mercoledì 13 luglio 2011

Camorra, ora il Pdl trema. - di Claudio Pappaianni


Luigi Cesaro

Luigi Cesaro, uomo forte di Berlusconi in Campania e re della spazzatura, da ieri è ufficialmente indagato per i suoi rapporti con la cosca dei Casalesi. Un'inchiesta che potrebbe terremotare un intero sistema di potere.

Indagato per camorra: Luigi Cesaro, presidente della Provincia di Napoli, è stato iscritto nel registro degli indagati dalla Direzione distrettuale Antimafia di Napoli con l'accusa di aver avuto rapporti con il gruppo dei Casalesi capeggiato da Francesco Bidognetti per mettere le mani su un affare immobiliare da 50 milioni di euro.

Lo riferisce l'edizione odierna de 'Il Mattino', con un articolo a firma di Rosaria Capacchione, la giornalista che da due anni vive sotto scorta per le minacce subite dai boss del clan dei Casalesi.

A chiamare in causa il deputato vicino al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi è l'avvocato Michele Santonastaso, a lungo legale degli stessi boss attualmente agli arresti.

Le sue rivelazioni, contenute nelle oltre trecento pagine di verbale dell'interrogatorio del 25 marzo scorso, parlano di rapporti tra la camorra, la politica, le imprese e il mondo delle professioni.

Santonastaso, in particolare, si sofferma sulle dichiarazioni di un altro pentito del clan, Luigi Guida detto O' Ndrink, che gli avrebbe parlato degli interessi comuni della famiglia Cesaro e dei Casalesi nell'affare del Pip di Lusciano, piccolo centro del casertano.

In particolare, Cesaro avrebbe offerto a Luigi Guida, incaricato di realizzare i progetti del Pip, una percentuale maggiore per la realizzazione dei lavori di quella già presentata dall'imprenditore Emini.

Nel settembre 2008 era stato 'L'Espresso' con un'inchiesta a firma di Gianluca Di Feo e Emiliano Fittipaldi, a parlare per primo dell'affaire sospetto e dei rapporti tra Cesaro e la mafia di Gomorra, citando le accuse dello stesso Guida e di un altro pentito Gaetano Vassallo.

Cesaro in passato era già stato arrestato e processato per camorra. Erano i tempi della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo: il Presidente della Provincia di Napoli fu arrestato nel febbraio del 1984 e condannato un anno dopo in primo grado a 5 anni. Fu assolto in appello nel 1986, ma non senza che i giudici avanzassero dubbi e sospetti sul suo rapporto con la NCO: «Il quadro probatorio relativo alla posizione del Cesaro non può definirsi tranquillante». E ancora: «Il dubbio che l'imputato abbia, in qualche modo, reso favori ai suddetti personaggi per ingraziarseli sussiste e non è superabile dalle contrastanti risultanze processuali». Ci penserà Corrado Carnevale, passato alla storia come il giudice ammazza-sentenze, a cancellare in Cassazione tutte le accuse a Cesaro, che sarà assolto "per non aver commesso il fatto".

Da allora Giggino A' Purpetta, come lo chiamano a Sant'Antimo, suo paese natale, ne ha fatta di strada: con i buoni uffici dell'amico e collega di partito Nicola Cosentino, e a suon di tessere e mozzarelle fatte recapitare direttamente ad Arcore, Cesaro è riuscito prima a farsi eleggere deputato e poi a conquistare la Presidenza della Provincia della terza città d'Italia. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

A parte le gaffe che lo hanno reso celebre, la caratteristica principale del suo mandato è stata, finora, l'inefficienza. Un esempio su tutti: i rifiuti. Luigi Cesaro avrebbe dovuto aprire una nuova discarica dove portare la monnezza di Napoli. Ha scelto, invece, di portare i rifiuti fuori regione, con costi doppi e risultati pessimi.

La monnezza è ancora lì. Cesaro pure. Per ora.


Mafia, chiesto processo per Romano Il ministro: «Non mi dimetto»


È imputato di concorso in associazione mafiosa.

I pm: rapporti con esponenti di spicco di Cosa Nostra.

Saverio Romano (IPP)
Saverio Romano (IPP)
MILANO - Il ministro delle Politiche agricole Francesco Saverio Romano è formalmente imputato di concorso in associazione mafiosa. La Procura di Palermo ha depositato la richiesta di rinvio a giudizio. L'atto, firmato dal pm Nino Di Matteo e dall'aggiunto Ignazio De Francisci, segue di quattro giorni la decisione del Gip del capoluogo siciliano di rigettare l'istanza di archiviazione inizialmente presentata dalla Procura e di imporre ai magistrati inquirenti l'imputazione. Ora il Gup dovrà fissare entro due giorni l'udienza preliminare, ma il termine è solo ordinatorio. «Non intendo commentare un atto al quale la Procura di Palermo è stata obbligata dopo 8 anni di indagini e due richieste di archiviazione. Continuo a non comprendere come non ci si scandalizzi invece di un corto circuito istituzionale e giudiziario che riguarda chi da un lato ha condotto le indagini e chi dall'altro le ha severamente sanzionate» ha reagito Romano.

«RESTO AL MIO POSTO» - Il ministro ha assicurato inoltre che non farà alcun passo indietro e che anzi è determinato ad andare avanti con il suo lavoro al ministero delle Politiche agricole. Dall'opposizione sono già partite richieste di dimissioni. Duro anche il commento del presidente della Camera Gianfranco Fini che ha detto che non è opportuno che Romano rimanga al suo posto. Romano ha replicato che resta «a testa alta» nel governo Berlusconi e si considera «vittima di un a ritorsione politica» per «aver salvato con il mio voto a dicembre insieme ad altri colleghi la maggioranza e il governo». E intende «tutelare in ogni sede giudiziaria e politica» il proprio «buon nome e onorabilità», denunciando «ad alta voce la strumentalità non dell'atteggiamento delle opposizioni che hanno tutto il diritto di chiedere le mie dimissioni, se lo ritengono» ma dell'«intervento a gamba tesa in una vicenda squisitamente politica da parte del presidente della Camera Gianfranco Fini» che ha denunciato la inopportunità della sua permanenza al governo. «Perché ad oggi - ha affermato Romano in conferenza stampa- di inopportuno c'è solo l'intervento della stessa persona che a dicembre, spogliandosi della terzietà che impone il rivestire la terza carica dello Stato ha raccolto le firme per far cadere il governo».

«IL SUO RUOLO A DISPOSIZIONE DI COSA NOSTRA» - Per i pm che hanno firmato la richiesta di rinvio a giudizio, il ministro Romano avrebbe nel tempo sostenuto Cosa nostra e avuto rapporti diretti o mediati con diversi elementi di spicco dell'associazione mafiosa. «Nella sua veste di esponente politico di spicco, prima della Dc e poi del Ccd e Cdu e, dopo il 13 maggio 2001, di parlamentare nazionale - scrivono i magistrati - Romano avrebbe consapevolmente e fattivamente contribuito al sostegno ed al rafforzamento dell'associazione mafiosa, intrattenendo, anche alla fine dell'acquisizione del sostegno elettorale, rapporti diretti o mediati con numerosi esponenti di spicco dell'organizzazione tra i quali Angelo Siino, Giuseppe Guttadauro, Domenico Miceli, Antonino Mandalà e Francesco Campanella». Secondo i pm, inoltre, il ministro avrebbe «messo a disposizione di Cosa nostra il proprio ruolo, contribuendo alla realizzazione del programma criminoso dell'organizzazione tendente all'acquisizione di poteri di influenza sull'operato di organismi politici e amministrativi».

LA CANDIDATURA DI MICELI - In particolare, nella richiesta di rinvio a giudizio i pm fanno cenno all'interessamento di Romano a candidare, su input del boss Guttadauro, Mimmo Miceli, poi condannato per mafia, alle regionali del 2001. Romano si sarebbe inoltre adoperato per accreditare Miceli e «il suo referente mafioso Guttadauro quali interlocutori da ascoltare nella gestione degli equilibri politici all'interno e all'esterno del Cdu». Infine il ministro, assieme all'ex governatore siciliano Totò Cuffaro, avrebbe assecondato le richieste del capomafia Nino Mandalà inserendo Giuseppe Acanto nelle liste dei candidati del Biancofiore per le regionali del 2001, «nella consapevolezza di esaudire desideri di Mandalà e, più in generale, della famiglia mafiosa di Villabate».



Naoto Kan: “Il Giappone dirà addio al nucleare”.



Il Giappone dirà addio all’atomo: il premier giapponese, Naoto Kan, ha affermato che dopo il disastro di Fukushima il Paese deve “ridurre gradualmente la dipendenza dall’energia nucleare” per puntare sulle energie rinnovabili. “Punteremo a diventare un Paese che può esistere senza energia nucleare”, ha assicurato.

Quattro mesi dopo il terremoto e lo tsunami dell’11 marzo che hanno provocato il più grave incidente nucleare dopo Chernobyl, Kan ha comunicato i piani per il superamento dell’energia atomica in una conferenza stampa trasmessa in diretta tv. Il premier ha ricordato che nonostante il blocco di 35 reattori nucleari su 54, il Giappone “ha una produzione energetica sufficiente per l’estate e per l’inverno”.

“Tenuto conto della gravità dei rischi” emersi con l’incidente di Fukushima, ha ammesso Kan, “ho realizzato che non possiamo andare avanti sul presupposto che si debba solo ricercare una sicurezza per il nucleare”.

L’annuncio rappresenta un passo ulteriore rispetto alla revisione già decisa dal governo del piano energetico nazionale per ridurre la dipendenza dall’energia atomica e prefigura la chiusura di tutte le centrali atomiche, sia pure senza che venga fissata una scadenza.

Parlando dell’incidente di Fukushima, Kan ha affermato che “ci potrebbero volere cinque, dieci anni o anche più per il definitivo smantellamento dei reattori”. Il premier, sotto pressione politica per le inefficienze nella risposta al disastro di Fukushima, punta a fare delle rinnovabili “un pilastro centrale” del nuovo mix energetico del Giappone, con l’avvio già in questi giorni di un dibattito in Parlamento.



Albo avvocati e doppio incarico: nella Casta del Pdl raccolta firme contro la manovra.



Nuovi guai per il governo sulla strada dell’approvazione della finanziaria. Questa volta non si tratta di proteste dell’opposizione o leggi ad personam del premier. Il caso esplode all’interno del Popolo della libertà. Una norma contro la quale si stanno alzando le barricate tra i berlusconiani è quella che renderebbe incompatibile l’incarico di parlamentare con quello di sindaco o di presidente di provincia. Solo alla camera gli “interessati” sarebbero 9 presidenti di provincia e 6 sindaci. “E state pur certi – si assicura ancora nel Pdl – che quella norma deve saltare se vogliono che votiamo la manovra”.

Non solo. E’ in corso, all’interno del Pdl una raccolta delle firme (quelle già raccolte sarebbero un’ottantina) per protestare contro la norma che abolisce l’ordine e l’esame di stato per accedere alla professione. Secondo il disegno del governo, quindi, per esercitare la professione di avvocato sarà sufficiente avere conseguito la laurea e avere svolto il praticantato. “Fino a quando non verrà tolta la norma che abolisce gli ordini professionali, noi il testo – assicura un avvocato del Pdl – non la voteremo mai dovesse anche cadere Tremonti”. Le firme, spiegano poi nel Pdl, verranno consegnate al capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto. Gli avvocati del Pdl sono 44, 13 i medici, un solo notaio.

A difesa della posizione degli avvocati del Pdl, si schiera forse il più noto tra loro: Ignazio La Russa. “Da avvocato ritengo che sia una norma che merita un approfondimento ulteriore. Non mi sembra materia da inserire in un decreto. Ritengo che la protesta degli avvocati – conclude La Russa – non sia affatto irragionevole”.



Stracquadanio cancella la memoria. - di Alberto Capece


La crisi dev’essere veramente grande se persino il pasionario di Silvio ha deciso di chiudere il suo blog. Si, Straquadanio getta la spugna e abbandona al suo destino ”Il predellino” , quel turibolo in forma di bit che l’onorevole agitava come una vestale del tempio berlusconiano e la cui stessa testata del resto rimandava a una concezione servile.

Vestale sì, ma tutt’altro che vergine perché Straquadanio è uno straordinario voltagabbana che si è passato praticamente tutto l’arco della politica, sempre assolutamente convinto dalle idee di chi gli forniva uno stipendio o una borsa da portare. In questa capacità di mimesi, nell’assenza di convinzioni non monetizzabili, Straquadanio è davvero il prototipo dell’ homo berlusconensis.

E tuttavia i tempi moderni e il web sono abbastanza pericolosi per questi navigatori del fideismo opportunistico, perché ciò che si è detto, rimane a portata di click, non svanisce facilmente dentro gli archivi dei giornali o le memorie compiacenti. Così la chiusura del Predellino non solo è la consapevolezza del ridicolo di cui si coprirebbe in un prossimo futuro da ultimo dei moicani, non solo dimostra l’intenzione di non celebrare più messa e di scomparire dentro gli anfratti carsici della politica, ma anche il tentativo di cancellare il più possibile la memoria.

Già adesso dopo il post di addio, gran parte dei contenuti del blog sono inaccessibili: tutto cambia e dal predellino Straquadanio tenterà di ricomparire su un inginocchiatoio o su una poltrona Frau, cercando di far dimenticare il suo precedente sacerdozio. Se un giorno qualcuno dovesse ricordargli il Predellino, gli insulti alla magistratura, le accuse di infedeltà rivolte persino ad Alfano, tutte cose di cui non saranno rimasti altro che brandelli nel web dopo questa chiusura, magari avrà il coraggio di dire che era solo ironia sparsa senza che nessuno la comprendesse. Peccato che l’ironia la facesse inginocchiato.

http://ilsimplicissimus2.wordpress.com/2011/07/13/stracquadanio-cancella-la-memoria/


Il dirigente regionale va in pensione. Riceverà ogni giorno 1.369 euro. - di EMANUELE LAURIA


La Regione concede una pensione record all'ex presidente dell'agenzia dei Rifiuti, Felice Crosta: 1.369 euro al giorno. Un assegno pari a più del doppio dell'indennità del presidente della Repubblica. Ne usufruirà l'ex direttore dell'Agenzia dei rifiuti sciolta da poco.


L'ultimo grand commis dell'ente più generoso d'Italia, alla fine, si è portato a casa una pensione da favola: mezzo milione di euro l'anno. Ha lottato un paio d'anni, l'avvocato Felice Crosta, per un diritto che alla fine gli è stato riconosciuto dalla Corte dei Conti. Quei soldi gli spettano. Perché così ha stabilito una legge della Regione siciliana, approvata nella stagione d'oro del governatore Cuffaro. E l'amministrazione, proprio in questi giorni, si sta adeguando, aprendo la cassa. Mezzo milione. Cioè 41.600 euro al mese, 1.369 euro al giorno. Cifra lorda, sia chiaro. Ma destinata a fare impallidire persino capi di Stato, governatori di Bankitalia e giudici della Corte costituzionale: Giorgio Napolitano, per dire, ha un'indennità annua di circa 220 mila euro. Carlo Azeglio Ciampi, prima di insediarsi al Quirinale, si vide riconoscere da Palazzo Koch una pensione da 34 mila euro al mese.

Mentre Romano Vaccarella e Gustavo Zagrebelsky, ex presidenti della Consulta, percepiscono rispettivamente assegni di quiescenza pari a 25.097 e 21.332 euro mensili, secondo i dati rivelati da L'Espresso nel 2008. Il superburocrate siciliano, insomma, non si limita a doppiare i colleghi della Regione, tutti beneficiati dal vecchio sistema di calcolo retributivo, ma si candida a tutti gli effetti per la palma del dipendente pubblico più pagato d'Italia. Fra quelli in servizio e a riposo. Sfondando con decisione pure il tetto ai trattamenti previdenziali "obbligatori" posto nell'ormai lontano ottobre del 2003 dal consiglio dei ministri: 516 euro al giorno, il vecchio milione di lire. Crosta quasi triplica quella somma.

Il sultano dei servitori della pubblica amministrazione è un dirigente di lungo corso che negli ultimi due lustri ha gestito l'emergenza rifiuti in Sicilia. Un'emergenza che non è finita: gli Ato, gli organismi che dovevano assicurare il servizio di raccolta e smaltimento, hanno accumulato oltre un miliardo di debiti, la gara per i termovalorizzatori è stata annullata dall'Unione europea e i cassonetti stracolmi autorizzano ormai i paragoni con la Campania. Ma Crosta, prima da vicecommissario per l'emergenza poi da capo dell'agenzia siciliana per i rifiuti, in questi anni ha visto accrescere i propri compensi fino a 460 mila euro. Una cifra che il suo mentore, l'ex governatore Salvatore Cuffaro, gli accordò nel marzo 2006. Un'indennità che a Crosta è valsa come base pensionabile, in forza di un emendamento approvato dall'Assemblea regionale siciliana a fine 2005, cioè proprio alla vigilia della sua nomina: un caso? Chissà. Di certo, nella Regione dove oggi impera Raffaele Lombardo - che ha rotto con l'ex amico Cuffaro - oggi non si fanno salti di gioia.

Anche perché, oltre all'assegno mensile, l'ente dovrà riconoscere a Crosta circa un milione di arretrati e la somma relativa alla rideterminazione del Tfr. In un primo momento, l'amministrazione si era opposta alla liquidazione della maxi-pensione, riconoscendo "solo" 219 mila euro all'ex dirigente. Crosta si è però rivolto alla Corte dei Conti che ha attestato il suo diritto. La legge si può discutere. Ma va applicata. "Non si tratta certo di un regalo, io ho lavorato per 45 anni", si difende l'interessato. La Regione siciliana dai conti in rosso - due miliardi di deficit - non ha potuto che fare appello alla sentenza della magistratura contabile.
L'ultimo beneficio, peraltro, va a pesare su una spesa previdenziale già ragguardevole: oltre 560 milioni per pagare le pensioni di un esercito di ex dipendenti (14.917) più folto del personale in servizio. Tutti a carico del bilancio, perché la Regione siciliana è fra i pochi enti in Italia a non avere ancora attivato un fondo quiescenza, pur avendolo istituito per legge.

E continua a erogare baby-pensioni a tutti coloro che dimostrano di avere un parente infermo da accudire. Un'estensione tutta siciliana della legge 104 - anch'essa figlia di una norma varata dall'Ars - che ha premiato negli ultimi anni 700 impiegati andati a riposo con 25 anni di anzianità (ne bastano 20 per le donne). Ne ha approfittato anche l'ex segretario generale Pier Carmelo Russo. Che a dicembre, dopo il pensionamento, è stato promosso assessore regionale dal governatore Lombardo.

http://palermo.repubblica.it/cronaca/2010/03/19/news/il_dirigente_regionale_va_in_pensione_ricever_ogni_giorno_1_369_euro-2767043/


Per cambiare davvero. Elezioni, partiti, partecipazione. - di Gustavo Zagrebelsky

1. Qualche mese fa, Libertà e Giustizia si è espressa sulla questione elettorale con una formula chiara, impegnativa e, secondo me, ancora pienamente valida: mai più alle urne con questa legge, una legge palesemente incostituzionale. Non è nemmeno il caso di ritornare, se non per accenno, sugli argomenti che motivarono quella nostra posizione: l’assurdo premio che trasforma una piccola minoranza (sia pure la più grande delle piccole) degli elettori in una larghissima maggioranza in Parlamento; il “blocco” delle liste dei candidati, prescelti (nominati) dai vertici dei partiti e imposti ai cittadini, ai quali si chiede non di eleggere i propri rappresentanti, ma di dare un voto di fiducia al partito che, quei candidati, ha selezionato secondo logiche sempre più verticistiche e opache. Oggi, possiamo dire che il motivo del nostro “mai più alle urne…” si riassume così: come cittadini elettori, non siamo più disposti a sostenere il ruolo di portatori d’acqua nell’interesse di burocrazie di partiti che usano i posti dei rappresentanti dei cittadini in Parlamento come loro proprietà, per distribuire favori, per ricompensare d’altri favori, per assicurarsi la fedeltà di clienti. Non siamo più disposti a collaborare a tenere in piedi un sistema politico fatto di clientele che si avvolgono e attorcigliano in giri di potere che sempre più spesso – come veniamo a sapere, ormai neppure più sorprendendocene, giorno dopo giorno – operano oltre i confini della legalità.

2. I fatti recenti giustificano ulteriormente, se mai ce ne fosse stato bisogno, quel nostro appello che dunque – mi pare – debba essere ribadito anche ora. Le nostre ragioni non riguardano le convenienze di parte. Anche se qualcuno ritenesse che la legge attuale, che porta il nome di Calderoli, nelle presenti condizioni degli orientamenti popolari, potrebbe servire a sconfiggere il centro-destra e a far vincere il centro-sinistra: anche se così fosse, non dovremmo farci prendere da questo genere di argomenti. Non solo le previsioni sono sempre aleatorie; soprattutto, in materia di democrazia e costituzione dobbiamo ragionare indipendentemente dalle (presunte) convenienze particolari e contingenti. Se così non facessimo, finiremmo per adeguarci a coloro che in tutto questo tempo di degrado della vita pubblica abbiamo criticato per la loro concezione strumentale delle istituzioni, tutti coloro che le hanno umiliate ponendole al servizio degli interessi di alcuni contro quelli degli altri. Libertà e Giustizia ha tutt’altra concezione della res publica. Quando – a iniziare dalla manifestazione del 5 febbraio al Palasharp – abbiamo chiesto le dimissioni del Presidente del Consiglio, non l’abbiamo fatto come atto di opposizione meramente politica o, tantomeno, come manifestazione d’intolleranza personale, ma come atto di difesa delle istituzioni, mai come ora dileggiate, privatizzate, violentate. Il problema di un’associazione di cultura politica come Libertà e Giustizia non è sconfiggere un avversario con i suoi stessi mezzi, ma incominciare a ragionare e operare per ricostruire la vita pubblica del nostro Paese su altre basi.

3. Il nostro “mai più alle urne…” mirava (e mira) a ottenere l’abrogazione dell’attuale legge Calderoli, ma non era finalizzato a introdurne specificamente un altro, come oggetto di una scelta preferenziale tra le diverse opzioni possibili. Eravamo e siamo perfettamente consapevoli che, al momento, le opinioni sono divise, non solo all’esterno di Libertà e Giustizia ma anche al suo interno: la divisione maggiore riguarda la scelta tra la prospettiva maggioritaria e quella proporzionale e, all’interno di queste opzioni, tra le numerose possibilità di articolazione che la fantasia elettoralistica e gli esempi di diritto elettorale comparato offrono con dovizia ai nostri volenterosi riformatori: premi di maggioranza e clausole di sbarramento, dimensioni delle circoscrizioni, recupero dei voti, turno singolo e doppio, apparentamenti, desistenze, ecc., tutte cose che fanno le delizie e le paure dei direttamente interessati. Eravamo e siamo consapevoli del fatto che, se ci s’incammina nella selva delle tante possibilità, il risultato era, è e sarà la somma d’ipotesi contraddittorie che non si sommano nel risultato ma si sottraggono, con l’effetto di paralizzare la riforma e confermare la legge elettorale in vigore: a onta di tutte le dichiarazioni d’intenzione di coloro che sinceramente dicono di volerla cambiare e a beneficio di coloro che lo dicono solo pro forma, mentre in realtà si augurano che nulla cambi, per poter continuare a godere delle delizie ch’essa offre al sistema di potere delle oligarchie di partito.

4. Poiché, peraltro, un sistema elettorale deve pur esserci, non bastando dire di no a quello in vigore, avevamo indicato il ripristino di quello anteriore, che prende il nome dal suo inventore, Sergio Mattarella, come soluzione temporanea che avrebbe potuto colmare decorosamente il vuoto determinato dall’abrogazione della legge Calderoli. Tutto ciò in attesa che, nei tempi necessari e certamente non brevi, venisse a formarsi in Parlamento un consenso sufficientemente vasto su una riforma elettorale semplice, facilmente comprensibile per i cittadini, dettata nell’interesse della democrazia e destinata a valere stabilmente per il futuro. A questo fine, avevamo indicato la strada più semplice: una piccola legge fatta di due proposizioni: è abrogata la legge attuale ed è riportata in vita la legge precedente. La strada più semplice, ma anche la più sicura. La via alternativa – il referendum abrogativo sulla legge vigente – era ed è di incerta percorribilità: non è detto che dall’abrogazione derivi di per sé il ripristino della legge precedente. Potrebbe semplicemente determinarsi il vuoto, ma il vuoto, in materia elettorale, è inconcepibile perché renderebbe impossibile il rinnovo degli organi elettivi e bloccherebbe la democrazia in uno dei suoi aspetti maggiori. Per questo, si temeva e si teme l’eventualità che un simile referendum non superi il vaglio di ammissibilità presso la Corte costituzionale.

5. In Parlamento, in questi mesi, nulla di significativo è accaduto e ora ci si trova, nel tempo stretto che precede le prossime elezioni politiche, in presenza di diverse iniziative referendarie, per le quali è iniziata o sta per iniziare la raccolta delle 500.000 firme necessarie. Ancora una volta, siamo nel pieno della confusione. Tutti mirano all’abrogazione della legge vigente e, in questo, meritano il sostegno di Libertà e Giustizia, coerentemente con la posizione assunta a suo tempo, e (allora) per tempo. Tuttavia, un’iniziativa (Passigli) avrebbe come effetto il ripristino della proporzionale (con lo sbarramento contro la frammentazione al 4%, ma – a quel che è dato capire – col mantenimento delle liste bloccate); un’altra (settori del PD) riproporrebbe la legge Mattarella (una combinazione di logica proporzionale e logica uninominale maggioritaria); un’altra ancora, spuntata nell’ultima ora (costituzionalisti vari), preluderebbe a un sistema esclusivamente maggioritario-uninominale. Nessuna di queste iniziative si presenta accompagnata da una ragionevole probabilità d’essere ammessa dalla Corte costituzionale, o per il carattere accentuatamente manipolativo dell’operazione di taglia-cuci sul testo della legge in vigore, o per l’incerta speranza che all’abrogazione pura e semplice della legge vigente segua l’automatica rinascita della legge precedente. In più – aspetto non considerato finora – le tre iniziative sono così diverse l’una dall’altra da impedire che possano raggrupparsi per somiglianza, finendo per elidersi l’una con l’altra: supponiamo che, nel referendum, due o tutte e tre ottengano la maggioranza. Sarebbe il caos. Quale sarebbe la legge elettorale sulla quale si potrebbe contare? Presumibilmente, questo scenario da incubo costituzionale spingerebbe la Corte costituzionale sulla via dell’inammissibilità e tutto resterebbe fermo, come prima, come adesso. Con la massima soddisfazione di coloro che dicono che tutto deve cambiare perché nulla cambi.

6. Conclusione prima. L’unica strada percorribile – solo che la si voglia percorrere – è ancora quella cheLibertà e Giustizia ha suggerito a suo tempo. Basterebbe una piccola legge votata in Parlamento composta di due frasi: la legge Calderoli è abrogata; la legge Mattarella è riportata in vigore. Nessuna prospettiva per il futuro sarebbe pregiudicata e i proporzionalisti come i “maggioritaristi” potrebbero lavorare per costruire in futuro il consenso necessario alla proprie posizioni. A prima vista, in questa congiuntura politica, se esiste una “classe dirigente”, come ama autodefinirsi, non dovrebbe essere del tutto fuori del campo delle sue possibilità costruire le alleanze parlamentari in vista di questa temporanea soluzione. Il rischio che si corre, a mantenere la legge vigente così com’è o a prospettare ora nuove soluzioni legislative farraginose e del tutto prive di possibilità di successo (come quella ventilata in sede PD, di un sistema maggioritario a doppio turno con recupero proporzionale e “diritto di tribuna”: cosa allettante per il pubblico!) è molto elevato. Il “mai più alle urne…” è una parola d’ordine diffusissima. A parte l’astensionismo, che è un problema che riguarda la democrazia come tale, prima ancora che i singoli partiti che ne sono colpiti, dovrebbe suonare come campanello di grande allarme il fatto che non c’è ormai manifestazione pubblica non promossa da partiti in cui si chieda loro esplicitamente di non farsi vedere. La riprova dell’autoreferenzialità del sistema politico, accertata dall’incapacità di toccare un sistema elettorale che pur si riconosce contraddire i presupposti della democrazia rappresentativa, accentuerebbe il distacco dai cittadini e butterebbe al vento, forse irreversibilmente, il desiderio di partecipazione che si è riacceso negli ultimi tempi.

7. Conclusione seconda. Sebbene i referendum in campo siano tutti problematici e tali da dividere le forze tra diverse opzioni elettorali, la raccolta delle firme può essere utilizzata – come dice anche Valerio Onida – per una campagna di mobilitazione delle opinioni e di pressione politica sul Parlamento, affinché se ne sblocchi l’inerzia. I referendum possono anche avere questa funzione di chiamata a raccolta della partecipazione politica e di stimolo, se non di avvertimento, nei confronti di coloro che i cittadini devono rappresentare. Ma manteniamo ferma la nostra speranza in un’estrema prova di responsabilità di coloro che siedono in Parlamento.

http://www.libertaegiustizia.it/2011/07/12/per-cambiare-davvero/


Governo al rimpasto L'idea del Cavaliere. - di Francesco Verderami


Il presidente del Consiglio vuole rafforzare l'esecutivo: il mio orizzonte era e resta il 2013.

Berlusconi
Berlusconi
MILANO - Non basta porre al riparo l'economia italiana perché il governo possa sentirsi al riparo da un logoramento già in atto. Perciò, dopo la manovra sui conti pubblici, Berlusconi dovrà procedere alle manovre per il riassetto dell'esecutivo.

All'emergenza dei mercati si affianca infatti l'emergenza di una compagine ministeriale da ristrutturare, se davvero il centrodestra vuole completare la legislatura senza inciampi, senza essere cioè costretto a passare la mano. L'idea è che il Cavaliere attenda l'autunno per un rimpasto, così da realizzare il suo obiettivo, siccome ripete sempre che «il mio orizzonte era e resta il 2013». E tuttavia già lo attende una prova che si è resa inevitabile dopo l'elezione di Alfano alla segreteria del Pdl: la nomina di un nuovo Guardasigilli. A Mirabello, venerdì scorso, il ministro della Giustizia aveva annunciato che si sarebbe dimesso entro questa settimana. Così sarà: con ogni probabilità venerdì prossimo lascerà l'incarico per dedicarsi esclusivamente al partito.
A Berlusconi serve un sostituto, quindi, e serve subito. Ma soprattutto gli serve un nome su cui poter incrociare il gradimento del capo dello Stato, che - guarda caso - ha accorciato la visita programmata in Croazia. Venerdì, invece di recarsi a Pola, Napolitano tornerà infatti a Roma «per impegni riconducibili alla manovra e alla complessiva situazione che ne deriva». Il lessico quirinalizio lascia intuire che il presidente della Repubblica rientrerà in Italia non solo per la firma del decreto economico.


E chissà se il capo dello Stato, sull'aereo che lo riporterà nella Capitale, siederà accanto a chi di lì a poco sarà il prossimo Guardasigilli. Chissà se chi lo avrà accompagnato nel viaggio cambierà nel giro di poche ore incarico: l'attuale ministro degli Esteri. È su Frattini che le voci si sono fatte insistenti, è lui il più accreditato e probabile successore di Alfano alla Giustizia. Dopo un mese la rosa dei nomi ha perso (quasi) tutti i petali: constatata l'indisponibilità di Cicchitto a lasciare la guida del gruppo Pdl alla Camera, messa agli atti la volontà di Lupi di restare alla vice presidenza di Montecitorio, si è tornati su Frattini, che pure era stato in precedenza contattato e aveva declinato l'offerta. Ora però Berlusconi sarebbe tornato a premere, chiedendo «un sacrificio» al titolare della Farnesina, che si trincera dietro un «no comment».


Se così fosse, risolto il problema del Guardasigilli si porrebbe però subito il problema del sostituto di Frattini. E qui si entra nel campo delle ipotesi, siccome le variabili sono numerose. Non c'è dubbio che Berlusconi avrebbe un po' di tempo per trovare un nome gradito al Colle. Al contrario della Giustizia, infatti, il premier potrebbe assumere l'interim della Farnesina. A meno che le voci di Palazzo non trovino poi clamorosa conferma, e davvero Tremonti lasci il dicastero dell'Economia appena il Parlamento avrà dato via libera alla manovra. Da giorni se ne parla nei pissi pissi del Transatlantico, anche se l'inquilino di via XX settembre aveva smentito proprio al Corriere l'intenzione di dimettersi.
È vero che nell'ultima settimana le cose sono precipitate, che nel frattempo i contrasti con il Cavaliere hanno toccato l'acme, che le vicende giudiziarie legate al «caso Milanese» - come testimoniavano ieri quanti lo hanno incontrato - lo hanno provato, e che le speculazioni finanziarie hanno intaccato l'immagine di chi era considerato uno «scudo» per l'Italia sui mercati. Ma se così fosse, se davvero Tremonti si dimettesse, accetterebbe poi di trasferirsi alla Farnesina?


È certo che «il rapporto fiduciario con Berlusconi si è rotto»: i ministri più vicini al Cavaliere non ne fanno più mistero. Così com'è vero che il premier in queste settimane ha svolto un sondaggio a Bruxelles per verificare l'impatto nell'Unione di un cambio della guardia all'Economia. Fonti qualificate del governo raccontano che nel colloquio avuto con il capo dell'eurogruppo Juncker, Berlusconi abbia affrontato l'argomento, parlandone come di una «ipotesi», e abbia accennato a un «autorevolissimo economista» come possibile sostituto di Tremonti. Ma senza fare nomi.
Un simile cambio della guardia, però, non potrebbe essere derubricato a semplice rimpasto, si tratterebbe infatti di una autentica rifondazione dell'esecutivo, che avrebbe bisogno di un nuovo battesimo parlamentare: si tratterebbe di un Berlusconi-bis. E il Cavaliere non sembra avere oggi la forza per procedere a un'operazione del genere, nonostante circolino voci sulla sua volontà di «valorizzare» alcuni ministri, come Sacconi, e di spostarne altri, come Brunetta. Senza dimenticare che resta da assegnare l'incarico delle Politiche comunitarie, lasciata vacante da Ronchi.

Insomma, dopo aver portato a casa la manovra economica, servirà del tempo al premier per prepararsi politicamente alle manovre di governo. Perciò, nell'eventualità, l'appuntamento è spostato per l'autunno, quando anche le inchieste giudiziarie potrebbero avere un ruolo nelle scelte. Ma nella Lega c'è chi - come Maroni - ritiene che il rilancio non possa limitarsi a un valzer delle poltrone, bensì passi attraverso l'azione di governo. Iniziando ad esempio dall'approvazione della legge delega per la riforma del fisco già prima della pausa estiva, come Bossi ha chiesto a Pontida.
L'autunno sarà caldo per il Cavaliere, malgrado anche stavolta abbia passato indenne l'«ora x» che prevedeva in prossimità della manovra economica una manovra di Palazzo per disarcionarlo: a parte i nomi dei possibili successori, mancano i numeri e le condizioni politiche in Parlamento. Perciò anche ieri il premier si è fatto forte, ribadendo la compattezza e la coesione della sua maggioranza. È stata la risposta a chi voleva spodestarlo. Ma senza un rilancio dell'esecutivo, Berlusconi rischia di trasformarsi in Pirro.



Da Tremonti a Monti? Non è la soluzione per uscire dalla crisi. - di Alfonso Gianni


“Stringiamci a coorte”, l’Italia è al centro di un attacco speculativo! Questo è il tono, ma anche la sostanza degli appelli e delle valutazioni politiche che derivano dall’aggravarsi delle condizioni finanziarie del nostro paese. A partire da quelli di Giorgio Napolitano e di Mario Draghi, titolari delle uniche due istituzioni – la Presidenza della Repubblica e la Banca d’Italia – che ancora godono di credibilità, dentro e fuori dai confini patrii, e nel primo caso persino di sostegno popolare.

In effetti la botta venerdì c’è stata e non è che alla riapertura dei mercati le cose vadano meglio per il nostro paese. Lo spread, cioè il differenziale, fra i buoni del tesoro decennali di casa nostra e quelli tedeschi ha superato i 280 punti base. Se si considera che un aumento dei tassi di interesse di cento punti base a regime comporta un aggravio di circa 20 miliardi, è evidente che la manovra economica recentemente partorita dal governo, con grandi polemiche interne, non è per nulla sufficiente neppure sotto il profilo quantitativo. In sostanza potrebbe rapidamente gonfiarsi e i liberisti di casa nostra (come Perotti e Zingales su Il Sole 24Ore) già premono per raggiungere il pareggio di bilancio totale in un solo anno con una manovra di proporzioni mai viste finora – ovvero del 4% del Pil, ben oltre i 60 miliardi di euro – a colpi di dismissioni della partecipazione statale in Eni, Enel, Poste, Finmeccanica e Rai.

Ma non c’è nessun particolare complotto contro il nostro paese. Semplicemente i celebratissimi mercati stanno esercitando la loro funzione, quella per la quale sono nati, ossia valutare il rischio, il che non significa naturalmente che ci prendano sempre. Se un paese comincia a traballare è il momento di vendere i titoli del suo debito pubblico. Se quel paese vuole continuare a piazzarli deve garantire agli investitori un rendimento sempre maggiore quanto più è il rischio cui si sottopongono. Le tre agenzie di rating moltiplicano le paure. Tra mercato e speculazione non c’è linea di demarcazione. Questo è il capitalismo finanziario. La maggiore trasparenza per i ribassisti come vuole la nostra Consob, in un paese ove le vendite allo scoperto sono pienamente lecite, sarebbe solo un pannicello caldo.

Vi è però da chiedersi che cosa in particolare giustifichi il nervosismo dei mercati nei nostri confronti. Le ragioni sono come al solito più d’una, un complesso di cose avrebbe detto Paolo Conte. Su tutte ne spiccano due: la decomposizione del berlusconismo e la intrinseca scarsa credibilità della manovra finanziaria. Quest’ultima in parte deriva dalla prima ragione, in larga parte per come è stata concepita dal Ministro dell’Economia, che pure dovrebbe essere il punto di riferimento dei mercati internazionali e garantire al berlusconismo di sopravvivere a Berlusconi stesso.

La crisi del berlusconismo ha anche il suo lato comico, in cui se ne dicono e se fanno di ogni – e Tremonti non è risparmiato -, ma più concretamente è rappresentato dallo sfarinamento del suo blocco sociale ed elettorale che le recenti elezioni amministrative, e per il loro verso, i referendum hanno messo impietosamente in luce. La stessa sentenza che condanna Berlusconi a risarcire la Cir di Debenedetti può essere vista come una riscrittura della storia del capitalismo italiano sia in senso contro fattuale (cosa sarebbe successo se Debenedetti avesse per tempo coronato il suo sogno di costruire il più grande gruppo editoriale italiano) che in senso fattuale (visto che lo spostamento di risorse e prestigio dall’uno all’altro dei contendenti non è di piccolo conto). Dall’insieme di queste vicende, il ruolo dello stato nazionale italiano come buon allocatore di investimenti finanziari stranieri ne risulta profondamente scosso.

La manovra tremontiana promette sfracelli e lacrime e sangue, ma a conti fatti convince poco le vestali del rigore finanziario. Essenzialmente perché buona parte di essa è caricata sulle spalle dei governi che verranno ed è affidata agli effetti che avrà la legge delega di riforma fiscale, i cui contenuti sono ancora indeterminati per quanto si annuncino pessimi per chi vive del solo reddito del proprio lavoro. Da qui la richiesta di anticiparla a tutti gli effetti. Ma una maggioranza e un governo costantemente sull’orlo di una crisi di nervi e in minoranza nel paese reale non danno affidamento per un’operazione così dura.

Per questo Napolitano alza la voce, e Bersani e Casini la raccolgono in quel di Bologna. L’ipotesi di un governo di unità nazionale, di una union sacrèe, magari con un passaggio di consegne da Tremonti a Monti – eterno candidato di queste operazioni – è quindi qualcosa di più di una folata estiva. L’accordo interconfederale che fa rientrare la Cgil nei giochi di una contrattazione senza democrazia vorrebbe costituire la base neocorporativa di una simile operazione. E’ la traduzione sul piano politico nazionale dell’errata convinzione per cui non si potrebbe fare altro che quello che la Ue ci dice di fare. La quale insiste e aggrava la sua strada rigorista aumentando il costo del denaro, mentre dall’altra parte dell’Oceano si discute addirittura di come splafonare il tetto dell’indebitamento che pure ha quasi raggiunto l’intero Pil statunitense.

Non è affatto detto che l’operazione vada in porto. Intanto però un certo risultato lo ha raggiunto. A quanto si sente, il decreto finanziario verrà accolto in parlamento da un’opposizione morbida, cui si accoderebbe persino un neo dialogante Di Pietro. Ma in questo modo si disperde quel vento di cambiamento che aveva cominciato a gonfiare le vele di una possibile alternativa. E’ quindi decisivo che a livello sociale non avvenga la stessa cosa. E che la sinistra del centrosinistra sappia indicare una strada alternativa di politica economica in Europa e in Italia. Le idee non mancano. Provare a metterle assieme non sarebbe male.

http://www.sinistraecologialiberta.it/articoli/da-tremonti-a-monti-non-e-la-soluzione-per-uscire-dalla-crisi

Il VATICANO VESTE PRADA




Ghedini: "Fininvest pagherà" Cir invia richiesta alle banche


Il legale del premier: "La sentenza sarà rispettata, speriamo nel giudizio di Cassazione". Gli avvocati della società di De Benedetti avviano la procedura per il risarcimento di 560 milioni. Ed esclude ogni possibilità di intervento legislativo sul Lodo. Cir e Mondadori in rialzo a piazza Affari.


MILANO - "Fininvest pagherà e speriamo poi che riavrà i soldi indietro quando la Cassazione farà giustizia". Lo ha affermato il legale del premier e parlamentare del Pdl, Niccolò Ghedini, in merito alla sentenza sul risarcimento per la vicenda del Lodo Mondadori 1, spiegando che "certamente i giudici non sospenderanno" l'esecutività del provvedimento che ha condannato la Fininvest a pagare 560 milioni di euro alla Cir. E a una domanda nel merito della sentenza, il legale ha risposto: "Mi sarei stupito se i giudici avessero deciso il contrario". I legali della Cir hanno inoltrato, secondo l'agenzia Ansa, la richiesta di pagamento dei 560 milioni di risarcimento stabiliti nel secondo grado sul Lodo Mondadori, a Intesa Sanpaolo, capofila delle banche che hanno prestato la fideiussione di 806 mln a Fininvest. Secondo l'agenzia Asca, per la Cir sarà possibile incassare il risarcimento soltanto tra 10 giorni lavorativi. Calendario alla mano e salvo imprevisti, i 560 milioni di risarcimento arriveranno nella disponibilità dell'azienda entro fine mese.

La procedura, a questo punto, è avviata e non sono previsti nuovi tentativi di blocco. "Non c'è nessuna ipotesi di legge, lo escludo categoricamente", ha aggiunto Ghedini, in Tribunale a Milano per l'udienza Mediatrade, rispondendo ai cronisti che gli chiedevano se era "in cantiere" qualche progetto di legge per intervenire sulla sentenza di sabato scorso. Anche se, secondo l'avvocato, la cosiddetta norma "salva-Fininvest" che era stata inserita in un primo tempo nella manovra economica e poi è stata ritirata, affermava comunque "un principio di civiltà".

"Giudici prevedibili". Sul dibattimento Mediatrade Ghedini ha affermato: "Speriamo che il Gup ci dia ragione, ma è statisticamente difficile, perché la prevedibilità qua a Milano è abbastanza evidente". La decisione del Gup dovrebbe arrivare dopo l'estate. L'avvocato ha aggiunto di aver sollevato nell'udienza di oggi la questione dell'incompetenza territoriale del tribunale di Milano a decidere e che a suo avviso la competenza è di Roma.

Borsa, Cir in rialzo. Acquisti sulla Cir a Piazza Affari, dopo che l'ondata ribassista aveva investito ieri anche il gruppo beneficiario della sentenza sul Lodo Mondadori. Il titolo, che ieri aveva perso il 7,21%, al giro di boa guadagnava il 2,83% a 1,7 euro. Leggera accelerazione anche per Mondadori, che a metà sessione segnava +1,25% a 2,27 euro. Rallenta Mediaset, che si ferma sulla parità. Scendono, infine, gli altri titoli della galassia De Benedetti: la holding Cofide cede il 2,41% e il gruppo Espresso l'1,22%.

Striscione: "Silvio non mollare". Intanto, alcuni tifosi del Milan hanno appeso uno striscione a Milanello, dove la formazione rossonera si è radunata per dare inizio alla stagione, con chiaro riferimento alla vicenda Mondadori: "Presidente, dai tuoi tifosi: non mollare!". Berlusconi ha annullato la sua presenza in segno di lutto per la scomparsa di Roberto Marchini 2, il militare italiano ucciso in Afghanistan. Ai tifosi risponde Adriano Galliani: "Il presidente Berlusconi mi ha incaricato di farvi sapere che non solo rimane ma lo fa con grande entusiasmo. Posso dire che non mollerà". Parole che rassicurano i sostenitori dopo le voci secondo cui la sentenza sul Lodo Mondadori avrebbe indotto il Cavaliere a vendere il club.