“Stringiamci a coorte”, l’Italia è al centro di un attacco speculativo! Questo è il tono, ma anche la sostanza degli appelli e delle valutazioni politiche che derivano dall’aggravarsi delle condizioni finanziarie del nostro paese. A partire da quelli di Giorgio Napolitano e di Mario Draghi, titolari delle uniche due istituzioni – la Presidenza della Repubblica e la Banca d’Italia – che ancora godono di credibilità, dentro e fuori dai confini patrii, e nel primo caso persino di sostegno popolare.
In effetti la botta venerdì c’è stata e non è che alla riapertura dei mercati le cose vadano meglio per il nostro paese. Lo spread, cioè il differenziale, fra i buoni del tesoro decennali di casa nostra e quelli tedeschi ha superato i 280 punti base. Se si considera che un aumento dei tassi di interesse di cento punti base a regime comporta un aggravio di circa 20 miliardi, è evidente che la manovra economica recentemente partorita dal governo, con grandi polemiche interne, non è per nulla sufficiente neppure sotto il profilo quantitativo. In sostanza potrebbe rapidamente gonfiarsi e i liberisti di casa nostra (come Perotti e Zingales su Il Sole 24Ore) già premono per raggiungere il pareggio di bilancio totale in un solo anno con una manovra di proporzioni mai viste finora – ovvero del 4% del Pil, ben oltre i 60 miliardi di euro – a colpi di dismissioni della partecipazione statale in Eni, Enel, Poste, Finmeccanica e Rai.
Ma non c’è nessun particolare complotto contro il nostro paese. Semplicemente i celebratissimi mercati stanno esercitando la loro funzione, quella per la quale sono nati, ossia valutare il rischio, il che non significa naturalmente che ci prendano sempre. Se un paese comincia a traballare è il momento di vendere i titoli del suo debito pubblico. Se quel paese vuole continuare a piazzarli deve garantire agli investitori un rendimento sempre maggiore quanto più è il rischio cui si sottopongono. Le tre agenzie di rating moltiplicano le paure. Tra mercato e speculazione non c’è linea di demarcazione. Questo è il capitalismo finanziario. La maggiore trasparenza per i ribassisti come vuole la nostra Consob, in un paese ove le vendite allo scoperto sono pienamente lecite, sarebbe solo un pannicello caldo.
Vi è però da chiedersi che cosa in particolare giustifichi il nervosismo dei mercati nei nostri confronti. Le ragioni sono come al solito più d’una, un complesso di cose avrebbe detto Paolo Conte. Su tutte ne spiccano due: la decomposizione del berlusconismo e la intrinseca scarsa credibilità della manovra finanziaria. Quest’ultima in parte deriva dalla prima ragione, in larga parte per come è stata concepita dal Ministro dell’Economia, che pure dovrebbe essere il punto di riferimento dei mercati internazionali e garantire al berlusconismo di sopravvivere a Berlusconi stesso.
La crisi del berlusconismo ha anche il suo lato comico, in cui se ne dicono e se fanno di ogni – e Tremonti non è risparmiato -, ma più concretamente è rappresentato dallo sfarinamento del suo blocco sociale ed elettorale che le recenti elezioni amministrative, e per il loro verso, i referendum hanno messo impietosamente in luce. La stessa sentenza che condanna Berlusconi a risarcire la Cir di Debenedetti può essere vista come una riscrittura della storia del capitalismo italiano sia in senso contro fattuale (cosa sarebbe successo se Debenedetti avesse per tempo coronato il suo sogno di costruire il più grande gruppo editoriale italiano) che in senso fattuale (visto che lo spostamento di risorse e prestigio dall’uno all’altro dei contendenti non è di piccolo conto). Dall’insieme di queste vicende, il ruolo dello stato nazionale italiano come buon allocatore di investimenti finanziari stranieri ne risulta profondamente scosso.
La manovra tremontiana promette sfracelli e lacrime e sangue, ma a conti fatti convince poco le vestali del rigore finanziario. Essenzialmente perché buona parte di essa è caricata sulle spalle dei governi che verranno ed è affidata agli effetti che avrà la legge delega di riforma fiscale, i cui contenuti sono ancora indeterminati per quanto si annuncino pessimi per chi vive del solo reddito del proprio lavoro. Da qui la richiesta di anticiparla a tutti gli effetti. Ma una maggioranza e un governo costantemente sull’orlo di una crisi di nervi e in minoranza nel paese reale non danno affidamento per un’operazione così dura.
Per questo Napolitano alza la voce, e Bersani e Casini la raccolgono in quel di Bologna. L’ipotesi di un governo di unità nazionale, di una union sacrèe, magari con un passaggio di consegne da Tremonti a Monti – eterno candidato di queste operazioni – è quindi qualcosa di più di una folata estiva. L’accordo interconfederale che fa rientrare la Cgil nei giochi di una contrattazione senza democrazia vorrebbe costituire la base neocorporativa di una simile operazione. E’ la traduzione sul piano politico nazionale dell’errata convinzione per cui non si potrebbe fare altro che quello che la Ue ci dice di fare. La quale insiste e aggrava la sua strada rigorista aumentando il costo del denaro, mentre dall’altra parte dell’Oceano si discute addirittura di come splafonare il tetto dell’indebitamento che pure ha quasi raggiunto l’intero Pil statunitense.
Non è affatto detto che l’operazione vada in porto. Intanto però un certo risultato lo ha raggiunto. A quanto si sente, il decreto finanziario verrà accolto in parlamento da un’opposizione morbida, cui si accoderebbe persino un neo dialogante Di Pietro. Ma in questo modo si disperde quel vento di cambiamento che aveva cominciato a gonfiare le vele di una possibile alternativa. E’ quindi decisivo che a livello sociale non avvenga la stessa cosa. E che la sinistra del centrosinistra sappia indicare una strada alternativa di politica economica in Europa e in Italia. Le idee non mancano. Provare a metterle assieme non sarebbe male.
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