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venerdì 18 febbraio 2022

Quando eravamo normali. - Marco Travaglio


Che avrebbero dovuto fare 30 anni fa i magistrati sommersi dalle confessioni e dalle chiamate in correità di politici corrotti e imprenditori corruttori? Quello che prevedeva (e prevede) la legge: indagarli, arrestarli e processarli. Che avrebbero dovuto fare i cronisti sommersi dalle notizie sui politici e imprenditori più famosi che si scambiavano mazzette e, presi con le mani nel sacco, le confessavano e restituivano? Quello che era (ed è) il loro mestiere: procurarsi gli avvisi di garanzia, i verbali, le ordinanze di custodia cautelare (tutti atti, fra l’altro, non segreti) e pubblicarli. Che avrebbero dovuto fare i cittadini sommersi dai nomi e cognomi di chi si era mangiato l’Italia a suon di mazzette sugli appalti pubblici e di appalti pubblici fatti apposta per trarne mazzette, depredando le casse dello Stato e le tasche dei contribuenti con opere inutili, gonfiate e inquinanti e lasciando il conto da pagare a noi (manovra finanziaria da 90mila miliardi e prelievo del 6 per mille dai conti correnti nel 1992 a cura del governo Amato)? Maledire i ladri di Stato, smettere di votarli e, se provavano a farla franca col trucchetto dell’impunità parlamentare, contestarli con lanci di insulti, spugne, monetine e banconote (false) e difendere i magistrati che applicavano la legge (finalmente) uguale per tutti.

Quella del 1992-’93 fu una rara parentesi di normalità nel Paese di Sottosopra che, prima e dopo, ha sempre confuso le guardie con i ladri, i giornalisti con i leccaculo, i cittadini con i sudditi. Per due anni gli italiani furono veri cittadini e, informati da veri giornalisti, si schierarono dalla parte delle guardie contro i ladri. Poi, grazie alle sue tv, B. riportò al potere i ladri travestiti da amici delle guardie, li salvò con decine di leggi impunitarie votate o mantenute anche dal centrosinistra e tutto tornò come prima. Ora vogliono farci pentire di essere stati normali e farci credere che non sta bene tifare guardie, anzi è giusto tifare ladri. E l’ex braccio destro del ladrone latitante presiede la Consulta che avalla un referendum per vietare l’arresto dei ladri, uno per riportarli in Parlamento e tre per punire le guardie. Una guardia si porta avanti e, nel trentennale di Mani Pulite, rinvia a giudizio un galantuomo come Davigo. Partecipano alla festa molti giornalisti che per due anni informarono i cittadini sui delitti dei potenti, anche dei loro editori (che, terrorizzati, li lasciavano liberi), e ora, per far carriera e non finire prepensionati, si pentono di aver fatto per pochi mesi il proprio dovere. Li vediamo sfilare in tv a battersi il petto come nelle purghe staliniane, confessando il loro peccato mortale di gioventù: aver chiamato ladri i ladri. Il sistema migliore per non dover spiegare perché hanno smesso.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/02/18/quando-eravamo-normali/6498074/

Davigo a giudizio: “Segreto violato”. Ma al Csm non c’è. - Antonio Massari

 

LOGGIA UNGHERIA - Il processo a Brescia per i verbali di Amara ricevuti dal pm di Milano Paolo Storari. L’ex consigliere: “So di essere innocente”. 

Persino le date danno il loro contributo nella storia legata alla presunta Loggia Ungheria: nell’anniversario di “Mani Pulite” – a trent’anni esatti dal 17 febbraio 1992, quando fu arrestato l’ex presidente del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa – un uomo simbolo del pool di magistrati che avviò Tangentopoli, Piercamillo Davigo, finisce sotto processo.

Se fisicamente è a Pisa, per un convegno sull’indagine che segnò la fine della Prima Repubblica, Davigo è virtualmente in un’aula del tribunale di Brescia, nelle vesti di imputato. E viene rinviato a giudizio, per concorso in rivelazione d’ufficio, dal gup Francesca Brugnara. Il processo inizierà il prossimo 20 aprile. È così, a trent’anni da Mani Pulite, dopo aver affrontato e spesso vinto processi delicatissimi, dopo aver indagato colossi della politica e dell’economia, quella stessa procura si ritrova spalle al muro. Davigo sotto processo e ben altri quattro magistrati sotto indagine. Dopo il caso Palamara la credibilità dell’intera magistratura è già ai minimi storici. Il crollo arriva con i verbali dell’ex legale esterno di Eni Piero Amara.

Tutto precipita infatti nel dicembre 2019 quando Amara dichiara al pm milanese Paolo Storari e alla procuratrice aggiunta Laura Pedio di essere membro della presunta loggia coperta Ungheria affollata da magistrati e vertici delle istituzioni. Fino a gennaio fornirà ulteriori dettagli (tutti da verificare e tuttora al vaglio della procura di Perugia guidata da Raffaele Cantone). I verbali di Amara – nell’aprile 2020 secondo le versioni di Davigo e Storari – prendono però un’altra strada. Storari ravvisa un’inerzia della procura nel procedere alle iscrizioni (accusa ritenuta insussistente, nei riguardi dell’ex procuratore capo di Milano, Francesco Greco, che sarà indagato e archiviato). Per tutelarsi denuncia la situazione a Davigo – in qualità di membro del Csm – che lo autorizza a rivelargli le notizie coperte dal segreto. Ad autorizzarlo, secondo Davigo, c’è una norma del 1994: non si può opporre il segreto istruttorio a un membro del Consiglio. In sostanza, secondo Davigo, non ci sarebbe alcuna violazione del segreto. Evidentemente la procura di Brescia la pensa diversamente. Storari consegna a Davigo una copia in formato word dei verbali di Amara. L’avvocato coinvolge due consiglieri del Csm in carica: Sebastiano Ardita, della stessa corrente di Davigo, e Marco Mancinetti. A quel punto – è la versione di Davigo – il consigliere del Csm, nel timore che scegliendo le vie formali possa essere vanificato il segreto istruttorio, come già accaduto nello scandalo legato a Luca Palamara, decide di informare oralmente i membri del comitato di presidenza del Csm. A partire dal vicepresidente David Ermini (e attraverso lui il Quirinale). Davigo informerà dell’indagine – parlando della questione Ardita e “vincolandoli al segreto istruttorio” – anche altri consiglieri del Csm e le sue segretarie. Ed è per questo motivo che Ardita, che si considera danneggiato dalla condotta di Davigo, s’è costituito in giudizio come parte civile. Di lì a poco Davigo lascia il Csm. E al Csm lascia anche una copia dei verbali ricevuti da Storari. Da quel momento in poi, a sua insaputa, il segreto istruttorio va in frantumi: nell’ottobre 2020 copia dei verbali giunge in forma anonima al Fatto Quotidiano che – per non distruggere l’eventuale indagine in corso e temendo una polpetta avvelenata, non avendo prova che fossero autentici – denuncia alla procura di Milano e li deposita nelle mani di Storari e Pedio.

A marzo 2021 li riceve la cronista di Repubblica Liana Milella che denuncia a Perugia. Una copia giunge infine al consigliere Nino Di Matteo che prima denuncia a Perugia e poi rivela durante un plenum del Csm il “dossieraggio calunnioso” ai danni di Ardita. Inizia così l’inchiesta sulla fuga di notizie. L’invio dei verbali alla stampa e a Di Matteo viene attribuito alla segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, oggi indagata per calunnia a Roma. Storari confessa a Greco di averli consegnati a Davigo. Rinviato a giudizio, Davigo commenta: “Non dirò mai una parola contro la giurisdizione che ho servito per 40 anni. I processi servono per accertare se l’imputato è colpevole o innocente. Io so di essere innocente”. Storari ha scelto il rito abbreviato, la sentenza è prevista il 7 marzo. L’accusa – che ieri ha parlato di “buona fede” dell’imputato, contestata radicalmente dalla parte civile Ardita, sin dall’atto di costituzione – ha chiesto una condanna a 6 mesi per aver consegnato i verbali a Davigo “fuori da ogni procedura formale”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/02/18/davigo-a-giudizio-segreto-violato-ma-al-csm-non-ce/6498098/

mercoledì 16 febbraio 2022

Mani pulite, Colombo e Davigo. “La guerra l’han vinta i corrotti, non noi…” - Gianni Barbacetto e Peter Gomez

 

Trent’anni fa iniziava alla Procura di Milano un’inchiesta giudiziaria che poi fu chiamata Mani pulite. La ricordiamo insieme a due protagonisti, allora pm del pool insieme ad Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo.

Prima di Mani pulite, negli anni 80, a Milano furono iniziate molte indagini sulla corruzione. Perché non arrivarono a risultati significativi? 

Colombo: Perché le indagini cominciavano a Milano e poi la Cassazione stabiliva che dovessero andare a Roma, perché la Procura di Roma sollevava conflitto di competenza. A Roma finivano nel niente. Così morivano inchieste che avrebbero portato ineludibilmente a scoprire il sistema della corruzione con una decina di anni di anticipo.

Ci sono degli esempi che ci potete fare?  

Colombo: Il 17 marzo del 1981, con il collega Giuliano Turone abbiamo scoperto le carte della P2. Oltre alle liste, c’erano anche oltre trenta buste sigillate da Licio Gelli, ognuna delle quali conteneva una notizia di reato. Una riguardava il Conto Protezione, un un passaggio di soldi dal Banco Ambrosiano al Psi di Bettino Craxi. Abbiamo fatto una rogatoria in Svizzera per avere i dati di quel conto. Poi l’inchiesta è passata come al solito a Roma. Ebbene, il giudice istruttore di Lugano che si chiamava Luisoni ci disse: “Noi le carte del conto Protezione le abbiamo pronte, ma a Roma non le vogliono”. Noi due giudici istruttori avevamo anche chiesto al procuratore della Repubblica di Milano di fare un comunicato per bloccare le fughe di notizie sulla P2. Il procuratore ci ha risposto che avremmo dovuto restituire a Gelli le carte sequestrate. Poi nel 1992, quando viene arrestata una persona molto vicina a Bettino Craxi, Silvano Larini, questi ci racconta finalmente che su quel suo conto svizzero erano arrivati 7 milioni di dollari dell’Ambrosiano destinati al Psi di Craxi. Altro esempio: 1984, indagini sui fondi neri dell’Iri. Erano 360 miliardi di lire, 4 miliardi di euro. Anche in quel caso, la Cassazione manda l’inchiesta a Roma e tutto si ferma.

Invece il 17 febbraio 1992 Antonio Di Pietro fa arrestare Mario Chiesa, mentre sta intascando una piccola tangente da 7 milioni e mezzo di lire. E inizia Mani pulite. Le inchieste, questa volta, non si fermano.

Davigo: L’inchiesta decolla subito per un paio di motivi. Il primo. All’inizio, Chiesa non parla, ma poi Di Pietro viene a sapere, dalla causa di separazione di Chiesa dalla moglie, di alcuni suoi conti in Svizzera con nomi di acque minerali e chiede per rogatoria il loro sequestro. Poi dice al suo avvocato: “Dica al suo cliente che l’acqua minerale è finita”. L’avvocato non capiva, ma Di Pietro: “Vedrà che lui capirà”. Il secondo motivo. Craxi, il segretario del Psi a cui Chiesa apparteneva, dichiara che proprio in prossimità delle elezioni lui si trovava in difficoltà per colpa di un “isolato mariuolo”. Chiesa si è sentito scaricato. E ha cominciato a parlare. Ha raccontato di otto imprenditori che gli avevano pagato tangenti.

Questi a loro volta parlano e raccontano molti altri episodi. L’inchiesta si espande fino a coinvolgere migliaia di persone. Ma come si spiega il fatto che gli imprenditori questa volta parlano, mentre in precedenza negavano tutto?

Davigo: Si spiega con il fatto che fino a quel momento gli imprenditori erano riusciti tranquillamente a trasferire il costo delle tangenti sulla Pubblica amministrazione, attraverso la revisione prezzi e le varianti in corso d’opera. Dal 1991 c’è una stretta di bilancio imposta dal governo, quindi improvvisamente i costi delle tangenti vanno a incidere non più sul costo delle opere ma sul profitto degli imprenditori, che cominciano a sentirsi concussi. Una bugia colossale su cui i difensori hanno marciato per anni.

Ci spieghi che cos’è la concussione e perché la considera una colossale bugia.

Davigo: La concussione è quando un imprenditore è costretto o indotto a pagare da un politico o da un amministratore, in una situazione di inferiorità rispetto al pubblico ufficiale. Nella realtà non è quasi mai così. Basti pensare che le tangenti erano pagate con somme in nero accantonate prima che arrivasse la richiesta: sarebbe come se uno uscendo di casa si portasse un po’ di soldi, in caso gli capitasse di essere rapinato. Invece le tangenti erano pagate in accordo tra politico e imprenditore e ad essere gonfiato era il costo delle opere pubbliche. Dopo Mani pulite, per esempio, i costi di Malpensa 2000 e della linea 3 della metropolitana al chilometro si sono quasi dimezzati.

Dopo qualche tempo, il procuratore Francesco Saverio Borrelli affianca, a Di Pietro, Colombo e poi Davigo.

Davigo: Andò così: io avevo una settimana di ferie arretrate da fare e prima di partire andai a salutare Gerardo D’Ambrosio, il procuratore aggiunto, che mi disse: “Già che va in vacanza, portati questi verbali da studiare perché il procuratore Borrelli e io abbiamo pensato di affiancare anche te a Gherardo e Antonio Di Pietro”. Io non volevo, perché desideravo trasferirmi in Corte d’appello e quando lessi quei verbali avevo capito che sarebbe deflagrato l’effetto domino. “Se metto le mani in questa roba qui, devo stare minimo altri cinque anni in Procura”. E sono stato ottimista. Ma poi, l’ultimo giorno delle mie ferie, ci fu la strage di Capaci. Allora mi vergognai anche solo di aver pensato di dire di no e quindi quando rientrai dissi: faccio quello che devo fare.

Colombo: Maggio 1992: è il mese dell’attentato a Giovanni Falcone. Quel giorno, il 23 maggio, ero al carcere di San Vittore e stavo interrogando il presidente di un ente in cui i soldi delle tangenti, fiumi di denaro, andavano a tutti i membri del consiglio d’amministrazione che rappresentavano tutti i partiti, esclusi il Movimento sociale italiano da una parte e Democrazia proletaria dall’altra. All’uscita da San Vittore, un agente della polizia penitenziaria mi ha detto dell’attentato a Falcone. Quella sera avevo una cena con alcuni amici, tra cui Turone: non abbiamo scambiato una parola per tutta la sera.

A un certo punto vi rendete conto che le indagini diventavano vastissime e che la risposta non poteva essere solo giudiziaria. 

Colombo: A luglio 1992 avanziamo la proposta che poi è stata impropriamente chiamata di “condono”: non va in carcere chi si presenta, racconta come sono andate le cose, restituisce tutto ciò di cui si è appropriato illecitamente e si allontana per qualche anno dalla vita pubblica. Era una soluzione tendente a far emergere tutto perché era impossibile gestire tutti quei processi. La proposta non è passata. Il Parlamento ha cominciato invece a fare leggi che riducevano i reati, che toglievano valore ad alcuni mezzi di prova, che dimezzavano la prescrizione. È andata a finire che adesso la vulgata sostiene che Mani pulite è stata una specie di invenzione, che la corruzione non c’era, che abbiamo messo in prigione gli innocenti e fatto una specie di colpo di Stato.

Davigo: Quella proposta di “condono” io la interpreto in questo senso: neppure uno Stato solido poteva reggere per anni alla scoperta di malefatte della classe dirigente pubblica e privata, politici e imprenditori, figurarsi uno Stato malandato come il nostro in quel momento. Allora, dicevo, bisogna fare presto e chiuderla lì, usando un ragionamento che abbiamo sempre fatto: chi racconta tutto diventa inidoneo a commettere di nuovo questi reati perché si rende inaffidabile al sistema.

Colombo: Eravamo un po’ ingenui: proprio per questo non l’hanno fatto.

Davigo: Ne uscì infatti solo un progetto di riduzione di pena che per carità, piuttosto che niente è sempre meglio piuttosto… Il presidente del Consiglio dell’epoca (Giuliano Amato) ci mandò un suo incaricato – perlomeno ci disse di venire a nome del presidente del Consiglio – e ci chiese che cosa volevamo proporre. Quando glielo spiegammo, ci disse: “Ma siete matti? Così li prenderete tutti”. Mi caddero le braccia perché io ero ancora convinto che i vari poteri dello Stato fossero concordi nel voler far rispettare a tutti la legge e cercare una via d’uscita che conciliasse il rispetto della legge con il non sfasciare tutto. Invece ci fu il decreto Biondi che era una cosa indegna sotto il profilo etico perché ci imponeva di scarcerare i colletti bianchi, una plateale e brutale violazione dell’articolo 3 della Costituzione.

Andaste davanti alle telecamere a dire che vi sareste dimessi. Questo vi è ancora rimproverato come una forte intromissione nella politica.

Davigo: Noi abbiamo applicato quel decreto e abbiamo chiesto al giudice di scarcerare gli indagati, però abbiamo detto che non lo volevamo più fare perché ci ripugnava moralmente. Poi il governo ha ritenuto di non chiedere la conferma in Parlamento di quel decreto legge, che è decaduto. Quindi ammonire qualche volta serve.

Una delle accuse che più spesso vi è stata rivolta è che avete salvato il Partito comunista.

Davigo: A livello locale, a Milano, il Pci si finanziava come gli altri partiti. A livello nazionale, le imprese normali finanziavano i partiti della maggioranza, mentre le cooperative cosiddette “rosse” finanziavano il Pci. Intendiamoci, dare soldi ai partiti non è vietato, è vietato farlo di nascosto. Le cooperative mettevano a bilancio perlomeno una parte dei soldi che davano al partito, quindi non c’era una pista immediatamente illegale da seguire. Però ci è accaduto di raccogliere dichiarazioni come quella su una valigetta di soldi portata da Raul Gardini a Botteghe Oscure, sede del Pci, poi Pds e poi Ds. Ma nessuno ce l’ha confermato. Anche Primo Greganti, che lavorava per il Pci, ha preso certamente soldi, ma ha detto di averli tenuti lui. Che cosa potevamo fare? Torturare i testimoni? Questo vogliono quei bei garantisti che ci criticano?

Colombo: Nel sistema della metropolitana milanese, il Pci era coinvolto esattamente come gli altri partiti, anzi era un esponente del Partito comunista che prendeva i soldi e poi li distribuiva. E il sistema delle percentuali fa riflettere: al Partito socialista andava il 37,5% delle tangenti, alla Democrazia Cristiana e all’ex Partito comunista andava la metà di quella percentuale, poi l’11% ai socialdemocratici e il resto al Partito repubblicano. Pensate quanto ragionamento c’è dietro il fatto che a Pci e Dc andasse una somma con due decimali.

Davigo: A chi dice che noi con Mani pulite abbiamo fatto danni e ora qui rubano come prima, ricordo una barzelletta. Durante il fascismo venne inventata la guerra alle mosche e alle zanzare. Un prefetto andò in visita in un piccolo comune dove c’era il podestà ad accoglierlo, ma quando scese dall’auto venne assalito da un nugolo di mosche. Allora disse al podestà: “Ma in questo comune non avete fatto la guerra alle mosche?” E quello rispose: “Sì eccellenza, ma hanno vinto le mosche”.

Nel 1992 e ’93 c’era un clima di sostegno a voi magistrati. Avevate dei veri e propri fan. 

Colombo: Io credo che per il magistrato siano sempre da preferire i fischi agli applausi, perché i fischi tengono alta la soglia dell’attenzione per non sbagliare. A me poi non fanno né caldo né freddo né gli applausi né i fischi. A Davigo invece piacciono i fischi.

Davigo: Oggi, dopo Mani pulite, nessuno può più dire in buona fede che la corruzione non esista. Può al massimo dire: “C’è, però ci piace così”. La questione non è di poco momento perché adesso è in atto un tentativo di restaurazione. Siccome arrivano i soldi del Pnrr dell’Unione europea, sono tutti entusiasti. Immagino che allargandosi di nuovo la torta si possa ricominciare a rubare alla grande. Peccato che siano in larga misura prestiti che bisognerà restituire e quindi, quando la festa finirà, se verrà ripristinato un sistema di corruzione diffusa come quello scoperto da Mani pulite, il risultato finale sarà che ci sarà un’altra catastrofe come quella del 1992. Perché le restaurazioni non durano mai all’infinito.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/02/16/manipulite-colombo-e-davigo-la-guerra-lhan-vinta-i-corrotti-non-noi/6495374/

giovedì 25 novembre 2021

Rapsodie ungheresi. - Marco Travaglio


Per la serie “tutti ladri, nessun ladro”, grandi festeggiamenti a edicole unificate per la richiesta di rinvio a giudizio contro Piercamillo Davigo, accusato a Brescia insieme al pm milanese Paolo Storari di rivelazione di segreto per aver consegnato o comunicato ai vertici del Csm i verbali dell’avvocato Amara sulla presunta loggia Ungheria. Giornale: “Colpo finale ai giustizialisti”. Libero: “Caro Davigo, ora tocca a te. Da inquisitore a inquisito”. Foglio: “Processo alla malagiustizia”. Verità: “Contrappasso: chiesto il processo per Davigo”. Riformista: “Davigo è finito come i pifferi di montagna”, “È uno squarcio su Mani Pulite”. Il sillogismo del partito degli imputati è avvincente: Davigo è uno dei pm che scoperchiarono Tangentopoli; ora è imputato a Brescia (per la 27ª volta); dunque tutti i colpevoli di Tangentopoli erano innocenti. E ricorda quello di Montaigne: il salame fa bere; bere disseta; dunque il salame disseta. Ora, le eventuali colpe di Davigo non cancellerebbero quelle dei tangentari neppure se fosse stato scoperto a prendere tangenti. Ma il reato a lui contestato non c’entra nulla con soldi, interessi personali o altre condotte eticamente infamanti. Attiene a una sua doverosa denuncia in base all’interpretazione letterale di una circolare del Csm: quella per cui ai suoi membri non si può opporre il segreto.

È la primavera 2020: Storari confida a Davigo che i vertici della Procura di Milano non indagano i personaggi accusati da Amara. Davigo si fa dare i verbali (a lui non si può opporre il segreto) e ne avvisa alcuni colleghi del Csm. A voce e non tutti, perché due sono accusati da Amara e non devono sapere delle indagini. Sta commettendo un reato? I colleghi del Csm ritengono di no, sennò lo denuncerebbero per non commetterne uno a propria volta (omessa denuncia del pubblico ufficiale). Neppure il vicepresidente Ermini, che corre ad avvertire il presidente Mattarella, senza che questi eccepisca nulla, poi distrugge i verbali avuti da Davigo (cioè la prova del possibile reato che, se fosse tale, lo renderebbe colpevole di favoreggiamento, oltreché di correità nella rivelazione di segreti al capo dello Stato). Anche Salvi, Pg di Cassazione e titolare dell’azione disciplinare, si guarda bene dall’avviarne una contro Davigo. Anzi, usa le sue informazioni per chiamare il procuratore di Milano e sollecitare le iscrizioni di cui Storari lamenta l’assenza. Al processo, quando Davigo chiamerà tutti a testimoniare, ci sarà da divertirsi. Intanto, oltreché del dito (Davigo), magari qualcuno magari si occuperà della luna (la loggia Ungheria). Sempreché i confratelli e le consorelle ungheresi, che nel frattempo continuano a far carriera, non siano arrivati al Quirinale.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/11/25/rapsodie-ungheresi/6404627/

sabato 9 ottobre 2021

Brescia è in Ungheria. - Marco Travaglio

 

Non auguro a Piercamillo Davigo di finire sotto processo per rivelazione di segreto a Brescia, dove peraltro è un habitué. Però, da spettatore, non vedo l’ora di assistere a un processo che si annuncia meglio di uno spettacolo di cabaret. L’accusa, nell’avviso di conclusione delle indagini che prelude alla richiesta di giudizio, è nota: nell’aprile 2020 Davigo, allora al Csm, suggerì al pm milanese Paolo Storari di scrivere ai capi il suo dissenso per la mancata iscrizione dei reati emersi dai verbali dell’avvocato esterno dell’Eni Piero Amara sulla presunta Loggia Ungheria, datati dicembre 2019. Poi se ne fece consegnare una copia Word per segnalare il tutto al Csm, visto che Amara ne accusava due consiglieri. Cosa che fece a maggio, avvertendo il vicepresidente Ermini e gli altri due membri del Comitato di presidenza, Curzio e Salvi, cinque consiglieri, le sue due segretarie e il presidente dell’Antimafia (tutti tenuti al segreto d’ufficio, purtroppo violato – secondo l’accusa – da una delle segretarie).

In base a una circolare del Csm, Davigo ritiene che il segreto non sia opponibile ai membri del Csm e che trasmettere quelle carte per le vie ufficiali avrebbe significato avvisare tutti i consiglieri, compresi i due accusati da Amara. Infatti il Pg Salvi – titolare dell’azione disciplinare – non gli contestò alcuna violazione, anzi chiamò il procuratore di Milano, Greco, che iscrisse gl’indagati del caso Ungheria. Ora i pm bresciani accusano Davigo di aver violato il segreto insieme a Storari, ma solo un po’: non quando avvisò Curzio e Salvi; solo quando avvertì il terzo membro del Comitato di presidenza, Ermini, e tutti gli altri. Ma, se il segreto fosse intermittente, sarebbe un guaio pure per Ermini. Che corse ad avvertire Mattarella, presidente del Csm. E neppure Mattarella obiettò nulla, né il suo consigliere giuridico Erbani, che parlò della cosa con Davigo qualche settimana dopo. Se Davigo viola il segreto avvertendo Ermini, come fanno a non violarlo Ermini avvisando Mattarella e chi poi avvisa Erbani? Ermini, sentito a Brescia come testimone (ma non violò anche lui il segreto?), conferma che si fece pure consegnare da Davigo le copie dei verbali di Amara, ma poi le distrusse inorridito. E qui i pm dovrebbero sobbalzare: se quelle carte erano la prova del reato di Davigo, Ermini distruggendole commise favoreggiamento e andrebbe sentito come indagato, non come teste. Per molto meno (non aver iscritto Vannoni nell’inchiesta Consip), Woodcock finì davanti al Csm vicepresieduto da Ermini. Che ora potrebbe doversi occupare dei pm bresciani che non iscrissero Ermini indagando sui pm milanesi che non iscrissero il caso Amara. Non so voi, ma io per un processo così pagherei pure il biglietto.

ILFQ

domenica 18 luglio 2021

Davigo indagato (e sconcertato) “La diffusione non fu illegittima”. - Gianni Barbacetto

 

Caso Storari e “verbali apocrifi”.

Piercamillo Davigo non replica in alcun modo alla notizia (scritta ieri dal Corriere della sera) di essere indagato dalla Procura di Brescia per l’ipotesi di rivelazione di segreto d’ufficio, per cui è già indagato il pm di Milano Paolo Storari. L’avvocato difensore di Davigo, Francesco Borasi, risponde al Fatto solo per dire che si ritiene “sicuro della correttezza dei comportamenti del dottor Davigo. Sicuro con la S maiuscola, anzi, con la S di Esselunga”. Aggiunge: “Sono sconcertato: non c’è stata alcuna diffusione illegittima di atti”. Borasi non risponde alla domanda se Davigo abbia ricevuto una convocazione per rispondere alle domande dei magistrati bresciani che stanno indagando, il procuratore Francesco Prete e il sostituto Donato Greco.

La vicenda è quella dei verbali segreti in cui l’ex avvocato dell’Eni Piero Amara, interrogato tra il dicembre 2019 e il gennaio 2020 dal sostituto procuratore Storari e dall’aggiunto Laura Pedio, raccontava i rapporti e gli affari di una presunta “Loggia Ungheria”, in cui a suo dire sarebbero coinvolti magistrati, politici, imprenditori, generali delle forze dell’ordine. Nell’aprile 2020, ritenendo che la Procura di Milano non stesse reagendo con celerità alle dichiarazioni di Amara, che a suo dire esigevano indagini immediate, Storari chiede aiuto a Davigo, allora componente del Consiglio superiore della magistratura. Gli racconta quella che ritiene l’inerzia dei suoi colleghi e, per fargli capire i temi in discussione, gli consegna un documento word con una copia (informale e senza le firme) dei verbali segreti. Davigo riceve quel documento e informa in maniera riservata alcuni componenti del Csm del conflitto in corso alla Procura milanese.

Tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021, quando ormai Davigo è uscito dal Csm dopo aver raggiunto l’età della pensione, quei verbali vengono recapitati in forma anonima a due giornali, Il Fatto e Repubblica, che ne informano le Procure di Milano e di Roma. Una copia arriva anche al consigliere del Csm Nino Di Matteo, che lo comunica formalmente al Csm e al procuratore di Perugia Raffaele Cantone. Seguono indagini delle Procura di Roma, che ritiene di aver individuato la responsabile della diffusione dei documenti: la ex segretaria di Davigo al Csm, Marcella Contrafatto, che viene indagata per l’ipotesi di calunnia ai danni del procuratore di Milano Francesco Greco, dipinto nel messaggio anonimo a Di Matteo come un insabbiatore di inchieste. Davigo ha già sostenuto di non aver commesso alcun reato e di non aver rivelato alcun segreto d’ufficio, perché questo non è opponibile al Consiglio superiore della magistratura e perché ha ricevuto quel documento in quanto consigliere del Csm. Poi ha provveduto a informare della vicenda alcuni componenti del Consiglio: in maniera riservata e non formale, perché un atto ufficiale avrebbe fatto conoscere a due consiglieri del Csm che i loro nomi erano stati inseriti da Amara tra quelli degli appartenenti alla presunta Loggia Ungheria.

Davigo, nelle settimane scorse, ha spiegato che Storari gli aveva “segnalato una situazione critica e dato il materiale necessario per farmi un’opinione, dopo essersi accertato che fosse lecito. Io spiegai che il segreto investigativo, per espressa circolare del Csm, non è opponibile al Csm”. Erano invece necessarie indagini rapide, perché “quando uno ha dichiarazioni che riguardano persone in posti istituzionali importanti, se sono vere è grave, ma se sono false è gravissimo: quindi, in un caso e nell’altro, quelle cose richiedevano indagini tempestive. Mi sembrava incomprensibile la mancata iscrizione” nel registro degli indagati. Ha così informato “in maniera diretta e sicura i componenti del Comitato di presidenza del Csm, perché questo dicono le circolari”: dunque il vicepresidente David Ermini e gli altri due membri del Comitato di presidenza, presidente e procuratore generale della Corte di cassazione, Pietro Curzio e Giovanni Salvi. Ha poi parlato della vicenda ad altri consiglieri del Csm e al presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra, per spiegare come mai aveva interrotto i rapporti con il consigliere Sebastiano Ardita, anch’esso indicato da Amara come vicino alla Loggia Ungheria. I pm di Brescia dovranno ora verificare se ci sono discordanze tra le dichiarazioni di Davigo e quelle dei consiglieri a cui Davigo ha parlato.

ILFQ

mercoledì 19 maggio 2021

“Bullo, isolato, da arrestare” Stampa e tv linciano Davigo. - Lorenzo Giarelli e Fabio Sparagna

 

Solo, spregiudicato, nella bufera, da arrestare. Il ritratto che giornali e talk show dedicano a Piercamillo Davigo, il magistrato che ricevette i verbali farlocchi di Piero Amara sulla fantomatica Loggia Ungheria, descrive un pericoloso criminale vittima di se stesso. E poco importa che Davigo non sia neanche indagato: al centro dello scandalo sembra esserci lui e soltanto lui.

Su La7 Non è l’Arena, il programma di Massimo Giletti, picchia da settimane. Domenica scorsa il grande ospite era Sebastiano Ardita, considerato una della vittime di questa faccenda. Con cui Giletti si può sfogare: “Come fa un magistrato che la conosce bene a non vedere che sono inattendibili queste cose?”. Nulla però in confronto alla puntata precedente, quando a fare la morale a Davigo c’era nientemeno che Luca Palamara, già radiato dalla magistratura: “Le informazioni spesso sono utilizzate per colpire gli avversari e questa storia mi sembra si inserisca pienamente in questo crinale”. Lo stesso Palamara ieri sul Foglio ha paragonato il suo caso a quello di Davigo: “Con la differenza che io sono sotto processo”.

Anche a Quarta Repubblica, su Rete4, da tempo va in onda l’inquisizione. Ospite fisso è Piero Sansonetti: “Se quel dossier dice cose vere, è da colpo di Stato. Non lo sappiamo, ma quello che sappiamo è che c’è un membro del Csm che ha inguattato il dossier per un anno”. Poi c’è Carlo Nordio, ex pm di cui si ricorda – a proposito di dossier inguattati – la richiesta di archiviazione per Massimo D’Alema e Achille Occhetto chiusa in un cassetto a Venezia per quattro anni. Oggi Nordio sale in cattedra: “Davigo non ha seguito le procedure che avrebbe dovuto. Quando ho letto le sue risposte sono schizzato sulla sedia”. Con Bruno Vespa in studio, poi, l’occasione è ghiotta per infilarci dentro la condanna a Berlusconi e la giustizia politicizzata: “Ci sono troppe cose che non tornano in quella sentenza”.

Nello studio di DiMartedì ci pensa Alessandro Sallusti a infierire: “Davigo è vittima del suo stesso metodo. Qui ci sono dei comportamenti così ambigui e discutibili che se applicati alla politica o all’impresa sarebbero già partiti gli avvisi di garanzia e forse una carcerazione preventiva”. Anche perché “Davigo ha arrestato per molto meno”, lui che “ha teorizzato la cultura del sospetto”. Insomma “Davigo è indifendibile”, come chiosa Nicola Porro in una diretta Facebook, tanto che “l’unico che difende Davigo è Travaglio”, colui che per Paolo Guzzanti è il “Re Mida al contrario” che “perde uno dopo l’altro i suoi beniamini”.

Gli epiteti per parlare di Davigo, poi, non sono mai mancati, da “Piercavillo” al “Dottor sottile”, fino al “Pieranguillo” sfornato da Alfredo Robledo a Piazzapulita, ma per Carlo Bonini (Repubblica) l’ex pm diventa addirittura il “Cavaliere Nero”, nonché “interprete e custode di una cultura inquisitoria del processo penale” che ne hanno fatto “il campione di un giustizialismo declinato nella sua forma più ideologica”. Libero invece lo bolla come “Pierbirillo”, mentre il Riformista approfitta dell’entrata in scena di Nicola Morra per delineare il quadretto degli “Stanlio e Ollio delle manette”, novelli “Gianni e Pinotto” che vogliono piacere “con l’uso della forza”.

Ma non è solo questione di soprannomi. A tornare al centro del dibattito è l’intera stagione di cui il pm del pool di Mani Pulite fece parte, in quella che ha l’aria di essere una vendetta di chi non vedeva l’ora di un po’ di revisionismo.

È con malcelato sarcasmo che Il Foglio racconta come “stavolta nella bufera ci è finito proprio lui, Davigo, il grande moralizzatore della vita pubblica del Paese”, mentre Guzzanti su Il Riformista incalza ancora: “Dottor Davigo, ci aiuti lei che è come la divina provvidenza: ne sa niente lei?”. E ancora Sallusti, su quello che era il suo Giornale, ironizzava sul “puro Davigo” che “non può sfuggire alla regola che ‘se fai il puro, arriverà qualcuno più puro di te e ti epurerà’”.

Su La Verità Mario Giordano rivolge una lettera beffarda al pm: “Il suo integralismo giacobino ha sempre suscitato in me, insieme a un po’ di sgomento, un’insana attrazione”. Per il già citato Piero Sansonetti, Davigo è addirittura “un piccolo Conte in toga” che forse “non sta tanto bene”, “un bulletto qualunque”. Il Corriere della Sera ironizza sulla proverbiale incorruttibilità del magistrato: “Con quella faccia un po’ così, da Javert padano, quell’espressione un po’ così, da trangugiatore di Maalox, solo un pazzo avrebbe potuto immaginare di corromperlo”.

L’obiettivo delle invettive è via via più chiaro. Maurizio Belpietro su La Verità palesa i non detti: “Da Mani pulite siamo a Toghe rotte. Ci sono voluti 30 anni e tanti orrori giudiziari, ma i problemi irrisolti di quella stagione, con lo strapotere dei pm e il mini-potere della magistratura giudicante, ma soprattutto lo stato di subalternità della difesa, ora sono sotto gli occhi di tutti”. Libero non riesce proprio a trattenersi dal “guardare con mestizia definitiva” al passato: “Sul pool di Mani pulite, sipario”. E così Repubblica può evocare “la terribile nemesi dell’inquisitore nella Colonia penale di Franz Kafka, intrappolato nella macchina che lui stesso aveva realizzato per comminare le pene in modo esemplare e che invece finisce per stritolarlo”. E menomale che questi sono i garantisti.

IlFQ

venerdì 23 ottobre 2020

Csm, convertiti e astenuti: così hanno messo fuori Davigo. - Antonella Mascali (20 ottobre 2020)

 

13 voti a favore, 6 contrari e 5 non si pronunciano.

Nel giro di poche ore, Piercamillo Davigo è magistrato in pensione perché oggi compie 70 anni, ed ex consigliere del Csm proprio perché collocato a riposo. Ieri, a determinare la fuoriuscita dal Consiglio, come anticipato dal Fatto, il Comitato di presidenza costituito dal vicepresidente David Ermini, dal presidente della Cassazione Piero Curzio, e dal procuratore generale di Cassazione Giovanni Salvi. Ergo, il Quirinale.

Sono scesi in campo per dire che la via dell’uscita è tracciata dalla Costituzione. Una posizione che ha portato all’astensione anche chi aveva annunciato in punto di diritto il voto pro Davigo: Giuseppe Cascini, di Area (progressisti), seguito dai colleghi di gruppo Giovanni Zaccaro e Mario Suriano, non Alessandra dal Moro ed Elisabetta Chinaglia rimaste per il no alla decadenza; Filippo Donati, laico M5S, è passato dall’astensione al sì alla decadenza. Astenuti, ma della prima ora, anche i laici Carlo Benedetti, M5S, e Stefano Cavanna, Lega. Chi cambia voto all’ultimo precisa che lo fa “per rispetto istituzionale” verso il Comitato, come se mancasse a chi vota in modo diverso. Tanto che Fulvio Gigliotti, laico M5S, tra i 6 consiglieri pro Davigo, dichiara: “Non per mancanza di senso istituzionale, ma per radicamento del mio convincimento giuridico, confermo” il no alla decadenza. Sebastiano Ardita, di AeI annuncia il suo voto contro come i colleghi Ilaria Pepe e Giuseppe Marra ed esprime sconcerto, senza nominarlo, per il cambio di rotta di Cascini. C’è, però, una stessa premessa in tutti gli interventi, a partire da quello della presidente della Commissione verifica titoli Loredana Micciché, che ha proposto la decadenza: “Stima” per Davigo, “nessuna logica correntizia” dietro al voto. Nino Di Matteo è per la decadenza “con grande difficoltà umana, ma in piena coscienza”. Chi, in minoranza, avrebbe voluto la permanenza, invece, ha sostenuto che né la Costituzione né la legge ordinaria prevedono la decadenza da consigliere di un magistrato in pensione e che, quindi, può intervenire solo il legislatore. Ma “se la condizione di magistrato viene meno – ha sostenuto il presidente Curzio, in condivisione con il Pg Salvi – viene meno il rapporto tra laici (8, ndr) e togati (16, ndr)” che la Costituzione prevede per i Csm”. David Ermini a sorpresa parla di “un’amicizia con Davigo irrinunciabile. La Costituzione, però, ci impone di rinunciare all’apporto che Davigo, magistrato eccezionale, potrebbe ancora dare”. E conclude: “Sono convinto che proprio in nome dell’amicizia, stima e affetto che ci lega, saprà comprendere”. Alla fine 13 voti per la decadenza, 6 contrari e 5 astenuti.

Al posto di Davigo, il più votato, subentra Carmelo Celentano, primo dei non eletti in Cassazione con la centrista Unicost, che per colpa dello scandalo Palamara ha perso 3 togati su 5. Ora ne recupera uno, ma in teoria: Celentano a gennaio si è dimesso da Unicost. E, comunque, la partita non è affatto chiusa. Davigo, ci risulta, presenterà ricorso al Tar, convinto che la Costituzione, invece, gli consenta di restare.

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mercoledì 21 ottobre 2020

Csm, non scordiamoci i tanti meriti di Davigo. - Gian Carlo Caselli

 

La maggioranza del Csm ha deciso: Piercamillo Davigo, regolarmente eletto a far parte dell’Organo di governo autonomo della magistratura per gli anni 2018-2022, deve lasciare la carica prima della scadenza del mandato, in ragione del compimento dell’età pensionabile.

Festeggiano, anche in maniera scomposta, tutti coloro che hanno sempre sostenuto (e ancora oggi ne rivendicano le ragioni) le crociate contro il pool di Milano anti corruzione nel quale aveva un ruolo centrale proprio il “dottor sottile” Davigo. Crociate avviate dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in seguito – non è un mistero – ai numerosi processi a suo carico e di alcuni dei suoi più stretti collaboratori. Questi processi non potevano essere credibilmente contestati da soli. Meglio mettere sotto accusa l’intera stagione giudiziaria in cui essi si inserivano, così da nascondere l’interesse di parte.

Il primo punto di attacco era suggestivo: perché le indagini esplodono solo nei primi anni Novanta? In verità c’erano stati anche prima significativi processi per fatti di corruzione politica: vicende come l’Italcasse, i Fondi neri Iri, la Lockeed, i vari scandali petroliferi, i casi Teardo, Zampini, Longo e Nicolazzi appartengono purtroppo alla storia italiana. Il successivo imponente aumento dei processi per corruzione si spiega con il concorso di molteplici fattori: primo, uno sviluppo del malaffare diventato incompatibile con le esigenze dell’economia; secondo, lo “scaricamento” di personaggi intorno ai quali il sistema aveva in precedenza fatto quadrato, a seguito di uno scontro politico senza esclusione di colpi; terzo, la crescita di efficienza e di capacità investigativa di alcuni apparati di polizia; quarto, il graduale incrinarsi di quel sostanziale blocco omogeneo fra potere politico e parte della magistratura (consapevole o inconsapevole) di cui per lustri era stata simbolo la Procura di Roma, “porto delle nebbie” responsabile di artifici e acrobazie arditi pur di non turbare gli assetti di potere esistenti; quinto, la contestuale riduzione della tradizionale prudenza e sobrietà della cosiddetta “giustizia politica” nelle autorizzazioni a procedere (emblematica al riguardo la prima indagine genovese sul contrabbando petrolifero dei primi anni Settanta; accertati versamenti illeciti per oltre tre miliardi di lire in favore di cinque ministri dell’Industria per alcuni provvedimenti; ma alla fine tutto prescritto, grazie anche – obiettivamente – al tempo trascorso per le “cure” assicurate alla vicenda dal Parlamento).

Un altro punto di attacco riguardava specificamente quanto accaduto dopo l’arresto nel febbraio 1992, del mariuolo milanese Mario Chiesa. Una sorta di effetto valanga, battezzato dai media come Tangentopoli o Mani pulite. Secondo il presidente del Consiglio, “un’azione lungamente studiata dai comunisti, che hanno introdotto nella magistratura elementi propri che hanno fatto politica attraverso indagini, processi, sentenze”. A questa garbata sintesi si contrappose (anche tra i magistrati) la trionfalistica evocazione di una rivoluzione per via giudiziaria, alla base del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. Non fu, in realtà, né l’una né l’altra cosa, ma più semplicemente l’emergere in sede giudiziaria (tra malaffare e settori dell’amministrazione, dell’imprenditoria e della politica) di un intreccio diffuso e apparentemente inarrestabile, diretto prevalentemente (ma non solo) al finanziamento illecito dei partiti. Mani pulite e le inchieste che si diffusero da Milano (epicentro del fenomeno) in tutt’Italia di certo non furono un’operazione indolore. Furono anzi un vero e proprio terremoto. Ma il problema vero è: fu un terremoto fondato su fatti, o su sospetti infondati, o su forzature, o su impropri teoremi? La risposta è nelle carte e negli esiti processuali.

E oggi, ad anni di distanza, si può agevolmente constatare che Mani pulite non è stata una stagione di persecuzioni giudiziarie (o l’anticamera di una stagione siffatta), ma il doveroso e corretto dispiegarsi del principio di obbligatorietà dell’azione penale e di un controllo di legalità diffuso.

E tuttavia i componenti del pool di Milano sono stati ingiustamente sbattuti nell’occhio del ciclone di un assalto spesso selvaggio. Davigo in testa. Anche per la sua indiscutibile abilità nel ribattere le accuse, intervenire sui problemi della giustizia con posizioni, sempre argomentate, esposte con linguaggio non felpato (bandito il “giuridichese”) e spesso urticante, perciò temuto da chi preferisce le cortine fumogene.

Tutti meriti che gli vanno riconosciuti anche in questo momento difficile, che per qualcuno potrebbe costituire una rivincita.

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martedì 20 ottobre 2020

Il corpo estraneo. - Marco Travaglio

 

Si attendeva con ansia un segnale di riscatto della magistratura, dopo gli ultimi scandali culminati nel più sfacciato, ma non certo più grave: il caso Palamara. E quel segnale è arrivato: Piercamillo Davigo cacciato dal Csm. Il simbolo vivente dei valori costituzionali di autonomia e indipendenza della magistratura, il pm di Mani Pulite e poi il giudice di appello e di Cassazione che da 40 anni non piega la schiena e non tira indietro la gamba dinanzi alle pressioni e alle minacce del Potere di ogni tipo e colore, è fuori dall’organo di autogoverno. E già era bizzarro che vi fosse entrato, due anni fa, col record di preferenze: ma era chiaro che quel corpo estraneo, al primo pretesto utile, sarebbe stato vomitato fuori dalla casta politico-togata che infesta il finto “autogoverno” sempre più eterodiretto. Ora il pretesto è arrivato: il compimento dei 70 anni, cioè il raggiungimento della pensione. Che però vale per la sua attività di magistrato, non certo per quella di consigliere del Csm.

In passato diversi membri laici andarono in pensione (da avvocati o da docenti universitari) e nessuno si sognò di cacciarli dal Csm per raggiunti limiti di età. Se i Costituenti e i legislatori avessero voluto fare un’eccezione per i togati, l’avrebbero introdotta come causa di ineleggibilità e incandidabilità, come quella che esclude i magistrati over 66 dai concorsi per gli incarichi direttivi perché non garantiscono almeno 4 anni di funzioni. Invece i 2.552 colleghi (su 8.010) che nel 2018 elessero Davigo al Csm sapevano benissimo che, a metà mandato, sarebbe andato in pensione da giudice, ma lo votarono lo stesso perché era scontato che durasse in carica fino al termine della consiliatura. Davigo però è un uomo controcorrente: il partito degli imputati, degli impuniti e dei garantisti pelosi lo considera “giustizialista”. Dunque è finito o rimasto nel mirino dei colleghi invidiosi della sua popolarità, della sua credibilità e del suo rigore morale. Tra quelli che ieri gli hanno votato contro, anche con voltafaccia imbarazzanti, oltre a un inspiegabile e sconcertante Nino Di Matteo, ci sono i correntocrati della destra e della sinistra giudiziaria che per anni hanno inciuciato e fatto carriera con i vari Palamara, collaborando a brutalizzare e/o punire altri cani sciolti (De Magistris, Forleo, Nuzzi, Apicella, Verasani, Robledo, Woodcock) e a coprire i porti delle nebbie e delle sabbie. Ed erano pronti a tutto, persino a calpestare l’articolo 104 della Costituzione (“I membri del Csm durano in carica 4 anni”), pur di liberarsi di lui. Un giorno si accorgeranno di non aver colpito Davigo, ma l’idea stessa di Magistratura, come non riuscirebbero a fare neppure mille Palamara. E forse, di nascosto, si vergogneranno.

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domenica 4 ottobre 2020

“È giusto che Davigo rimanga al Csm. Grave escluderlo dal caso Palamara”. - Gianno Barbacetto

 












Giuseppe Marra - Il consigliere sulla possibile decadenza dell’ex pm al compimento dei 70 anni.

È in corso al Consiglio superiore della magistratura il procedimento disciplinare contro Luca Palamara. Tra i giudici c’è Piercamillo Davigo, che il 20 ottobre compie 70 anni e come magistrato andrà in pensione. Deve lasciare anche il Csm e il procedimento Palamara? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Marra, membro del Csm e appartenente al gruppo di Davigo, Autonomia e indipendenza.

A che punto è il procedimento per Palamara?

La sezione disciplinare del Csm ha già deciso la sua sospensione dalle funzioni e dallo stipendio, confermata dalla Cassazione. Ora è in corso il giudizio di merito, con attività istruttoria compiuta in diverse udienze pubbliche.

Palamara è sotto giudizio penale per corruzione a Perugia. E la sezione disciplinare del Csm che cosa deve giudicare?

Al momento gli è contestata la partecipazione, insieme a ex consiglieri del Csm e ai parlamentari Cosimo Ferri e Luca Lotti, a una riunione del maggio 2019 durante la quale, secondo l’accusa, si sarebbero realizzate condotte scorrette nei confronti di alcuni candidati alla nomina di procuratore di Roma, nonché dei magistrati Giuseppe Pignatone e Paolo Ielo, finalizzate a condizionare le scelte del Csm nella nomina dei dirigenti di diversi uffici giudiziari tra cui la Procura di Roma.

Il procedimento potrebbe fermarsi, per la presenza di Davigo?

Contro Davigo è stata presentata istanza di ricusazione, già rigettata. La presenza di Davigo non solo è legittima, ma anche doverosa, poiché è stato eletto dal plenum del Csm nella sezione disciplinare, la cui composizione non può essere modificata, se non nei casi previsti espressamente.

Quindi Davigo non deve lasciare il Csm, e dunque il procedimento Palamara, con il raggiungimento del settantesimo anno d’età?

La questione è controversa perché non vi sono precedenti nella storia del Csm. È stato chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, emesso ma non ancora noto. La Costituzione dice: “I membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili”. Idem la legge istitutiva del Csm, senza alcuna eccezione nel caso di raggiungimento dell’età pensionabile dei componenti, togati o laici.

È vero che la disciplinare sta accelerando sul caso Palamara in vista della “scadenza” di Davigo?

Palamara è sottoposto a una misura cautelare molto afflittiva, la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio, per cui è il primo ad avere interesse a un giudizio veloce. Non entro nel merito della decisione del collegio di non ammettere gran parte dei testimoni richiesti dalla difesa di Palamara che, trattandosi di decisione giudiziaria, potrà essere impugnata nelle sedi competenti. In termini generali ritengo però che sia il processo penale, sia quello disciplinare possono avere a oggetto solo singoli fatti, contestati puntualmente in relazioni a fattispecie precise. Il processo al “sistema” degenerato non spetta ai giudici, ma alla politica e, per quanto riguarda la magistratura, anche all’Associazione nazionale magistrati.

Chi chiede che Davigo lasci e se ne vada?

Nessuno ha formulato alcuna richiesta ufficiale. È lo stesso Davigo ad aver segnalato alla commissione competente sulla verifica titoli il raggiungimento dell’età pensionabile e credo lo abbia fatto per fugare qualsiasi ombra.

Non è automatica la decadenza di Davigo dal Csm, al compimento dei 70 anni d’età?

Assolutamente no, ogni decisione dovrà essere presa dal plenum del Csm dopo una discussione pubblica. Io credo però che, in assenza di una norma precisa, non la si possa pretendere in via interpretativa, in forza di argomentazioni opinabili. Il diritto elettorale, che è il cuore dei sistemi democratici, è fondato sul principio di tassatività delle ipotesi di incandidabilità, ineleggibilità o decadenza dei membri eletti: in questo caso, in un organo di rilevanza costituzionale come il Csm. Ipotizzare che sia la maggioranza di turno a integrare a livello interpretativo le norme sulla decadenza, mi sembra un precedente molto grave. Immaginare poi che ciò avvenga nei confronti di Davigo, che anche come presidente dell’Anm aveva già denunciato pubblicamente la degenerazione del sistema delle correnti, rappresenterebbe davvero un epilogo molto triste per la magistratura tutta.

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giovedì 25 giugno 2020

Aveva ragione Davigo: oggi rubano senza più vergogna. - Antonio Padellaro

Polacco 36enne colto con le mani nel sacco - Prima Brescia

Nella capitale arrestano quattro funzionari di “Risorse per Roma”, accusati di incassare tangenti per agevolare le pratiche di condono e uno, intercettato, espone la tecnica dei “ricami” e degli “impicci”. Per poi concludere con malcelato orgoglio che “bisogna essere, come si dice dal punto di vista del procuratore di Roma, esperti del male per concepire una cosa di questo tipo… una mente perversa”. A Milano, il dirigente Atm Paolo Bellini, preso con le mani nel sacco, così spiegava a qualche sodale la natura profonda del suo lavoro: “L’altro mio compito è fare la puttana”. Vagheggiava anche progetti di vita: “Mi mancano sette, otto anni per la pensione, apro un conto Gabbietta (tangente Enimont ai tempi di Mani Pulite, ndr), c’ho in testa un agriturismo, i cavalli, la caccia… e mi sistemo”.
Anni fa per avere detto la pura verità, che cioè politici e amministratori pubblici non solo “continuano a rubare” ma “non si vergognano più”, Piercamillo Davigo fu crocifisso come incallito manettaro dalla pletora dei garantisti un tanto al chilo. Gli stessi che oggi invocano semplificazioni à gogo, straconvinti che ridimensionare il codice degli appalti e abolire una paccata di reati (a cominciare dall’abuso d’ufficio) sia la panacea per rimettere in moto l’Italia. Eppure, sul FQ di ieri, Valeria Pacelli ha scritto che ancora choccati dalla pandemia non ci siamo accorti che “nei primi 23 giorni di giugno sono finite sui giornali almeno 14 inchieste per corruzione, per lo più con misure cautelari”. Se (a parte le solite banalità sulle “passerelle”) un appunto di sostanza si può muovere agli Stati generali governativi di villa Pamphilj è che non risulta sia stato dato adeguato spazio al sistema dei controlli preventivi (per quelli successivi opera la magistratura) sui 172 miliardi che l’Europa si appresta a far planare sullo stivale. Allentando le regole sulla corruzione, più di quanto già non lo siano, lasciamo immaginare la proliferazione di “puttane” ed “esperti del male”. Che da certi garantisti di cui sopra saranno applauditi come dei facilitatori finalmente degni di una democrazia liberale.

sabato 1 febbraio 2020



La protesta durante il discorso del magistrato al Palazzo di giustizia. Il presidente dell'Anm critica i "veti ad personam" dei penalisti. Ardita: "Inqualificabile atto di ostracismo, non abbiamo bisogno di censure". Nel suo intervento l'ex pm di Mani Pulite non ha parlato della prescrizione, casus belli dello scontro, ma ha affrontato il caso Palamara: "Fugare qualsiasi idea di giustizia domestica e indulgente". Sull'inchiesta di Perugia è intervenuto anche Di Matteo a Palermo: "Csm trasformato in centro di potere, serve una svolta etica."

Dopo aver chiesto di censurare Piercamillo Davigo, gli avvocati della Camera penale di Milano hanno deciso di contestarlo e non ascoltarlo: in protesta contro il consigliere del Csm ed ex pm di Mani Pulite, hanno lasciato l’aula del Palazzo di giustizia di Milano, dove si tiene l’inaugurazione dell’anno giudiziario, non appena ha preso la parola. I penalisti si erano rivolti al Csm per chiedere di “bloccare” la presenza di Davigo, rivendicata e sostenuta invece dai magistrati che hanno sottolineato il tentativo di bavaglio messo in atto dagli avvocati: “Volete sanzionare la libera manifestazione del pensiero“. I legali hanno deciso di protestare comunque, sventolando tra le mani cartelli con scritti gli articoli 24,27 e 111 della Costituzione, che a loro dire, sono stati violati dalla riforma della prescrizione che prevede il blocco dopo il primo grado di giudizio. Durante la protesta degli avvocati, dall’Aula Magna è partito l’urlo “Si levi il cappello e si vergogni” rivolto al legale Gianmarco Brenelli che si era alzato in piedi esponendo uno dei cartelli davanti a Davigo. Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Luca Poniz, ha definito la protesta “gravemente impropria” perché si tratta di “ostracismi preventivi e veti ad personam“. Da Catania è intervenuto anche il componente del Csm Sebastiano Ardita, parlando di un “irricevibile ed inqualificabile atto di ostracismo“. “La giustizia – ha aggiunto – ha bisogno di confronto, di dibattito” e non “di censure o di messe al bando“.

Dopo essere stato costretto a interrompere il suo intervento per via delle urla, Davigo ha proseguito e concluso il discorso senza fare alcun riferimento allo scontro di questi giorni con gli avvocati sulla prescrizione: l’ex pm di Mani Pulite è finito nel mirino dei penalisti dopo l’intervista rilasciata al Fatto Quotidiano sul tema della prescrizione e in generale sulla riforma della giustizia. Il blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio entrato in vigore il primo gennaio è stato al centro degli interventi di molti presidenti di Corte d’Appello, dalla stessa Milano dove Marina Tavassi che ha sottolineato come la nuova norma avrà “una ricaduta contenuta nella nostra sede giudiziaria”. I presidenti di Corte d’Appello hanno in particolare sottolineato i rischi che potrebbe avere lo stop alla prescrizione senza un’adeguata riforma dei tempi del processo penale. Il vice presidente del Csm, David Ermini, parlando con i giornalisti a margine della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario a Perugia, ha sintetizzato i timori: “Credo sia stato un po’ un azzardo aver votato una norma senza avere la riforma pronta“. Nel suo discorso da Milano, Poniz ha però puntato il dito contro oggi “dal mondo della politica” pretende di impartire una “lezione di garantismo” dopo aver introdotto “le più irrazionali ed ingiuste riforme sostanziali e processuali”. Il numero uno del sindacato delle toghe ha accusato i “garantisti a la carte” e sottolineato: “Rifiutiamo è la contesa manichea, la prospettazione di scenari apocalittici e ancora peggio l’interessata strumentalizzazione politica di questa o quella posizione”.

Nel suo discorso, Davigo ha invece ricordato un altro tema che ha segnato profondamente la giustizia nell’ultimo anno: “Le tristi vicende che hanno colpito il Consiglio superiore della magistratura” con il caso Palamara. Il magistrato ha citato il discorso del presidente della Repubblica Sergio Mattarella sulla vicenda, evidenziando la reazione dello stesso Csm e in particolare “della sezione disciplinare” per “fugare qualsiasi idea di giustizia domestica e indulgente“. Davigo ha quindi sottolineato che sono state cinque le rimozioni e 13 le sospensioni da incarichi e stipendi, tralasciando le sanzioni disciplinari minori. Questo è “un indice di fermezza” perché “l’indipendenza della magistratura implica un comportamento corretto“. Sull’inchiesta di Perugia è intervenuto anche Nino Di Matteo a Palermo: “Il Csm deve finalmente dimostrare con i fatti di voler cambiare pagina, abbandonando per sempre quelle logiche che lo hanno trasformato in un centro di potere“, ha detto Di Matteo. Che ha puntato il dito in particolare contro le “correnti che da ossatura della democrazia sono diventate ambiziose articolazioni di potere“.

“BLOCCO PRESCRIZIONE? A MILANO RICADUTE CONTENUTE” – A Milano è intervenuta anche la presidente della Corte d’Appello di Milano Marina Tavassi che in un passaggio del suo discorso ha invece affrontato il tema dello stop alla prescrizione: “Fra le numerose altre riforme del settore penale, vanno certamente prese in esame le problematiche connesse alla discussa riforma della prescrizione”, ha detto Tavassi, sottolineando però che “i temuti effetti del blocco o della sospensione della prescrizione avranno per la nostra sede giudiziaria una ricaduta contenuta in termini numerici e di possibile dilatazione dei tempi del giudizio”. “I dati statistici dei Tribunali e della Corte – ha proseguito Tavassi – testimoniano che il crescente miglioramento della funzionalità complessiva del sistema determina una costante diminuzione dei casi di prescrizione” che nel distretto giudiziario milanese ammontano al 2,91% del totale, una percentuale “di gran lunga inferiore al dato nazionale che è pari al 24%“. Tavassi ha però aggiunto: “Se la prescrizione rappresenta una patologia del sistema, al tempo stesso l’istituto della cosiddetta sospensione non può essere un rimedio all’irragionevole durata del processo, problema che deve essere risolto per altre vie”.

BONAFEDE: “MAI DETTO CHE PRESCRIZIONE RIDUCE TEMPI” – “Le critiche che oggi mi sono state sollevate in realtà sono argomentazioni che in parte condivido: l’idea che bisogna intervenire sui tempi del processo la condividiamo tutti. Semplicemente ritengo che la riforma del processo penale potrebbe ridurre quei tempi“, ha detto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede in un passaggio del suo intervento in occasione dell’anno giudiziario a Milano. “Non ho mai detto che la prescrizione è un modo per ridurre i tempi – ha aggiunto – ho semplicemente un’impostazione differente e ritengo ingiusto che lo stato arrivi a un punto in cui, dopo aver speso soldi ed energie per portare avanti l’accertamento di alcuni fatti, a un certo punto quel lavoro debba essere gettato nel nulla a causa del tempo. La mia impostazione è che bisognerebbe lavorare sul tempo. Qualsiasi intervento sull’efficienza dei processi, qualsiasi riduzione del tempo dei processi porterà a far sì che la prescrizione diventi un problema marginale“, ha concluso Bonafede.

ARDITA A CATANIA: “INQUALIFICABILE OSTRACISMO CONTRO DAVIGO” – “Abbiamo il dovere della chiarezza, della denuncia, della nettezza delle posizioni, senza il timore di apparire irriverenti se diciamo che la Giustizia non funziona, che il re è nudo. Non si tratta affatto di ricercare soluzioni che conculchino diritti o impongano sanzioni ingiuste, ma solo di garantire un risultato minimo: la fisiologica celebrazione dei giudizi”. Lo ha affermato il componente del Csm Sebastiano Ardita, a Catania, sottolineando che “per questo appare irricevibile ed inqualificabile l’atto di ostracismo che giunge dalla Camera Penale di Milano nei confronti di Piercamillo Davigo ed altrettanto incomprensibili le prese di distanze che arrivano anche dall’interno o gli inviti alla moderazione che sanno di vecchio regime consociativo”. “La giustizia – ha aggiunto – soffre per la presenza di corporazioni e di potentati – non solo esterni ma anche interni alla magistratura – abbiamo bisogno di confronto, di dibattito, di fresco profumo di libertà, non di censure o di messe al bando“.

DI MATTEO A PALERMO – A parlare dello scandalo che ha colpito il Csm, come Davigo a Milano, è stato anche il consigliere togato Nino Di Matteo, durante il suo intervento all’inagurazione dell’anno giudiziario nel palazzo di giustizia di Palermo. “Il Csm deve finalmente dimostrare con i fatti di voler cambiare pagina, abbandonando per sempre quelle logiche che lo hanno trasformato in un centro di potere lontano, quando addirittura non ostile ai magistrati più liberi, indipendenti e coraggiosi“, ha detto Di Matteo. Che ha puntato il dito in particolare contro i “magistrati impegnati in una folle corsa verso incarichi direttivi” e contro le “correnti che da ossatura della democrazia sono diventate ambiziose articolazioni di potere“. Quanto venuto alla luce con l’inchiesta di Perugia, secondo l’ex pm, ha generato “un generale discredito nei confronti della magistratura”, ma “è anche l’occasione per ripartire prima che altri cambino le regole comprimendo valori come quello dell’indipendenza”. Ma per voltare pagina, secondo il magistrato, non bastano nuove norme, ma serve “una svolta etica individuale e di corpo“.

ERMINI A PERUGIA – Si è soffermato sulle “vicende dolorosissime per il Consiglio superiore” della magistratura, venute alla luce nel corso di indagini condotte dalla procura di Perugia, il vice presidente del Csm David Ermini intervenuto all’inaugurazione dell’anno giudiziario proprio dal capoluogo umbro. Per Ermini “durissimo è stato il colpo al prestigio, alla credibilità e alla autorevolezza del Consiglio e dell’intero ordine giudiziario”. “Gravissima – ha sottolineato – la lesione della legittimazione dell’uno e dell’altro agli occhi dei cittadini. Nondimeno, oggi, a distanza di alcuni mesi da quelle drammatiche settimane e guardando al lavoro nel frattempo compiuto, sono lieto di potere affermare che l’istituzione, non solo ha trovato la forza per continuare a svolgere le sue funzioni con assoluta regolarità, ma è riuscita a conseguire risultati importanti“. “Sia – ha concluso Ermini – nel dialogo virtuoso con le altre figure istituzionali sia nella cosiddetta ‘amministrazione della giurisdizione'”.

A ROMA PRESCRITTO UN PROCESSO SU DUE – Nel 2019 nel distretto del Lazio “i processi prescritti sono stati 19.500 su un totale di 125mila, pari al 15%. Di questi 48% in appello (7.743) e 10% al Gip-Gup (7.300), 12% al dibattimento monocratico (4.300), 118 al collegiale (5%). La prescrizione colpisce maggiormente nei processi per cui c’è condanna in primo grado e quindi quasi uno su due a Roma in Appello“. Lo afferma il presidente della Corte d’Appello di Roma, Luciano Panzani, nel corso del suo intervento all’inaugurazione dell’anno giudiziario. “L’elevato numero delle prescrizioni – aggiunge Panzani – è stato determinato dal notevole ritardo nell’arrivo del fascicolo in Corte dopo la proposizione dell’atto di appello, cui si è aggiunto il tempo necessario per l’instaurazione del rapporto processuale, spesso condizionato da vizi di notifica“. Per Panzani “questo però è il risultato del collo di bottiglia a cui si è ridotto l’appello. Il Ministero ha finalmente previsto l’aumento delle piante organiche delle Corti di appello: nove consiglieri in più a Roma e a Napoli. Per Roma significa 2mila sentenze penali in più all’anno. Un progresso, non la soluzione del problema, anche se Roma in pochi anni è passata dalle 10mila sentenze penali all’anno del 2014-2015 alle 16mila del 2019, con un aumento, al netto delle sentenze di prescrizione, di 3mila sentenze penali all’anno”.

La relazione del procuratore generale facente funzioni della Corte d’appello di Roma, Federico De Siervo, ha invece posto l’accento sull’aumento del “numero di iscrizioni per corruzione (da 45 a 71 a noti e da 11 a 10 ignoti), così come è confermato il trend in aumento delle iscrizioni per corruzioni in atti giudiziari che, benché costituito da numeri ridotti, è pari al doppio dell’anno precedente, dove pure si era registrato un consistente aumento (passano a noti da 13 a 25 e a ignoti da 1 a 4)”, afferma De Siervo. Che poi ha anche spiegato come a Roma sia “confermata la presenza di un significativo numero di organizzazioni criminali qualificabili ai sensi dell’art. 416 bis del codice penale, secondo lo schema interpretativo delle piccole mafie, elaborato dalla Corte di Cassazione negli ultimi anni. Quello che negli anni scorsi era apparso come un fenomeno criminale assolutamente innovativo, ma ancora in fase iniziale ha trovato nell’ultimo periodo plurime importanti conferme, sia a livello investigativo che processuale“, ha detto De Siervo.

PROTESTE ANCHE A NAPOLI E ANCONA – Sono entrati in manette contro la riforma della prescrizione i membri dell’Ordine degli Avvocati di Napoli, presieduto da Antonio Tafuri, durante l’inaugurazione dell’Anno giudiziario. Gli avvocati, in toga, sono entrati ammanettati nella Sala dei Baroni, nel Maschio Angioino, dove si svolge la cerimonia, in aperta polemica con la riforma Bonafede. Sit-in con striscione degli avvocati della Camera penale anche ad Ancona. Protestano contro le “gravi carenze del sistema giustizia” che impediscono di “garantire la difesa dei diritti dei cittadini costituzionalmente previsti”.

A VENEZIA: “RISCHIO PROCESSI NEL LIMBO” – La nuova disciplina sulla prescrizione “rischierà di confinare i processi in una sorta di eterno limbo, di violare il dettato costituzionale che ne impone invece la ragionevole durata, di far ricadere sul cittadino, (imputato, o vittima) le conseguenze dell’inefficienza della giustizia, e sullo Stato la relativa responsabilità risarcitoria”. È la posizione espressa dalla presidente della Corte d’Appello di Venezia, Ines Maria Luisa Marini, nella relazione all’apertura dell’Anno giudiziario per il distretto veneto. La legge, ha precisato Marini “è apprezzabile perché è finalizzata a ‘salvaguardare‘ l’attività svolta dall’intera ‘filiera e a scoraggiare strategie dilatorie. Dovrà però essere contestualmente accompagnata dall’aumento delle ‘forze lavoro‘ (di magistrati e di personale amministrativo), dalla riforma delle procedure e da una intensa depenalizzazione. Diversamente avrà effetti dirompenti su gran parte degli Uffici Giudiziari, e tra essi, sulla Corte di Venezia, perché l’impossibilità di continuare a beneficiare di migliaia di definizioni de plano per prescrizione causerà l’aumento esponenziale delle pendenze, rendendole ingestibili”, ha concluso Marini.

A TORINO: “MIGLIORARE RAPPORTO MEDIA-GIUSTIZIA” – Si è aperto con una critica al mondo dell’informazione l’intervento di Edoardo Barelli Innocenti, presidente della Corte di Appello di Torino, facendo riferimento a due vicende. La prima è l’omicidio di Stefano Leo, il giovane torinese ucciso con una coltellata alla gola sul lungo Po da un 27enne già condannato con una sentenza che in un primo momento era stata considerata irrevocabile. Le cronache su quanto accaduto hanno “messo in evidenza ancora una volta – ha detto – quello che a mio parere è uno dei problemi della società contemporanea italiana: il rapporto tra giustizia e informazione. Troppo spesso si dà credito a voce di corridoio, vere o presunte che siano, e si grida allo scandalo prima ancora di sapere come sono avvenuti realmente i fatti, il cui concreto svolgimento deve essere approfondito nelle sedi competenti”. Un problema che secondo Barelli Innocenti emerge anche dai resoconti sulla vicenda delle nomine al Csm della scorsa primavera: “non si possono accomunare i colloqui e gli eventuali accordi di alcuni componenti del Csm con un inquinamento generale del funzionamento di una importante istituzione di garanzia quale è il Consiglio Superiore della Magistratura, istituzione che ha retto l’onda mediatica proprio grazie al comportamento e all’operato della maggioranza dei suoi componenti e in particolare del Presidente della Repubblica e del vicepresidente Ermini, ai quali deve andare il nostro riconoscimento per aver mantenuto salda la direzione”. Secondo il magistrato “serve più sobrietà e più professionalità nella racconto dell’attività giudiziaria”.