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venerdì 18 febbraio 2022

Davigo a giudizio: “Segreto violato”. Ma al Csm non c’è. - Antonio Massari

 

LOGGIA UNGHERIA - Il processo a Brescia per i verbali di Amara ricevuti dal pm di Milano Paolo Storari. L’ex consigliere: “So di essere innocente”. 

Persino le date danno il loro contributo nella storia legata alla presunta Loggia Ungheria: nell’anniversario di “Mani Pulite” – a trent’anni esatti dal 17 febbraio 1992, quando fu arrestato l’ex presidente del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa – un uomo simbolo del pool di magistrati che avviò Tangentopoli, Piercamillo Davigo, finisce sotto processo.

Se fisicamente è a Pisa, per un convegno sull’indagine che segnò la fine della Prima Repubblica, Davigo è virtualmente in un’aula del tribunale di Brescia, nelle vesti di imputato. E viene rinviato a giudizio, per concorso in rivelazione d’ufficio, dal gup Francesca Brugnara. Il processo inizierà il prossimo 20 aprile. È così, a trent’anni da Mani Pulite, dopo aver affrontato e spesso vinto processi delicatissimi, dopo aver indagato colossi della politica e dell’economia, quella stessa procura si ritrova spalle al muro. Davigo sotto processo e ben altri quattro magistrati sotto indagine. Dopo il caso Palamara la credibilità dell’intera magistratura è già ai minimi storici. Il crollo arriva con i verbali dell’ex legale esterno di Eni Piero Amara.

Tutto precipita infatti nel dicembre 2019 quando Amara dichiara al pm milanese Paolo Storari e alla procuratrice aggiunta Laura Pedio di essere membro della presunta loggia coperta Ungheria affollata da magistrati e vertici delle istituzioni. Fino a gennaio fornirà ulteriori dettagli (tutti da verificare e tuttora al vaglio della procura di Perugia guidata da Raffaele Cantone). I verbali di Amara – nell’aprile 2020 secondo le versioni di Davigo e Storari – prendono però un’altra strada. Storari ravvisa un’inerzia della procura nel procedere alle iscrizioni (accusa ritenuta insussistente, nei riguardi dell’ex procuratore capo di Milano, Francesco Greco, che sarà indagato e archiviato). Per tutelarsi denuncia la situazione a Davigo – in qualità di membro del Csm – che lo autorizza a rivelargli le notizie coperte dal segreto. Ad autorizzarlo, secondo Davigo, c’è una norma del 1994: non si può opporre il segreto istruttorio a un membro del Consiglio. In sostanza, secondo Davigo, non ci sarebbe alcuna violazione del segreto. Evidentemente la procura di Brescia la pensa diversamente. Storari consegna a Davigo una copia in formato word dei verbali di Amara. L’avvocato coinvolge due consiglieri del Csm in carica: Sebastiano Ardita, della stessa corrente di Davigo, e Marco Mancinetti. A quel punto – è la versione di Davigo – il consigliere del Csm, nel timore che scegliendo le vie formali possa essere vanificato il segreto istruttorio, come già accaduto nello scandalo legato a Luca Palamara, decide di informare oralmente i membri del comitato di presidenza del Csm. A partire dal vicepresidente David Ermini (e attraverso lui il Quirinale). Davigo informerà dell’indagine – parlando della questione Ardita e “vincolandoli al segreto istruttorio” – anche altri consiglieri del Csm e le sue segretarie. Ed è per questo motivo che Ardita, che si considera danneggiato dalla condotta di Davigo, s’è costituito in giudizio come parte civile. Di lì a poco Davigo lascia il Csm. E al Csm lascia anche una copia dei verbali ricevuti da Storari. Da quel momento in poi, a sua insaputa, il segreto istruttorio va in frantumi: nell’ottobre 2020 copia dei verbali giunge in forma anonima al Fatto Quotidiano che – per non distruggere l’eventuale indagine in corso e temendo una polpetta avvelenata, non avendo prova che fossero autentici – denuncia alla procura di Milano e li deposita nelle mani di Storari e Pedio.

A marzo 2021 li riceve la cronista di Repubblica Liana Milella che denuncia a Perugia. Una copia giunge infine al consigliere Nino Di Matteo che prima denuncia a Perugia e poi rivela durante un plenum del Csm il “dossieraggio calunnioso” ai danni di Ardita. Inizia così l’inchiesta sulla fuga di notizie. L’invio dei verbali alla stampa e a Di Matteo viene attribuito alla segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, oggi indagata per calunnia a Roma. Storari confessa a Greco di averli consegnati a Davigo. Rinviato a giudizio, Davigo commenta: “Non dirò mai una parola contro la giurisdizione che ho servito per 40 anni. I processi servono per accertare se l’imputato è colpevole o innocente. Io so di essere innocente”. Storari ha scelto il rito abbreviato, la sentenza è prevista il 7 marzo. L’accusa – che ieri ha parlato di “buona fede” dell’imputato, contestata radicalmente dalla parte civile Ardita, sin dall’atto di costituzione – ha chiesto una condanna a 6 mesi per aver consegnato i verbali a Davigo “fuori da ogni procedura formale”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/02/18/davigo-a-giudizio-segreto-violato-ma-al-csm-non-ce/6498098/

venerdì 23 luglio 2021

Giustizia, via libera alla fiducia Draghi: 'Nessuno vuole l'impunità'.

 

Il Csm boccia riforma della prescrizione, troppi processi in fumo.


Il Consiglio dei ministri ha approvato all'unanimità l'autorizzazione della fiducia sulla riforma della giustizia. 

La conferenza stampa. "Oggi abbiamo fatto un passaggio abbastanza rapido in Consiglio dei Ministri per ciò che riguarda la giustizia. La presenza della ministra Cartabia è un impegno a tenervi informati sempre in tema di cambiamenti sulla giustizia".

Lo dice il premier Mario Draghi in conferenza stampa dopo il CdM.

Sulla riforma della giustizia "ho chiesto l'autorizzazione a porre la fiducia. C'è stato un testo approvato all'unanimità in Cdm e questo è un punto di partenza, siamo aperti a miglioramenti di carattere tecnico, si tratterà di tornare in Consiglio dei Ministri" ha aggiunto Draghi precisand che "il ministro Cartabia è molto disponibile".

"La richiesta di autorizzazione di fiducia è dovuta al fatto di voler porre un punto fermo - ha sottolineato il premier - . C'è tutta la buona volontà ad accogliere emendamenti che siano di carattere tecnico e non stravolgano l'impianto della riforma e siano condivisi. Non mi riferirei solo agli emendamenti di una parte, perché ci sono anche altre parti".

"Nessuno vuole sacche di impunità, bene processi rapidi e tutti i colpevoli puniti, è bene mettere in chiaro da che parte stiamo. Il testo della riforma della giustizia - ha proseguito Draghi - è stato approvato dal CdM poi faremo di tutto per arrivare ad un testo condiviso.

"Chiedere la fiducia può avere delle conseguenze diverse prima del semestre bianco o durante il semestre bianco, ma la diversità è molto sopravvalutata. Chiederla cinque o sei giorni prima è come chiederla durante - ha detto Draghi  - perché i tempi per organizzare una consultazione elettorale non ci sarebbero comunque. Una riforma come quella della giustizia deve essere condivisa ma non è giusto minacciare un evento, la consultazione elettorale, se non la sia approva". 

La ministra Marta Cartabia in conferenza stampa ha sottolineato che il tema affrontato dalla riforma della giustizia è "difficile ma ineludibile, il problema della durata dei processi è grave in Italia". La ricerca di un "punto di mediazione" "non è una novità di oggi, non inizia dopo il Consiglio dei Ministri di oggi ma è il tratto metodologico con cui abbiamo affrontato un tema che sapevamo essere difficile, per trovare una composizione di punti di vista molto diversi". La riforma della giustizia non risponde solo alla richiesta delle "condizioni del Pnrr", che chiede "di ridurre del 25% i processi penali" ma secondo il ministro è legata a "alle esigenze dei cittadini. La ragionevole durata del processo evita la prescrizione. La ragionevole durata del processo è una garanzia dei diritti".

Intanto dal Csm arriva una prima bocciatura della norma sulla improcedibilità contenuta nella riforma della prescrizione approvata dal governo. La Sesta Commissione ha approvato a larga maggioranza, con 4 voti a favore e 2 astensioni, un parere nettamente contrario. "Riteniamo negativo l'impatto della norma", dice il presidente della Commissione Fulvio Gigliotti (5S), perchè comporta "l'impossibilità di chiudere un gran numero di processi". Non solo: secondo la Commissione "la disciplina non si coordina con alcuni principi dell'ordinamento come l'obbligatorietà dell'azione penale e la ragionevole durata del processo". Il problema centrale è il termine di due anni entro il quale va celebrato il processo di appello, oltre il quale scatta la tagliola della improcedibilità: "non è sostenibile in termini fattuali in una serie di realtà territoriali, dove il dato medio è ben superiore ai 2 anni, ed arriva sino a 4-5 anni", spiega Gigliotti. Il che significa che con la nuova norma "si impedisce la trattazione di un gran numero di processi".

Gli scenari. La riforma del processo penale approderà in Aula alla Camera venerdì prossimo 30 luglio. La fiducia approvata dal Cdm potrebbe prefigurare due scenari opposti: uno di rottura con M5s o una sua parte, ed uno di accordo raggiunto nel frattempo in Commissione. La fiducia inoltre rappresenta anche una risposta indiretta alla bordata del Csm - si ragiona in ambienti della maggioranza - la cui Sesta Commissione ha bocciato la riforma del ministro Marta Cartabia, e alle parole più delegittimanti che critiche di alcuni Pm, come anche in giornata Nicola Gratteri.

ANSA

sabato 8 maggio 2021

Csm: Ciechi Muti Sordi. - Marco Travaglio

 

Anche nell’amarissimo caso Amara, il Csm si conferma l’acronimo di Ciechi Sordi e Muti, per non dire di Centro di Salute Mentale. L’avvocato esterno dell’Eni, noto depistatore, taroccatore di prove, corruttore di magistrati (ha patteggiato) mette a verbale a Milano una nuova loggia P2 chiamata Ungheria, piena di magistrati, politici, avvocati, big di vari apparati. Il pm Storari litiga coi capi perché vuole iscrivere subito Amara e gli altri due che ammettono di far parte della loggia, mentre i capi vanno coi piedi di piombo e aspettano cinque mesi. Storari ne parla per autotutela con Davigo e gli mostra il contenuto dei verbali (senza violare il segreto, che Davigo – membro del Csm – è tenuto a custodire). Davigo scopre che Amara tira in ballo due colleghi del Csm, il suo compagno di corrente Ardita e Mancinetti. Quindi non può seguire le vie formali, cioè investire tutto il Csm con una relazione di servizio. Altrimenti i due consiglieri verrebbero a sapere delle accuse (o calunnie) a loro carico. E lui commetterebbe due reati: violazione di segreto e favoreggiamento personale.

Il 4 maggio, nella prima trasferta a Roma dopo il lockdown, racconta tutto al vicepresidente Ermini (anche lui tenuto al segreto), perché ne informi il presidente Mattarella. Ermini lo fa. Davigo avvisa anche gli altri due membri del Comitato di Presidenza: il Pg della Cassazione Salvi e il primo presidente Curzio. Dice qualcosa anche a tre consiglieri che gli chiedono perché non parla più con Ardita, vincolando anch’essi al segreto. Poi lo mandano in pensione. La sua ex segretaria – secondo l’accusa – prende i verbali non firmati passati da Storari a Davigo e li porta al Fatto, che non li pubblica e li porta a Milano. Per quattro motivi. 

1) Siamo un giornale, non una buca delle lettere. 

2) Amara è un depistatore e potrebbe averli fabbricati a tavolino. 

3) La loggia Ungheria potrebbe essere una sua invenzione e pubblicare i suoi verbali sputtanerebbe decine di innocenti. 

4) La loggia Ungheria potrebbe esistere davvero e spiattellarla coram populo a inizio indagini significherebbe rovinarle e rendersi complici di un depistaggio per salvare chi ne fa parte. 

Ora che i fatti iniziano a emergere, poche cose sono chiare come questa: se Davigo, tentando di avvertire i vertici del Csm senza perforare il segreto sulle indagini, ha sbagliato qualcosa, perché i colleghi a cui ne parlò glielo contestano dopo un anno? Tra i pochi con cui ne parlò c’era il Pg Salvi. Se riteneva che Davigo dovesse stilare una relazione, perché non gliela chiese? E, se pensava che avesse violato qualche norma, perché non gli attivò un’azione disciplinare, di cui è il titolare? Quando ciascuno si assumerà le proprie responsabilità, sarà sempre troppo tardi.

IlFQ

venerdì 23 ottobre 2020

Csm, convertiti e astenuti: così hanno messo fuori Davigo. - Antonella Mascali (20 ottobre 2020)

 

13 voti a favore, 6 contrari e 5 non si pronunciano.

Nel giro di poche ore, Piercamillo Davigo è magistrato in pensione perché oggi compie 70 anni, ed ex consigliere del Csm proprio perché collocato a riposo. Ieri, a determinare la fuoriuscita dal Consiglio, come anticipato dal Fatto, il Comitato di presidenza costituito dal vicepresidente David Ermini, dal presidente della Cassazione Piero Curzio, e dal procuratore generale di Cassazione Giovanni Salvi. Ergo, il Quirinale.

Sono scesi in campo per dire che la via dell’uscita è tracciata dalla Costituzione. Una posizione che ha portato all’astensione anche chi aveva annunciato in punto di diritto il voto pro Davigo: Giuseppe Cascini, di Area (progressisti), seguito dai colleghi di gruppo Giovanni Zaccaro e Mario Suriano, non Alessandra dal Moro ed Elisabetta Chinaglia rimaste per il no alla decadenza; Filippo Donati, laico M5S, è passato dall’astensione al sì alla decadenza. Astenuti, ma della prima ora, anche i laici Carlo Benedetti, M5S, e Stefano Cavanna, Lega. Chi cambia voto all’ultimo precisa che lo fa “per rispetto istituzionale” verso il Comitato, come se mancasse a chi vota in modo diverso. Tanto che Fulvio Gigliotti, laico M5S, tra i 6 consiglieri pro Davigo, dichiara: “Non per mancanza di senso istituzionale, ma per radicamento del mio convincimento giuridico, confermo” il no alla decadenza. Sebastiano Ardita, di AeI annuncia il suo voto contro come i colleghi Ilaria Pepe e Giuseppe Marra ed esprime sconcerto, senza nominarlo, per il cambio di rotta di Cascini. C’è, però, una stessa premessa in tutti gli interventi, a partire da quello della presidente della Commissione verifica titoli Loredana Micciché, che ha proposto la decadenza: “Stima” per Davigo, “nessuna logica correntizia” dietro al voto. Nino Di Matteo è per la decadenza “con grande difficoltà umana, ma in piena coscienza”. Chi, in minoranza, avrebbe voluto la permanenza, invece, ha sostenuto che né la Costituzione né la legge ordinaria prevedono la decadenza da consigliere di un magistrato in pensione e che, quindi, può intervenire solo il legislatore. Ma “se la condizione di magistrato viene meno – ha sostenuto il presidente Curzio, in condivisione con il Pg Salvi – viene meno il rapporto tra laici (8, ndr) e togati (16, ndr)” che la Costituzione prevede per i Csm”. David Ermini a sorpresa parla di “un’amicizia con Davigo irrinunciabile. La Costituzione, però, ci impone di rinunciare all’apporto che Davigo, magistrato eccezionale, potrebbe ancora dare”. E conclude: “Sono convinto che proprio in nome dell’amicizia, stima e affetto che ci lega, saprà comprendere”. Alla fine 13 voti per la decadenza, 6 contrari e 5 astenuti.

Al posto di Davigo, il più votato, subentra Carmelo Celentano, primo dei non eletti in Cassazione con la centrista Unicost, che per colpa dello scandalo Palamara ha perso 3 togati su 5. Ora ne recupera uno, ma in teoria: Celentano a gennaio si è dimesso da Unicost. E, comunque, la partita non è affatto chiusa. Davigo, ci risulta, presenterà ricorso al Tar, convinto che la Costituzione, invece, gli consenta di restare.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/20/csm-convertiti-e-astenuti-cosi-hanno-messo-fuori-davigo/5972509/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=oggi-in-edicola&utm_term=2020-10-20

martedì 20 ottobre 2020

Il corpo estraneo. - Marco Travaglio

 

Si attendeva con ansia un segnale di riscatto della magistratura, dopo gli ultimi scandali culminati nel più sfacciato, ma non certo più grave: il caso Palamara. E quel segnale è arrivato: Piercamillo Davigo cacciato dal Csm. Il simbolo vivente dei valori costituzionali di autonomia e indipendenza della magistratura, il pm di Mani Pulite e poi il giudice di appello e di Cassazione che da 40 anni non piega la schiena e non tira indietro la gamba dinanzi alle pressioni e alle minacce del Potere di ogni tipo e colore, è fuori dall’organo di autogoverno. E già era bizzarro che vi fosse entrato, due anni fa, col record di preferenze: ma era chiaro che quel corpo estraneo, al primo pretesto utile, sarebbe stato vomitato fuori dalla casta politico-togata che infesta il finto “autogoverno” sempre più eterodiretto. Ora il pretesto è arrivato: il compimento dei 70 anni, cioè il raggiungimento della pensione. Che però vale per la sua attività di magistrato, non certo per quella di consigliere del Csm.

In passato diversi membri laici andarono in pensione (da avvocati o da docenti universitari) e nessuno si sognò di cacciarli dal Csm per raggiunti limiti di età. Se i Costituenti e i legislatori avessero voluto fare un’eccezione per i togati, l’avrebbero introdotta come causa di ineleggibilità e incandidabilità, come quella che esclude i magistrati over 66 dai concorsi per gli incarichi direttivi perché non garantiscono almeno 4 anni di funzioni. Invece i 2.552 colleghi (su 8.010) che nel 2018 elessero Davigo al Csm sapevano benissimo che, a metà mandato, sarebbe andato in pensione da giudice, ma lo votarono lo stesso perché era scontato che durasse in carica fino al termine della consiliatura. Davigo però è un uomo controcorrente: il partito degli imputati, degli impuniti e dei garantisti pelosi lo considera “giustizialista”. Dunque è finito o rimasto nel mirino dei colleghi invidiosi della sua popolarità, della sua credibilità e del suo rigore morale. Tra quelli che ieri gli hanno votato contro, anche con voltafaccia imbarazzanti, oltre a un inspiegabile e sconcertante Nino Di Matteo, ci sono i correntocrati della destra e della sinistra giudiziaria che per anni hanno inciuciato e fatto carriera con i vari Palamara, collaborando a brutalizzare e/o punire altri cani sciolti (De Magistris, Forleo, Nuzzi, Apicella, Verasani, Robledo, Woodcock) e a coprire i porti delle nebbie e delle sabbie. Ed erano pronti a tutto, persino a calpestare l’articolo 104 della Costituzione (“I membri del Csm durano in carica 4 anni”), pur di liberarsi di lui. Un giorno si accorgeranno di non aver colpito Davigo, ma l’idea stessa di Magistratura, come non riuscirebbero a fare neppure mille Palamara. E forse, di nascosto, si vergogneranno.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/20/il-corpo-estraneo/5972480/

domenica 4 ottobre 2020

“È giusto che Davigo rimanga al Csm. Grave escluderlo dal caso Palamara”. - Gianno Barbacetto

 












Giuseppe Marra - Il consigliere sulla possibile decadenza dell’ex pm al compimento dei 70 anni.

È in corso al Consiglio superiore della magistratura il procedimento disciplinare contro Luca Palamara. Tra i giudici c’è Piercamillo Davigo, che il 20 ottobre compie 70 anni e come magistrato andrà in pensione. Deve lasciare anche il Csm e il procedimento Palamara? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Marra, membro del Csm e appartenente al gruppo di Davigo, Autonomia e indipendenza.

A che punto è il procedimento per Palamara?

La sezione disciplinare del Csm ha già deciso la sua sospensione dalle funzioni e dallo stipendio, confermata dalla Cassazione. Ora è in corso il giudizio di merito, con attività istruttoria compiuta in diverse udienze pubbliche.

Palamara è sotto giudizio penale per corruzione a Perugia. E la sezione disciplinare del Csm che cosa deve giudicare?

Al momento gli è contestata la partecipazione, insieme a ex consiglieri del Csm e ai parlamentari Cosimo Ferri e Luca Lotti, a una riunione del maggio 2019 durante la quale, secondo l’accusa, si sarebbero realizzate condotte scorrette nei confronti di alcuni candidati alla nomina di procuratore di Roma, nonché dei magistrati Giuseppe Pignatone e Paolo Ielo, finalizzate a condizionare le scelte del Csm nella nomina dei dirigenti di diversi uffici giudiziari tra cui la Procura di Roma.

Il procedimento potrebbe fermarsi, per la presenza di Davigo?

Contro Davigo è stata presentata istanza di ricusazione, già rigettata. La presenza di Davigo non solo è legittima, ma anche doverosa, poiché è stato eletto dal plenum del Csm nella sezione disciplinare, la cui composizione non può essere modificata, se non nei casi previsti espressamente.

Quindi Davigo non deve lasciare il Csm, e dunque il procedimento Palamara, con il raggiungimento del settantesimo anno d’età?

La questione è controversa perché non vi sono precedenti nella storia del Csm. È stato chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, emesso ma non ancora noto. La Costituzione dice: “I membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili”. Idem la legge istitutiva del Csm, senza alcuna eccezione nel caso di raggiungimento dell’età pensionabile dei componenti, togati o laici.

È vero che la disciplinare sta accelerando sul caso Palamara in vista della “scadenza” di Davigo?

Palamara è sottoposto a una misura cautelare molto afflittiva, la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio, per cui è il primo ad avere interesse a un giudizio veloce. Non entro nel merito della decisione del collegio di non ammettere gran parte dei testimoni richiesti dalla difesa di Palamara che, trattandosi di decisione giudiziaria, potrà essere impugnata nelle sedi competenti. In termini generali ritengo però che sia il processo penale, sia quello disciplinare possono avere a oggetto solo singoli fatti, contestati puntualmente in relazioni a fattispecie precise. Il processo al “sistema” degenerato non spetta ai giudici, ma alla politica e, per quanto riguarda la magistratura, anche all’Associazione nazionale magistrati.

Chi chiede che Davigo lasci e se ne vada?

Nessuno ha formulato alcuna richiesta ufficiale. È lo stesso Davigo ad aver segnalato alla commissione competente sulla verifica titoli il raggiungimento dell’età pensionabile e credo lo abbia fatto per fugare qualsiasi ombra.

Non è automatica la decadenza di Davigo dal Csm, al compimento dei 70 anni d’età?

Assolutamente no, ogni decisione dovrà essere presa dal plenum del Csm dopo una discussione pubblica. Io credo però che, in assenza di una norma precisa, non la si possa pretendere in via interpretativa, in forza di argomentazioni opinabili. Il diritto elettorale, che è il cuore dei sistemi democratici, è fondato sul principio di tassatività delle ipotesi di incandidabilità, ineleggibilità o decadenza dei membri eletti: in questo caso, in un organo di rilevanza costituzionale come il Csm. Ipotizzare che sia la maggioranza di turno a integrare a livello interpretativo le norme sulla decadenza, mi sembra un precedente molto grave. Immaginare poi che ciò avvenga nei confronti di Davigo, che anche come presidente dell’Anm aveva già denunciato pubblicamente la degenerazione del sistema delle correnti, rappresenterebbe davvero un epilogo molto triste per la magistratura tutta.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/04/e-giusto-che-davigo-rimanga-al-csm-grave-escluderlo-dal-caso-palamara/5953610/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=oggi-in-edicola&utm_term=2020-10-04

venerdì 3 luglio 2020

I 4 incontri propiziati da Ferri: così si decise di registrare il giudice. - Gianni Barbacetto


l'onorevole renziano cosimo ferri rivela: fui io a portare il ...
Nessun complotto: caso Mediaset deciso subito perché si prescriveva il 1.8.2013. i 10 misteri dei 4 incontri fra B., il suo giudice e il solito Ferri.
È lui “il magistrato” che porta il giudice Amedeo Franco da Silvio Berlusconi. È Cosimo Ferri, leader storico della corrente Magistratura indipendente, che però nel 2013 riveste un ruolo politico, perché è sottosegretario alla Giustizia (berlusconiano) del governo di Enrico Letta, nato dalle “larghe intese” tra Pd e Berlusconi. È Ferri che chiede un incontro al leader di Forza Italia, perché deve riferire quanto gli ha detto uno dei giudici che hanno firmato la sua condanna definitiva in Cassazione. Silvio tira in lungo, rimanda. “Da tempo aveva chiesto di parlarmi e io mi ero rifiutato”, racconta, “perché ero troppo amareggiato per quello che avevo subito”.
In verità, sono i suoi avvocati, Niccolò Ghedini e Franco Coppi, a suggerirgli prudenza: un giudice che va a parlare con il suo condannato è inconsueto perfino nel magico mondo berlusconiano. Dopo le insistenze di Franco e del suo ambasciatore Ferri, Ghedini e Coppi dicono sì, raccomandando però di registrare gli incontri. Sono quattro o cinque, avvengono a Roma a Palazzo Grazioli tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014. Ad almeno un paio è presente anche Ferri. Nelle trascrizioni compaiono anche due voci femminili, che potrebbero essere segretarie e assistenti di Berlusconi. Ghedini e Coppi ne restano fuori, anche per non diventare testimoni dei fatti e dover rinunciare alla difesa. Finché Franco è vivo, non esibiscono gli audio, che sono però evocati in una memoria alla Corte di Strasburgo del 2015. Nel 2017 ne accenna Berlusconi nel programma di Bruno Vespa, dicendo che “aveva la prova” che la sentenza di Cassazione era viziata. Il 20 maggio 2020 – dopo la morte di Amedeo Franco – Ghedini e Coppi depositano a Strasburgo anche i file audio. Uomo-chiave degli incontri è Ferri. È lui a contattare Berlusconi per farlo parlare con Franco. È lui ad accompagnarlo a Palazzo Grazioli.
Figlio d’arte, Cosimo ha ereditato le sue due anime dal padre, Enrico Ferri, magistrato ma anche ministro socialdemocratico dei Lavori pubblici ai bei tempi della Prima Repubblica. Fa il giudice al Tribunale di Massa, sezione penale di Carrara. Ma la sua vera passione sono le relazioni. A soli 35 anni viene eletto, grazie alla campagna elettorale paterna, al Consiglio superiore della magistratura. Poi diventa segretario generale di Magistratura indipendente, che trasforma nella sua rete di rapporti e di potere. Nel 2012, alle elezioni dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), stabilisce il record italiano delle preferenze, raccogliendo 1.199 voti. Si butta in politica. Sotto l’ombrello di Berlusconi: nel 2013 diventa sottosegretario alla Giustizia del governo Letta. È questo il momento in cui porta Amedeo Franco a Palazzo Grazioli. Resta sottosegretario anche dopo la fine delle “larghe intese”: autoproclamandosi “tecnico”. Mantiene la poltrona anche nei successivi governi Renzi e Gentiloni. Nel 2018 viene eletto deputato del Pd, che lascia nel settembre 2019 per aderire a Italia Viva.
Il suo nome compare come il prezzemolo in molti succulenti piatti-scandalo italiani. In Calciopoli entra, da gran collezionista di poltrone qual è, come membro dell’Ufficio vertenze economiche della Federcalcio. Nel 2005, in una telefonata intercettata, ringrazia il vicepresidente Figc, Innocenzo Mazzini, a nome dell’amico Claudio Lotito, patron della Lazio, per aver fatto designare un arbitro che ha favorito i biancazzurri: “Mi ha detto Claudio di ringraziarti. Sei un grande”. Nel 2009 si occupa di Michele Santoro: Giancarlo Innocenzi, commissario berlusconiano all’Agcom, dice a Berlusconi di “aver trovato una chiave interessante” per bloccare il programma Annozero, grazie ai preziosi consigli di Ferri. Nel 2010, compare nelle intercettazioni dello scandalo P3: si dava da fare per piazzare magistrati nei posti desiderati.
Per lui, la frontiera tra politica e magistratura è frastagliata e incerta come i crinali della sua Lunigiana. Così nel 2014 fa campagna elettorale per il Csm, mandando sms ai suoi ex colleghi magistrati, per invitarli a votare due suoi protetti. L’Anm denuncia l’interferenza della politica e del governo nelle attività elettorali del Csm. Tutte medaglie. Il 21 luglio si presenterà alla sezione disciplinare del Csm, per lo scandalo Palamara: dovrà spiegare i suoi incontri con il deputato renziano Luca Lotti, con cui discuteva la nomina del procuratore di Roma. Chissà se spiegherà anche il suo ruolo di mediatore tra il giudice e il condannato.

giovedì 25 giugno 2020

No, vanno aboliti. - Marco Travaglio

Mura nuovo procuratore generale di Roma. Ma al Csm è giallo sull ...
Caro procuratore, concordo sulla diagnosi, ma dissento sulla cura. E, per spiegarmi meglio, le suggerisco il prezioso libriccino di Antonio Padellaro pubblicato da PaperFirst: La strage e il miracolo. 23 gennaio 1994: la mafia all’Olimpico. Racconta quella domenica di 26 anni e mezzo fa, quando Antonio andò con i figli a vedere Roma-Udinese e tornò a casa ignaro di essere sopravvissuto alla più devastante strage politico-mafiosa solo per un guasto all’innesco dell’autobomba piazzata contro carabinieri e tifosi. Il commando dei Graviano restò a Roma per qualche giorno, con l’intenzione di riprovarci una domenica successiva. Ma il 26 gennaio B. annunciò la sua “discesa in campo”: era la notizia che Cosa Nostra attendeva dopo due anni di trattative con pezzi dello Stato, infatti la strage fu annullata, anzi sospesa sine die, e iniziò una lunga pax mafiosa fatta di ricatti di Cosa Nostra e cedimenti dello Stato.
Questa storia, in un altro Paese, sarebbe nota a tutti perché produttori e registi ci avrebbero fatto film e fiction tutte basate su fatti veri, senza bisogno di romanzare o inventare: Romanzo criminale, al confronto, è roba da rubagalline. Invece, essendo accaduta in Italia, non l’ha raccontata per intero quasi nessuno, a parte i pentiti e le Corti d’Assise di Firenze e Palermo (sentenze stragi e Trattativa). E oggi la conoscono solo pochi pm, giornalisti e lettori informati. Lei mi dirà: che c’entra col caso Csm? C’entra perché la trattativa è anche un Romanzo Quirinale. Cioè quel potere che lei considera talmente neutrale e super partes da volergli affidare la nomina dei membri laici del Csm, in condominio con il Parlamento e la Consulta.
Nel ’93 Scalfaro si attivò per rimpiazzare al Dap il “duro” Niccolò Amato col “molle” Alberto Capriotti, che insieme al suo vice Di Maggio e al ministro Conso revocò il 41-bis a 334 mafiosi detenuti. L’allora premier Ciampi, la notte delle stragi a Milano e Roma e del black out telefonico (27 luglio ’93), pensò a un colpo di Stato, ma lo confidò solo al suo diario, tant’è che la cosa venne fuori in parte solo anni dopo in un libro-intervista. Nel 2012 Napolitano tentò di interferire nell’inchiesta su pressione di Nicola Mancino; e, quando i pm riuscirono a sentirlo come teste, ricordò di molti particolari della stagione stragista mai detti prima. Quindi tremo alla sola idea che, ai tempi di Napolitano e della sua corte di giudici costituzionali (da Cassese ad Amato&C.), il Colle e la Consulta potessero piazzare i loro uomini al Csm: avremmo rimpianto i laici di partito, le correnti, fors’anche Palamara. Una delle cause della degenerazione dei magistrati è proprio la più alta istituzione della Repubblica che, di presidente in presidente, s’è assunta l’onere di rappresentare non i cittadini, ma una malintesa “ragion di Stato” che tende a coprire le deviazioni di pezzi delle istituzioni e ad allontanare i pm “cani sciolti” in grado di scoprirle. Non solo a Palermo. Napolitano difese il procuratore di Milano (Bruti Liberati) che aveva scippato l’inchiesta su Expo al titolare (l’aggiunto Robledo); poi Renzi ringraziò la Procura per la “sensibilità istituzionale”, cioè per non aver disturbato i manovratori di Expo. La stessa ragion di Stato deve aver indotto Mattarella a garantire la successione morbida a Roma fra Pignatone e il fido Prestipino, sabotando i “discontinui” Viola e Creazzo.
La verità è che l’autogoverno della magistratura non è mai esistito, se non per due terzi, visto che un terzo del Csm lo lottizzano i partiti. Ma, se l’alternativa è ampliare quel terzo e affidarlo a Quirinale e Consulta, è meno peggio la lottizzazione, più simile al pluralismo del pensiero unico del Partito del Colle e dei suoi derivati. Io credo che la cura sia tutt’altra: abolire la quota laica (idea di Montanelli); sorteggiare la quota togata, almeno per scegliere i candidati da sottoporre al voto dei 9mila magistrati in servizio (limitando il correntismo); e riformare l’Ordinamento giudiziario per abrogare la scadenza di 8 anni ai capi e agli aggiunti delle Procure (limitando così il carrierismo) e restituire ai singoli pm la titolarità dell’azione penale, oggi affidata in esclusiva ai capi, padri-padroni delle indagini (e soprattutto delle non indagini). Così non basterà più controllare un pugno di procuratori per mettersi in tasca le principali Procure. Vale la pena tentare: peggio di così non può andare.

mercoledì 24 giugno 2020

Sappiamo già tutto. - Marco Travaglio

Csm, l'ex consigliere Palamara indagato per corruzione - ItaliaOggi.it
Arrivano le chat, si salvi chi può! Da quando s’è sparsa la voce (sai che scoop) che Luca Palamara chattava con politici e magistrati anche prima che gli inoculassero il trojan nell’iPhone e ora potrebbe levarsi qualche macigno dalle scarpe, s’è creata una spasmodica quanto ridicola suspense: chissà mai cosa verrà fuori, ce ne sarà per tutti, mamma mia che impressione. Per i cortigiani di Arcore le chat trasformeranno i reati di B. in virtù cardinali e il Caimano in un martire perseguitato: certo, come no. Ma, qualunque cosa esca non sarà mai peggio di ciò che già si sa e si finge di dimenticare: le pagine più nere dell’Anm e del Csm sono state scritte alla luce del sole, anche se nessuno (a parte noi e pochi intimi) ha osato raccontarle. E non le ha scritte Palamara da solo: spesso agiva sotto dettatura del Colle, con Napolitano e pure con Mattarella. Per punire i magistrati scomodi e promuovere quelli comodi, si appoggiava sulle altre correnti (Area o MI o entrambe) e sui laici di tutti i partiti, a partire dai vicepresidenti Mancino, Vietti, Legnini, Ermini (tutti targati Pd).
Non c’è bisogno di chat per sapere che, quando De Magistris osò toccare i santuari politico-affaristico-massonici di Calabria e Basilicata, fu spazzato via prima dai suoi capi e poi dal Csm (tutto) insieme ai pm salernitani Apicella, Nuzzi e Verasani, che stavano scoprendo le sue ragioni, con la benedizione apostolica di Napolitano. Il quale benedisse pure le prime azioni disciplinari contro Woodcock, pm che da Potenza a Napoli rompeva le palle al Pd, a B. (per la corruzione dei senatori) e alla Lega (per i 49 milioni rubati). Quando invece tentarono di fargliela pagare per lo scandalo Consip del Giglio Magico renziano, c’era già Mattarella. Non c’è bisogno di chat neppure per scoprire cosa accadde ad Alfredo Robledo, procuratore aggiunto a Milano, scippato del fascicolo su Expo2015 dal suo capo Edmondo Bruti Liberati contro ogni regola interna: il Csm diede ragione a chi aveva torto e punì e cacciò chi aveva ragione su preciso ordine dello staff di Napolitano, con lettera su carta intestata. Altre tracce scritte e telefoniche lasciò Re Giorgio nella sua guerra senza quartiere ai pm palermitani che indagavano sulla Trattativa, da Ingroia a Di Matteo a Messineo: il Csm, non solo Palamara, obbedì. Secondo voi, perché il Pg di Palermo Roberto Scarpinato, pur essendo il più titolato, non è diventato procuratore nazionale Antimafia? Perché anche lui indaga da vent’anni sulle trattative e i sistemi criminali retrostanti le stragi del 1992-’94. Due anni fa era in pole position, ma gli fu preferito Federico Cafiero De Raho, che invece era il più titolato per la Procura di Napoli.
Ma dovette fare spazio a Gianni Melillo, ex capogabinetto di Orlando, e poi fu “risarcito” con la Dna. Da anni il Csm premia chi ha avuto incarichi politici, come se la vicinanza a partiti e governi fosse un pregio, non un handicap. È appena riaccaduto per Cantone, ex capo Anac per grazia renziana ricevuta, a Perugia. E Palamara non c’era.
Poi c’è il capolavoro sulla Procura di Roma dopo il pensionamento di Giuseppe Pignatone: ben due Csm presieduti da Mattarella e vicepresieduti dagli appositi Legnini ed Ermini, più maggioranze laiche e togate, si sono mobilitati per sbarrare la strada a due magistrati (Marcello Viola e Giuseppe Creazzo, Pg e procuratore di Firenze) che minacciavano discontinuità nel vecchio porto delle nebbie, e per consentire a Pignatone di scegliersi l’erede. Un anno fa, siccome in commissione Viola aveva battuto il pignatoniano Franco Lo Voi (procuratore di Palermo), il Colle profittò delle intercettazioni di Palamara&C. (in cui la voce di Viola non compariva mai) per far rigiocare la partita nel nuovo Csm su una nuova rosa di nomi. Così vinse il pignatoniano Prestipino, contro la cui nomina Viola e Creazzo ora ricorrono al Tar (sono due capi, più titolati e anziani dell’aggiunto Prestipino). Fu il replay di quant’era accaduto nel 2014 per Palermo: lì correvano due procuratori capi (Guido Lo Forte e Sergio Lari) e il solito Lo Voi, che non aveva mai diretto nulla, era più giovane e per giunta era stato nominato da B. a Eurojust. In commissione vinse Lo Forte, ma alla vigilia del Plenum arrivò il diktat di Napolitano, che bloccò la votazione, inventandosi un “criterio cronologico” mai visto prima. Anziché difendere le proprie regole, il Csm si piegò fantozzianamente all’ukase quirinalizio e rinviò il voto fino a scadere. Il nuovo Csm capì l’antifona e premiò il candidato meno meritevole, dipinto come Er Più da una tragicomica relazione della forzista Casellati. Lo Forte e Lari ricorsero al Tar del Lazio, che annullò la nomina di Lo Voi: “illegittima”, “illogica”, “irrazionale”, “apodittica” per “eccesso di potere”. Ma il Consiglio di Stato ribaltò il verdetto con una sentenza-supercazzola che spacciava per un titolo di merito (“le diverse esperienze maturate, anche in ambito internazionale”) l’euroincarico burocratico gentilmente offerto da B. Il presidente era Riccardo Virgilio e l’estensore Nicola Russo, poi indagati per corruzione giudiziaria con l’avvocato-depistatore dell’Eni Piero Amara: lo stesso del caso Palamara. Una storia più nera di qualunque chat che però nessuno, a parte noi, ha mai raccontato. Diceva Leo Longanesi: “Quando potremo dire tutta la verità, non la ricorderemo più”.

domenica 21 giugno 2020

Palamara, la replica dell’Anm agli avvertimenti: “Mente e inganna l’opinione pubblica”. Caputo: “Inventa realtà”. E Albamonte lo querela.

Palamara, la replica dell’Anm agli avvertimenti: “Mente e inganna l’opinione pubblica”. Caputo: “Inventa realtà”. E Albamonte lo querela

Il sindacato delle toghe diffonde un comunicato per spiegare perché non ha sentito il suo ex presidente prima di espellerlo: "Semplicemente perché lo Statuto non lo prevede. Non vi sono altre ragioni". Il leader di Area querela il collega, che ai giornali riferisce di cene con l'onorevole dem Donatella Ferranti per discutere della nomina del vicepresidente del Csm David Ermini. Il segretario dell'Anm Caputo, tirato in ballo sempre dal pm sotto inchiesta, replica: "Per difendersi attacca, ma con lui mai parlato di nomine".
“Un Giudice dovrebbe essere in grado di leggere lo Statuto di una associazione. Ancora di più quando ne è stato Presidente”. Nel day after dell’espulsione di Luca Palamara dall’Associazione nazionale magistrati – da lui presieduta tra il 2008 e il 2012 – le polemiche nel mondo delle toghe sono tutt’altro che svanite. Il sindacato dei magistrati, infatti, ha affidato a un comunicato stampa la sua replica per il pm al centro dell’inchiesta che imbarazza il mondo della giustizia. Ma a Palamara non è indirizzata solo la nota ufficiale dell’Anm, ma pure la smentita – si presume a titolo personale – del segretario del sindacato delle toghe, Giuliano Caputo. E poi l’annuncio di querela di Eugenio Albamonte, collega di Palamara alla procura di Roma e come lui ex presidente dell’Anm. Ma andiamo con ordine.
Anm: “Palamara mente” – Già ieri, quando il comitato direttivo centrale aveva respinto all’unanimità la sua richiesta di audizione, Palamara aveva attaccato: “Mi è stato negato il diritto di parola e di difesa, nemmeno nell’Inquisizione”. Poi aveva fatto trapelare alle agenzie di stampa il testo del suo discorso denso di rivendicazioni e avvertimenti. Quindi, in una serie di interviste ad alcuni quotidiani (compreso Il Fatto) rincara la dose: “Non ho agito da solo e non farò, come ho già detto più volte, da capro espiatorio. Questo deve essere estremamente chiaro”, dice il pm indagato dalla procura di Perugia. Ed è tornato nuovamente ad attaccare, che a suo dire non gli avrebbe dato modo di difendersi dalle contestazioni. “Quando dice che non ha avuto spazio per difendersi, Palamara mente” e “cerca ora di ingannare l’opinione pubblica con una mistificazione dei fatti”, replica la giunta dell’Associazione nazionale magistrati. “Il dottor Palamara – si legge nella nota dell’organismo guidato da Luca Poniz – non è stato sentito dal Cdc semplicemente perché lo Statuto non lo prevede. Non vi sono altre ragioni. Quando dice che non ha avuto spazio per difendersi Palamara mente: è stato sentito dai probiviri e in tutta la procedura disciplinare non hai mai preso una posizione in merito agli incontri con consiglieri del Csm, parlamentari e imputati. E, come lui, gli altri incolpati. Le regole si rispettano, anche quando non fanno comodo”.
“Albamonte a cena col Pd”. E lui querela – Molto diverso il dibattito che si è acceso per le dichiarazioni rilasciate da Palamara ai giornali, nei minuti dopo l’espulsione. Il pm è stato chiamato a chiarire cosa intende dire nel suo discorso quando si scaglia contro “quelli che ancora oggi siedono nell’attuale Comitato direttivo Centrale e che forse troppo frettolosamente hanno rimosso il ricordo delle loro cene o dei loro incontri con i responsabili giustizia dei partiti politici di riferimento”. A chi si riferiva, gli chiede Antonio Massari del Fatto: “A Eugenio Albamonte e Donatella Ferranti, per esempio. Per quanto mi risulta, si sono frequentati come io ho incontrato Luca Lotti e Cosimo Ferri. Non credo che abbiano parlato solo di calcio”, risponde Palamara. Che poi evoca su quelle cene l’ombra degli accordi per le nomine degli uffici giudiziari: “Diciamo che non lo posso escludere. Esisteva un rapporto anche tra Ferranti ed il vice presidente del Csm David Ermini: erano compagni di partito”. Segretario di Area, la corrente di sinistra delle toghe, storicamente in buoni rapporti con Palamara – che era il leader di Unicost, la corrente moderata e per lungo tempo alleata di Area – Albamonte ha dato mandato al proprio legale per presentare querela nei confronti del collega. Il motivo? Lo ha diffamato – spiega l’avvocato Paolo Galdieri- parlando di fatti mai avvenuti, in particolare di non meglio precisate cene tra il mio assistito e l’onorevole Donatella Ferranti, già presidente della commissione Giustizia della Camera, nelle quali si sarebbe discusso della nomina del vicepresidente del Csm David Ermini e delle nomine di avvocati generali della Cassazione”. “Non vediamo cosa ci sia di diffamatorio nelle dichiarazioni del nostro assistito. Sarà comunque un’occasione di chiarimento. Piuttosto ci si dovrebbe seriamente interrogare sul trattamento ricevuto da Palamara, privato di difesa e di come il trojan inoculato non abbia carpito nulla di penalmente rilevante”, controreplicano i legali di Palamara, gli avvocati Benedetto e Mariano Marzocchi Buratti.
“Caputo? Ha beneficiato del sistema”. “Tutto falso” – Al quotidiano Repubblica, invece, il pm sotto inchiesta fa il nome del segretario dell’Anm, che come lui fa parte di Unicost: “Se penso a Giuliano Caputo – le parole di Palamara – penso a un beneficiato assoluto di questo meccanismo che si trova lì perché Enrico Infante, anche lui di Unicost, era ritenuto troppo di destra. Questi sono gli errori che hanno fatto fallire un sistema facendo prevalere gli accordi tra correnti”. Caputo, da parte sua, non querela ma smentisce: “Nel disperato tentativo di difendersi attaccando, Palamara inventa una realtà che non corrisponde ai fatti“. Il segretario dell’Anm smentisce di aver discusso con lui di nomine: “Mai ne avevo parlato con lui e la pubblicazione integrale delle chat chiarirà forse anche le sue idee sulla mia nomina.Con un chiaro tentativo mistificatorio accosta le dinamiche associative alle prassi relative alle nomine per posti direttivi e semidirettivi ed al mercato delle nomine di cui è stato assoluto (anche se non unico) protagonista negli ultimi anni. Non ho mai parlato né con lui né con altri di domande presentate da me o da altri magistrati”, dice Caputo. “Raramente – prosegue il segretario dell’Anm – mi sono confrontato con lui, come con altri ex esponenti apicali dell’Anm, su questioni dell’associazione. Era nota la sua aspirazione a diventare procuratore aggiunto a Roma, resa possibile dall’abrogazione di una norma, avvenuta con dinamiche ancora da chiarire, rispetto alla quale l’Anm ha assunto da subito una posizione di ferma condanna. Ignoravo assolutamente i suoi tentativi di condizionare la nomina del procuratore della Repubblica di Perugia che avrebbe dovuto gestire il procedimento a suo carico, che si confrontasse con un parlamentare imputato per la nomina del procuratore di Roma e che pensasse di screditare, per varie ragioni, altri colleghi, circostanze che hanno rappresentato le ragioni della sua espulsione dall’Anm”.

venerdì 19 giugno 2020

Mattarella: “Distorsioni gravi nel Csm, ora credibilità”. - A. Masc.

Mattarella: “Distorsioni gravi nel Csm, ora credibilità”

La questione morale in magistratura al centro della cerimonia al Quirinale in ricordo dei magistrati uccisi Giacumbi, Minervini, Galli, Amato, Costa e Livatino. 

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha rilanciato una dura reprimenda per il caso Palamara e lo scandalo delle nomine del Csm: “Quel che è apparso ulteriormente fornisce la percezione della vastità del fenomeno denunziato” l’anno scorso “e fa intravedere un’ampia diffusione della grave distorsione” dentro al Csm. Quindi, ha proseguito, vanno messe in discussione le correnti: “Questo è il momento di dimostrare con coraggio di voler superare ogni degenerazione del sistema delle correnti per perseguire autenticamente l’interesse generale. È indispensabile porre attenzione critica sul ruolo e sull’utilità stessa delle correnti”. 
Poi, rivolgendosi “ai giovani magistrati”, parla della “fedeltà alla Costituzione, l’unica alla quale sentirsi vincolati”. Ma il presidente sottolinea che “la stragrande maggioranza dei magistrati è estranea alla ‘modestia etica’ di cui è stato scritto” e che è stata la magistratura a far emergere quei comportamenti “in amaro contrasto” con “l’alto livello” di chi è stato ucciso. Allora, “non si può ignorare il rischio che alcuni attacchi alla magistratura” servano a chi vuole porre “in discussione l’irrinunciabile indipendenza”. 

Mattarella, infine, ribadisce un concetto scritto in una nota del 29 maggio in risposta a Salvini che chiedeva lo scioglimento del Csm: “Serve il rispetto rigoroso della Costituzione. Si odono talvolta esortazioni rivolte al presidente della Repubblica perché assuma questa o quell’altra iniziativa”. Così “si incoraggia una lettura delle funzioni del presidente difforme da quanto previsto con chiarezza dalla Costituzione”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/06/19/mattarella-distorsioni-gravi-nel-csm-ora-credibilita/5840241/

giovedì 18 giugno 2020

Cantone procuratore di Perugia, ma il Csm si divide. Di Matteo: ‘Ha avuto incarico di natura politica. Inopportuno indaghi su Palamara’.



Cantone procuratore di Perugia, ma il Csm si divide. Di Matteo: ‘Ha avuto incarico di natura politica. Inopportuno indaghi su Palamara’

Decisivo per eleggere l'ex presidente dell'Anticorruzione il voto bipartisan di tutti i consiglieri eletti dalla politica: è la prima volta che succede durante questa consigliatura. Otto preferenze al procuratore aggiunto di Salerno Masini. Con la riforma de ministro Alfonso Bonafede, tra l'altro, la nomina dell'ex presidente dell'Anac a procuratore di Perugia sarebbe stata impossibile. Al suo interno, infatti, la bozza di riforma prevede una norma che vieta a chi è stato fuori ruolo di candidarsi a incarichi direttivi per i due anni successivi.
Sarà Raffaele Cantone a guidare l’inchiesta – e l’eventuale processo – su Luca Palamara e i rapporti tra magistrati e politica. L’ex presidente dell’Anticorruzione, infatti, è il nuovo procuratore di Perugia. Sulla scelta di affidargli le redini della procura titolare dell’inchiesta che ha terremotato il Csm, però, il plenum di Palazzo dei marescialli si è diviso. Il consigliere indipendente Nino Di Matteo ha definito “inopportuno” l’incarico di Cantone al vertice della procura umbra. Il motivo? Ha diretto l’Anac, incarico che è di natura politica. L’ex pm di Palermo ha votato insieme ala minoranza per Luca Masini, procuratore aggiunto a Salerno, che ha preso otto voti: quelli dei togati di Autonomia e Indipendenza e di Magistratura Indipendente. Si sono invece astenuti i togati “moderati” di Unità per la Costituzione. Dodici le preferenze per l’ex presidente dell’Anac: a suo favore hanno votato le toghe progressiste di Area e i laici di tutto lo schieramento politico. È la prima volta che durante questa consigliatura che tutti i consiglieri eletti dal Parlamento – e quindi in quota M5sLegaPd e Forza Italia – convergono su un unico candidato.
Un particolare – quello dei sostegno politico bipartisan a Cantone- che ha provocato un’altra riflessione tra i corridoi del Consiglio superiore: con la riforma del Csm del ministro Alfonso Bonafede la nomina dell’ex presidente dell’Anac a procuratore di Perugia sarebbe stata impossibile. Al suo interno, infatti, la bozza di riforma prevede una norma che vieta a chi è stato fuori ruolo di candidarsi a incarichi direttivi per i due anni successivi. Cantone ha lasciato l’Anticoruzzione nel settembre scorso: prima dell’ottobre 2021 non potrebbe concorrere per la guida di alcun ufficio. La riforma Bonafede, però, non è ancora stata approvata: Cantone, dunque, può prendere il posto di Luigi De Ficchy, andato in pensione lo scorso anno. Quindi per nominare il procuratore capo che dovrà indagare sulle imbarazzanti trame del mondo della magistratura, il Csm ha eletto un magistrato che con la nuova riforma – creato proprio per cancellare gli eventuali imbrarazzi del futuro – non sarebbe stato eleggibile. E lo ha fatto col voto fondamentale e bipartisan di tutti i consiglieri eletti dalla politica.
In questo senso un peso specifico nel dibattito al Csm lo ha giocato anche il fatto che la procura umbra è competente dei reati contestati ai magistrati romani. Primo tra tutti Palamara, simbolo dei legami tra toghe e politica e indagato principale dell’inchiesta nomine che ha terremotato il Csm. Le chat e le intercettazioni di Palamara, in cui il magistrato parlava anche con Luca Lotti delle nomine ai vertici delle procure, sono state citate durante il dibattito a Palazzo dei Marescialli. Il presidente della Commissione Direttivi Mario Suriano, della corrente “di sinistra” Area, era il relatore della proposta su Cantone: “Non si può dubitare della indipendenza di Cantone. Dalle chat – ha detto riferendosi a quelle emerse nell’inchiesta – vediamo che Cantone non doveva andare a Perugia secondo persone vicine al presidente del Consiglio che lo nominò all’Anac”. Gli replica a stretto giro di posta Piercamillo Davigo, relatore della proposta a favore del candidato di minoranza: “Di Masini nelle chat non si parla proprio e questo è ancora meglio“.
Ma è l’indipendente Di Matteo a ribaltare le argomentazioni di Suriano e a richiamare l’inchiesta di Perugia come ostacolo alla nomina di Cantone: “Ritengo che non sia opportuno che Cantone vada a dirigere proprio quella procura che è competente su ipotesi di reato commesse dai colleghi che lavorano negli Uffici di Roma e che possono investire procedimenti che a vario titolo riguardano i rapporti tra magistrati e politici vicini o appartenenti alla stessa compagine politica decisiva per la nomina all’Anac”. Il riferimento diretto dell’ex pm di Palermo è evidentemente anche al caso di Palamara.
Di Matteo, pur manifestando la sua stima nei confronti di entrambi i candidati, non nega che Cantone all’Anac “abbia perfezionato la propria professionalità in materia di contrasto alla corruzione, se non altro attraverso i rapporti con le procure”, ma il punto è che “noi abbiamo il dovere di decidere in funzione dell’esigenza di garantire nei confronti dei cittadini l’apparenza di imparzialità. Io – ha spiegato – avrei sostenuto la candidatura di Cantone a una Procura diversa, ma non a Perugia. L’incarico all’Anac ha una fortissima connotazione politica, una connotazione che si è perfino accentuata, almeno quanto alla sua apparenza, quando per più volte Cantone è stato indicato come possibile premier della nuova compagine governativa”. Di Matteo ha poi sottolineato che il testo unico sulla dirigenza giudiziaria esige una “prudenziale” valutazione degli incarichi fuori ruolo “in modo che mai possa ingenerarsi nell’opinione pubblica il sospetto di mancanza di imparzialità“. Per questo Di Matteo ha sostenuto Masini “che ha sempre saputo coltivare il valore della indipendenza”.