giovedì 16 aprile 2020

L’ospedale glam alla Fiera, simbolo della disfatta lombarda. - Gianni Barbacetto

Coronavirus, viaggio in fiera a Milano dove deve sorgere il nuovo ...


L’ospedale alla Fiera di Milano doveva essere il simbolo dell’intervento virtuoso della Regione Lombardia contro l’epidemia. Si sta trasformando nel suo opposto: il simbolo della disfatta lombarda. Intendiamoci, ci sono colpe ben più gravi imputabili a chi ha le responsabilità politiche e amministrative di gestire il contrasto a Covid-19, e cioè il presidente Attilio Fontana, l’assessore Giulio Gallera e il suo direttore generale Luigi Cajazzo.

Sono colpe in gran parte indicate non da astiosi avversari politici, ma dagli ordini dei medici lombardi: “Assenza di strategie nella gestione del territorio”, “sanità pubblica e medicina territoriale trascurate e depotenziate”, “non-governo del territorio con saturazione dei posti letto ospedalieri”, “tamponi solo ai ricoverati e diagnosi di morte solo ai deceduti in ospedale”, “incertezza nella chiusura di alcune aree a rischio”, tipo Alzano Lombardo-Nembro, “mancata fornitura di protezioni individuali ai medici e al personale sanitario che ha determinato la morte o la malattia di molti colleghi”, “gestione confusa delle Rsa e dei centri diurni per anziani che ha prodotto diffusione contagio e triste bilancio di vite umane”, 600 morti nella sola provincia di Bergamo, 2 mila in tutta la regione.

Detto questo, per cercare di far dimenticare la terribile, epocale disfatta di quella che veniva narrata come l’“eccellenza sanitaria lombarda”, il duo Fontana-Gallera – persa ignominiosamente, a monte, la battaglia di Caporetto – ha puntato tutto sull’intervento, a valle, dell’ospedale Covid della Fiera. La linea del Piave. Non abbiamo saputo fermare i contagi alla partenza, ma facciamo un super-hub della terapia intensiva per ospitare e salvare i contagiati.

Operazione anche (non solo, ma anche) d’immagine, alla milanese, con gran lavorio delle pierre e degli esperti di comunicazione, annunci mirabolanti e rotonde promesse, numeri sparati al rialzo, San Bertolaso come nume tutelare, grandi firme come finanziatori, Cracco in cucina sorridente come nello spot della Scavolini, inaugurazione tecno-glam. Ma chi si loda s’imbroda, o – come dicono a Milano – “Fa no il bauscia!”. Fontana aveva annunciato un super-ospedale da 600 posti, poi diventano 400, poi 200, infine 157. Oggi i posti pronti sono 53, i pazienti sono dieci (10). Spesa 21 milioni di euro.

Era il 12 marzo quando Gallera aveva lanciato la sfida: “I cinesi a Wuhan ci hanno messo dieci giorni a costruire un ospedale? I lombardi ne impiegheranno sei”. Sarà inaugurato il 31 marzo (19 giorni dopo) e i primi tre (3) pazienti arrivano il 6 aprile (25 giorni dopo). È finito comunque fuori tempo: in questi giorni le terapie intensive si svuotano (per fortuna, e speriamo non tornino ad affollarsi).

Ma da subito molti specialisti avevano sconsigliato l’operazione. Qualcuno racconta che il professor Alberto Zangrillo se ne sia andato da una riunione in Regione sbattendo la porta. E Giuseppe Bruschi, dirigente medico del Niguarda, spiega: “Una terapia intensiva non può vivere separata da tutto il resto dell’ospedale”, perché il Covid provoca complicazioni su cui è necessario intervenire d’urgenza che non sono solo polmonari, ma cardiovascolari, nefrologiche, neurologiche…

Intanto, in silenzio, senza glamour, senza Cracco e senza inaugurazioni, gli Alpini hanno fatto un padiglione a Bergamo con 140 letti e tutti gli ospedali hanno incrementato i posti di terapia intensiva. Il trio Fontana-Gallera-Cajazzo ha fatto invece l’ospedale glam della Fiera, che sarà studiato come case history della disfatta nella nuova Milano da bere.

Andrea Scanzi

L'immagine può contenere: 1 persona, testo

Giusto e forte come un Dio greco, quest’allegro ometto qua spopola nei sondaggi (non raggiunge il 2%). Domina le classifiche di gradimento tra i politici (è ultimo dietro qualsivoglia “statista” contemporaneo, compreso Tabacci, Scaramacai e Gino del bar di Montione). Furoreggia nelle dirette Facebook (ha smesso di farle perché aveva meno pubblico del falco che covava le uova sopra il Pirellone) e in quelle Instagram (dove ha cifre tipo qua sotto). Si fa accompagnare da una classe dirigente straordinaria (i nomi fateli voi, a me vien da ridere). Si atteggia a “leader” della “sinistra”, sebbene con entrambe le cose non c’entri poi granché. E da anni, nonostante una stampa colpevolmente benevola, colleziona più sconfitte dell’ispettore Ginko con Diabolik.

Eppure uno così, che nel paese reale ha meno peso (politico) di un glicine irrisolto, può far cadere da un momento all’altro il governo. E secondo me lo farà, magari sul Mes, non appena sarà cominciata la (terribile) fase 2. Qualora accadesse, e la cosa mi stupirebbe come una carognata di Gemma in Sons of Anarchy, ricordatevi bene la faccia di chi avrà permesso alla destra (questa destra) di prendersi il potere.


https://www.facebook.com/andreascanzi74/photos/a.381965611819773/3508766452472991/?type=3&theater

"Quattro modifiche al DL Imprese o i soldi finiranno in mano a corrotti e mafiosi". - Federica Olivo

Nino Di Matteo - Giovanni
Nino Di Matteo - Giovanni Zaccaro

Le proposte di Di Matteo e Zaccaro (Csm) per rivedere il decreto. Il togato di Area all'Huffpost: "La storia dice che la criminalità si approfitta delle crisi, agire ora per evitare dopo il moltiplicarsi di indagini e processi."


C’è il rischio che la criminalità possa approfittare del decreto Imprese. E intascare le somme destinate, attraverso prestiti, alle aziende in difficoltà a causa dell’emergenza coronavirus. Un rischio che va scongiurato, cambiando o integrando il provvedimento, per evitare che mafiosi, corrotti o evasori fiscali traggano vantaggio dalla crisi portata dal Covid-19. Anche a discapito degli imprenditori onesti. L’allarme arriva dal Csm, a pochi giorni dai rilievi fatti dai procuratori di Milano e Napoli con una lettera a Repubblica. A sollevare la questione, nelle stesse ore in cui è arrivato il via libera della Commissione europea al provvedimento del governo, i togati Giovanni Zaccaro e Nino Di Matteo, sostenuti dal gruppo di Area, l’associazione dei magistrati progressisti, e da Sebastiano Ardita, di Autonomia e Indipendenza, la corrente di Pier Camillo Davigo.
“La storia giudiziaria del Paese ci insegna che ogni volta che ci sono emergenze e, di conseguenza, vengono erogati fondi c’è il rischio che la criminalità se ne appropri. Sarebbe opportuno che questa volta non accadesse, anche per evitare che poi tra qualche mese la magistratura sia costretta a intervenire, bloccando e sequestrando fondi e beni. E che si moltiplichino indagini e processi. Prevenire, insomma, è più utile ed evita un dispendio di risorse successivo”, spiega Giovanni Zaccaro ad HuffPost. 
Il decreto voluto dal governo per aiutare, con dei prestiti, le imprese in difficoltà, è considerato “opportuno” dall’organo di autogoverno delle toghe. Ma non prevede strumenti che possano evitare che quei soldi finiscano in mano a condannati per mafia, per reati fiscali o contro la p.a. Per Zaccaro e Di Matteo una verifica andrebbe fatta anche nei confronti degli indagati: La previsione normativa non contiene alcun meccanismo per escludere dai benefici le imprese riferibili a persone coinvolte in processi di criminalità organizzata o che abbiano riportato condanne o siano indagati per reati contro la pubblica amministrazione o reati tributari”, si legge nel documento in cui i magistrati annunciano che chiederanno al Comitato di Presidenza l’apertura di una pratica perché il Csm svolga le sue funzioni consultive sul decreto in questione.
Come fare per evitare che i fondi finiscano nelle tasche sbagliate, senza però danneggiare, con delle lungaggini burocratiche, gli imprenditori onesti che chiedono di accedere al credito? “Basterebbe un’autocertificazione - spiega ancora Zaccaro - uno strumento agile, che non rallenterebbe l’erogazione dei fondi, ma sarebbe utile a capire se chi li chiede ha precedenti, per reati associativi, tributari o contro la pubblica amministrazione, o indagini a suo carico per presunti illeciti di questo genere”.
Il problema si pone anche in una fase successiva, quella dell’utilizzo dei fondi: “Sarebbe necessaria una tracciabilità delle risorse erogate, ad esempio attraverso conti correnti dedicati”, spiega ancora il togato di Area. 
Quattro le proposte messe a punto da Zaccaro e Di Matteo. La prima riguarda l’introduzione di misure che  “impongano di vagliare – anche tramite la forma della autocertificazione - i precedenti penali di chi occupa ruoli rilevanti nelle imprese che si candidano a percepire i finanziamenti, così da escludere chi sia stato condannato per reati di criminalità organizzata, reati contro la pubblica amministrazione e reati tributari nonché proposto per la irrogazione di una misura di prevenzione personale o patrimoniale. La seconda riguarda misure di prevenzione dell’evasione che “rapportino l’entità del beneficio percepito al fatturato dichiarato nell’anno precedente, in modo da non premiare forme di evasione fiscale”. C’è poi il riferimento all’uso di conti corrente dedicati, o strumenti simili, che “consentano di tracciare i benefici percepiti affinché si possa avere contezza del loro uso compatibile con l’intento del legislatore”. Infine, secondo i togati del Csm, servirebbero provvedimenti che “potenzino le amministrazioni periferiche dello Stato e le Agenzie di controllo affinché possano monitorare la destinazione dei finanziamenti. Misure siffatte potrebbero servire a prevenire fenomeni di malversazione dei fondi pubblici o di illecita concorrenza delle imprese illegali, rispetto ai quali l’intervento dell’autorità giudiziaria è per forza di cose successivo e meno efficace”. Agire ora, insomma, per scongiurare che i fondi necessari agli imprenditori danneggiati dalla crisi finiscano nelle mani sbagliate.
In effetti, le probabilità che ciò avvenga sono tantissime e, pertanto, c'è il rischio che questi soldi finiti in pessime mani, inneschino problemi legali per cui il beneficio verrebbe a cadere in un nulla di fatto.
C.

Ora Gallera si dimetta. - Luca Telese

Immagine di copertina

Le inchieste su Alzano Lombardo, la lettera del direttore dell'ospedale e la testimonianza raccolta in esclusiva da TPI.it nei paesi civili comportano una assunzione di responsabilità. E si sanano con le dimissioni dei responsabili.

Dopo questa testimonianza Alzano cessa di essere un mistero ospedaliero e diventa un problema civile. Perché Alzano non è solo il punto di scaturigine più letale dell’epidemia in Lombardia (e quindi in Italia). Non è più, come nei primi frammentari e incoerenti racconti solo un “errore” dettato dalla concitazione comprensibile di una emergenza drammatica. Dopo questo documento la vicenda dell’ospedale fantasma che chiude e riapre diventando focolaio smette di essere una foto fuori fuoco e diventa due cose ben precise: una caso di malasanità, e una bugia.
Partiamo dal secondo elemento, che spiega il primo. Ancora domenica scorsa, ospite di Massimo Giletti a Non è l’Arena, l’assessore Gallera ribadiva granitico: “L’Ospedale è stato chiuso per due ore, sanificato e solo dopo riaperto”. Gallera raccontava, dunque, di avere piena contezza dei fatti, di aver ricostruito la vicenda, e di aver anche appurato che era stato seguito un protocollo tale da mettere in sicurezza l’intera struttura. Così non è andata, come sappiamo adesso. Ma allora la domanda è inevitabile: perché il massimo garante della sanità in Lombardia si ostina a sostenere una versione che prima è stata smentita dai fatti (le conseguenze devastanti di quel contagio) e adesso anche dai testimoni? E passiamo al problema della profilassi: solo uno stolto potrebbe esercitarsi nella caccia all’errore e al dettaglio, in questa vicenda. Gallera non sbaglia quando elenca il numero dei contagiati che in dieci giorni di marzo esplode in maniera geometrica dettando i tempi dell’emergenza agli apparati della Regione. Qui di seguito la testimonianza esclusiva TPI del dipendente dell’ospedale di Alzano: 
Ma la vicenda di Alzano, così come quelle delle case di riposo per anziani, ci raccontano più di un errore messo in ombra dal turbine degli eventi. In questo caso ci parlano addirittura di un colpevole occultamento della realtà: la Regione, dunque, proprio mentre contestava al governo di non aver chiuso le zone rosse e di non aver preso atto del dramma, teneva una linea “negazionista” sui territori. L’esatto contrario di quello che vuole far credere oggi. È il caso del Trivulzio, dove il professor Bergamini veniva sospeso per la sua ossessione sulle protezioni nei reparti (un gesto folle), ed è il caso di Alzano, dove la testimonianza di questo operatore rivela un conflitto insanabile tra le legittime preoccupazioni dei dirigenti dell’ospedale e i suoi superiori della direzione sanitaria e della direzione generale. Qui di seguito l’audio-testimonianza esclusiva TPI di un’infermiera di Alzano:
C’è infine un ultimo elemento, per certi versi un dispotismo burocratico che questa inchiesta di Francesca Nava – esattamente come la precedente – mette in luce: l’assoluta negazione del principio di autonomia dei territori. Dirigenti regionali che usano il principio di autorità per sconfessare le scelte di chi si trova nell’occhio del ciclone, sul campo, ed è l’unico che può toccare con mano il problema. E non sono proprio questo due elementi, l’ossessione del controllo “centralistico” e la “cecità” che di solito (e anche in questa crisi) vengono imputati a “Roma” e alle “strutture burocratiche dello Stato”, dagli iperautonomisti di Milano? Sono tutti sostenitori della mitologica voce “dei territori”, tranne quando ad ascoltarla dovrebbero essere loro. Troppo comodo.
Si capisce perché queste inchieste su Alzano, questo documento e le drammatiche testimonianze pesano così tanto, e sono così difficili da accettare per chi ha preso le scelte: perché fanno cadere una impalcatura di facciata e un apparato propagandistico. Sono piccoli-grandi peccati di arroganza che – quando vengono appurati – nei paesi civili comportano una assunzione di responsabilità estrema. E si sanano con le dimissioni dei responsabili.

Milano ha perso: così la città è stata travolta dall’onda lunga del virus. - Selvaggia Lucarelli

Immagine di copertina

Un anno fa, ad aprile, Milano era il Salone del mobile, la mostra di fiori sui Navigli, le maratone che tagliavano la città, lo Yogafestival a Citylife, il Gran Ballo di Primavera alla Balera dell’Ortica. C’erano il Rum Festival, il Miart, Tommaso Paradiso che cantava “Felicità puttana” al Forum. Era la Milano dell’immaginario comune, la città in cui le cose succedono, l’Europa è più vicina, il nuovo arriva prima. Era “la città in cui si vive meglio” secondo una classifica di quei giornali che misurano il benessere coi numeri. Beppe Sala, sindaco moderno e benvoluto, posava su una copertina di Style con il Duomo sullo sfondo e il titolo “Città aperta”. Una profezia sbagliata. Del resto, perfino gli scienziati, neanche un anno dopo, si sono rivelati indovini fallibili.
Milano, poi, non è la città delle Cassandre. Qui il domani è un grattacielo nuovo, il quartiere riqualificato, le Olimpiadi invernali. Un anno dopo, Milano è una città che si guarda sulle pareti specchiate del Palazzo Unicredit e non sa più chi è. Malconcia e incredula, la città che mastica il futuro, che farà, che sarà, che non si ferma, si trova per la prima volta a maneggiare ciò che non conosce: il presente. In una narrazione capovolta, per giunta, in cui restano le fotografie di chi dalla “città delle occasioni” è scappato sul primo treno. O sul primo jet. La narrazione capovolta della città che trainava il resto dell’Italia e che ora ne è la zavorra.

Roccaforte del virus, Milano è la città che per ultima uscirà dalla paura dei contagi. E non è detto che gli altri, quelli che ormai i contagi li hanno azzerati o quasi, la aspetteranno. Cosa è successo? Cosa succede a Milano? Succede che la coda dei contagi è lunga perché Milano – almeno un po’ – poteva farcela. Il virus le è girato intorno per settimane, ha aggredito prima il basso lodigiano, la Val Seriana, Brescia, Bergamo. Era chiaro che Milano non potesse godere di una immunità miracolosa, ma era altrettanto chiaro che con un contenimento efficace, si sarebbero potuti limitare i danni.
Si poteva giocare con un anticipo di quasi un mese, e invece no. Anziché dall’onda anomala che si frange senza lasciare scampo, Milano è rimasta sommersa dall’onda lunga. Il sorpasso dei contagi rispetto alla città di Bergamo con le sue bare portate via dall’esercito è avvenuto il 30 marzo. Un mese e 8 giorni dopo il paziente 1 di Codogno. Una vita, durante un’epidemia. Vuol dire che in quei 40 giorni, per tirare su il ponte levatoio, ci si è messo troppo. Vuol dire che di Milano non si sono comprese le fragilità, forse distratti dalle narrazioni sulla città performante (aggettivo osceno, molto milanese, che non a caso arriva dal linguaggio finanziario), dall’idea radicata che la sanità nel capoluogo lombardo fosse il meglio che si potesse chiedere.
A Milano, del resto, ci sono i grandi ospedali pubblici, i gruppi privati più stimati, con all’interno Facoltà di Medicina e poli didattici di università. Ci sono le eccellenze, i luminari, gli esperti, i reparti. Ci sono decine e decine di Rsa, alcune delle quali, come gli ospedali, sono una sorta di città nelle città. Migliaia di pazienti, di dipendenti, di operatori sanitari, di addetti alle pulizie e di parenti che da lì entrano ed escono tutti i giorni. E poi le case di riposo. Piene e numerose, perché qui a Milano i figli sono pochi, gli anziani sono tanti e gli stipendi sono alti.
Non esiste neppure un censimento attendibile delle case di riposo e delle Rsa a Milano. Una specie di giungla urbana invisibile, in cui il Coronavirus ha trovato il suo parco giochi. Qui stava la fragilità di Milano. Qui andavano alzate le barricate. È l’ultima flebo, più che l’ultimo aperitivo, ad aver esposto mortalmente la città. Mentre noi fotografavamo gli ultimi irresponsabili sui Navigli o in Sempione nel weekend del 6 marzo, il virus passava di letto in letto e poi dallo stetoscopio del medico giovane al vecchietto della stanza 5, dal laccio emostatico sul braccio della ragazza immunodepressa all’infermiera del piano terra, dal pigiama della signora in cardiologia allo sfigmomanometro della dottoressa che quest’anno se ne va in pensione. E che, prima di dimettere il ragazzino del reparto all’ultimo piano, ha stretto la mano a quei genitori simpatici, che la chiamavano a tutte le ore.
Il virus entrava nelle case di riposo con i figli delle domenica, viaggiava tra coperte, vassoi di paste, baci e termometri. E poi, con loro, tornava a casa. I parenti e il personale ospedaliero, chi amava e chi curava, è stato l’inconsapevole traghettatore della malattia. Andava difesa, Milano, con quel prezioso anticipo che ha avuto. Bisognava iniziare a usarli con serietà, quei numeri snocciolati a caso nei bollettini di Gallera. Contare pazienti, dipendenti di ospedali, Rsa, case di riposo e avere paura. Prevedere. Schivare il più possibile. Pretendere report dettagliati, trasparenti da tutti.
È anche l’assenza di paura che ha fregato questa città. È la sfrontatezza fessa, perennemente stampata sulla faccia di Gallera. È l’arrogante debolezza di chi non convive con l’idea che si possa perdere. Quella paura che forse ha salvato il Sud. E poi gli interessi. Tante, troppe Rsa hanno taciuto, perché se avessero parlato avrebbero dovuto chiudere. Idem troppe case di riposo, che hanno privato figli e nipoti di informazioni importanti, che hanno atteso settimane prima di ammettere il disastro. I tamponi al personale si sono fatti poco o per niente ovunque, perché va detta una verità semplice, impronunciabile: meglio un medico, un infermiere malato che un reparto senza più personale.
Non si sono tamponati i cittadini, ma si è tamponato il disastro con la propaganda, con l’ospedale di plastica dorata da inaugurare a favore di telecamera, con le colpe da attribuire ai milanesi a giorni alterni. Quelli in cui i numeri erano pessimi “i milanesi vanno troppo in giro, la app dice che ci sono troppi movimenti sospetti dopo le 23”, quelli in cui erano migliori “bravi i milanesi, i vostri sacrifici sono premiati”. Nessuno, intanto, che dica la verità: a Milano si muore ancora tanto perché il virus è entrato dove ha trovato i bersagli più fragili. Tant’è che le terapie intensive, nonostante i morti siano sempre tanti, si stanno svuotando: è perché il novantenne in casa di riposo non lo intuba nessuno. Muore lì.
Non è stato il runner, il colpevole. È nell’abbandono a cui è stata destinata questa città, la colpa di questa dolorosa coda finale. Una città che oggi, 15 aprile, conta 15.000 contagiati contro gli 11.000 di Brescia e i 10.000 di Bergamo, e lo dico sapendo quanto poco valgano i numeri in questa farsa tragicomica di bollettini inaffidabili. Saremo gli ultimi, qui a Milano, ad uscirne. E ne usciremo più tardi, senza aver sfruttato il tempo e l’esperienza maturata nelle settimane che hanno preceduto l’onda lunga. Ne usciremo perché siamo stati in casa. Perché i virus, senza essere portati in giro dall’ospite, non vanno da nessuna parte. Ne usciremo perché abbiamo avuto rispetto e abbiamo avuto paura. Ne usciremo in un cimitero di morti e di morti viventi. Di sopravvissuti che sono stati abbandonati, di malati in casa che si sono auto-imposti quarantene e hanno messo un piede fuori senza sapere se erano ancora positivi. Di famiglie intere che si sono infettate perché “a Milano requisiremo hotel e strutture per isolare gli infetti” e invece balle. Ne usciremo per ultimi, sfiniti e affranti, con la sensazione che qualcosa – almeno qualcosa- qui si sarebbe potuto salvare. Si poteva proteggere. Si poteva risparmiare.
Ne usciremo con una narrazione nuova, da inventare. O forse, per un po’, finalmente senza narrazioni. E no, non basta comprare pagine di giornale per riscrivere la storia di questa primavera. Dovremo rinunciare agli slogan fighetti, all’utilizzo compulsivo di quel verbo insopportabile, “ripartire”, perché non partiremo, non correremo. Dovremo, come prima cosa, imparare a usare di nuovo le gambe. Dovremo coprirci gli occhi perché il sole ci farà male. Dovremo fare i conti con i nostri debiti e con le nostre paure, andare a trovare i nostri morti, tornare a sorridere, sotto la mascherina, ai vicini che torneranno dalle case al sud e dalle ville in montagna.
Lavoreremo in un modo nuovo, stupendoci – forse – di quanto Milano possa offrire a se stessa, prima ancora che agli altri. E quando torneremo a votare, dovremo ricordare tutto, dovremo conservare la memoria primitiva del dolore del fuoco che brucia il dito, la prima volta. Ci racconteranno, tra un po’, che abbiamo vinto. Non abbiamo vinto nulla, qui a Milano. E non dovremo permettere a nessuno di costruire carri del vincitore in dieci giorni, con le immagini in time-laps da pubblicare sui social. Dovremo tornare ad imparare e a correggere, perché forse avevamo smesso.
Dovremo tornare al presente e a guardare ciò che è davanti a noi, perché prima di “ripartire” c’è da sistemare. Non dovremo tornare quelli di prima. Dovremo tornare migliori. Perché Milano ha perso. E dovremo prenderci cura di lei. Mi piacerebbe che si ricominciasse, in questa meravigliosa città, con il tono lucido, rigoroso, sobrio di chi tornò, appunto, sapendo che c’era un cimitero troppo affollato, alle sue spalle, per concedersi sbavature gioviali. Mi piacerebbe che si ricominciasse con un: “Dunque, dove eravamo rimasti?”. Niente di più.