzione non dovrebbe essere strozzata sul nascere da pentimenti, rimorsi, rammarichi su quello che si sta facendo, ma l’esatto contrario e cioè dovrebbe essere una continua riaffermazione delle strategie poste in atto e una continua sfida verso le competizioni future.
La rivoluzione 5 Stelle voleva dare risposte a domanda di senso e di prospettiva, cercava di reagire alle ingiustizie e alle diseguaglianze. Ma la famosa “rivoluzione culturale” di cui parlava Grillo in realtà non è mai iniziata, basti solo pensare al fanatismo da parte del MoV nei riguardi della profilazione del candidato simbolo, che deve essere necessariamente giovane, non importa se colto/a, ma sempre un assiduo frequentatore del web, generatore indefesso di post di propaganda, sorriso accattivante e simpatico, abile collezionista di consensi, come fosse il ball boy di una partita di tennis.
Come per i “frati cercatori” di un tempo, che svolgevano l’umile mansione di reperire risorse presso il popolo, gli attivisti e portavoce dei 5 Stelle sono investiti dell’incarico di raccattare voti presso il popolo del web, umili yesmen assolutamente prostrati al volere dei loro capibastone di riferimento, che dettano loro programmi ed eventi da svolgere. I contestatori sono merce da scartare nel meraviglioso e libero mondo del MoV, gli eretici sono roba da bruciare sul rogo perché considerati avversi all’unico vero credo ammissibile, deciso sempre e comunque dai vertici, non certo dalla base, che serve come paravento democratico.
L’unico verbo dei 5 Stelle deve essere la rinuncia alla critica, la completa umiltà, l’obbedienza  volontaria, la pace interiore e l’assoluta fede nello spirito del MoV. Deve essere l’esclusiva e acritica sottomissione all’unica fede politica, una sorta di fanatismo ideologico spesso causa d’intolleranza, e di violenza verbale nei confronti di chi ne professa una diversa.
Il MoV è una tecnocrazia applicata alla politica, le votazioni raccolte su Rousseau, spesso attraverso cordate preconfezionate, scandiscono le tappe elettive, favoriscono il clientelismo più malsano, premiando così figure opache, afone, inespressive e ambigue, cioè l’esatto contrario della meritocrazia tanto proclamata.
Ironia della sorte l’umorismo di Grillo, che avrebbe dovuto rappresentare l’antidoto contro ogni forma di fanatismo, non è servito a salvaguardare la verginità della rivoluzione e ha dovuto cedere di fronte ai vizi della politica: arrivismo, superficialità, clientelismo, arroganza, ottusità, autoreferenzialità.
Dibba a questo punto è sparito, non si conoscono i veri motivi, ma si possono intuire. La sua partenza è stata probabilmente provocata da uno scontro interno tra le diverse anime del MoV, i cui vertici non sono stati in gradi di scongiurare.
Il primo segnale di impazzimento è stata proprio la sua scomparsa dalla scena politica, dopo l’exploit a Parigi presso i Gilets Jaunes che avevano fatto lui e Di Maio a febbraio, e dove era apparso marcato a vista e impedito nei movimenti. Però il tentativo di arginare la perdita di punti nei sondaggi non era riuscito, e l’evento aveva rilevato una spaccatura interna tra i due non ancora irrecuperabile, ma certamente evidente.
Nella gestione di governo i 5 Stelle hanno perso troppo tempo a impedire che le numerose “manine” dell’alleato potessero taroccare l’iter delle leggi da approvare, si sono lasciati anche logorare da un partner/avversario che ha cercato quotidianamente di drenare voti dal loro elettorato al suo, e che in parte c’è riuscito alla grande.  Insomma la maionese richiede diversi ingredienti dosati con precisione, va amalgamata e montata al punto giusto, diversamente impazzisce.
Ora il M5S senza Di Battista è come una Ferrari che non riesce a superare i 100 km orari, questo sembrano dire i sondaggi nel momento in cui c’è ancora molta strada da compiere per l’esecutivo. La legislatura ora dovrà proseguire continuando ad affrontare le prossime sfide: europee, flat tax, def. Ma la partita si fa sempre più difficile e la mancanza di Dibba pesa ogni giorno di più.
In parole povere chi li ha votati comincia a nutrire dei dubbi sulla validità della scelta espressa circa un anno fa, magari temendo di aver puntato sulla squadra sbagliata. I vertici hanno compiuto indubbiamente degli errori strategici, ma il ripristino delle posizioni perse non può avvenire senza un’autocritica seria e costruttiva, che al contrario pare essere stata per il momento scartata.
Non bastano migliaia di likes su Facebook e sorrisi smaglianti stampati in faccia per arginare l’inadeguatezza di certe strategie improvvisate, o dettate da scarse conoscenze storico politiche. Occorrerebbe molta più saggezza, che non può che derivare da sapienza e cultura.
Ed escludere dalla battaglia quotidiana un soggetto così fondamentale come Di Battista, dimostra carenza di quell’ingegno strategico, che non si trova tra gli spot di propaganda.
Dibba per il momento se n’è andato, non voglio pensare che sia stata l’arroganza del potere ad escluderlo, ma indubbiamente è sparito dalla scena politica. Forse dalle lontane radure indiane ripenserà alla verità di quel motto famoso espresso proprio da un vecchio arnese in odore di mafia, che lui si era proposto di combattere: “Il potere logora chi non ce l’ha”.
Oppure si siederà sulle rive del Gange aspettando il passaggio del cadavere di qualche suo nemico.

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