giovedì 14 maggio 2020

Mafia, il capo dell’Anticrimine: “Fu Baiardo e dirci dei rapporti tra i Graviano e Dell’Utri. Informammo i pm nel ’97, nessuno si mosse”. - Lucio Musolino


 Mafia, il capo dell’Anticrimine: “Fu Baiardo e dirci dei rapporti tra i Graviano e Dell’Utri. Informammo i pm nel ’97, nessuno si mosse”

I rapporti con i Graviano - Al processo ’ndrangheta stragista il capo dell’Anticrimine Messina spiega: “Non ci fecero indagare”.
“C’era un rapporto tra il signor Marcello Dell’Utri e i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano che, tramite lui, erano interessati al finanziamento del nascente movimento politico Forza Italia perché erano convinti che questo li avrebbe garantiti e avrebbe garantito i loro interessi”. Il contenuto delle confidenze di Salvatore Baiardo lo riferisce in aula, ieri a Reggio Calabria, il capo della Direzione centrale anticrimine della polizia, Francesco Messina. È stato lui, assieme all’allora dirigente della Direzione investigativa antimafia di Firenze, Nicola Zito, a redigere il 4 novembre 1996 l’informativa sul colloquio avuto con Salvatore Baiardo, uno dei principali fiancheggiatori del boss di Brancaccio oggi imputato nel processo ’ndrangheta stragista.
A due anni dalla fondazione di Forza Italia e pochi mesi dopo la caduta del primo governo Berlusconi, le rivelazioni di Baiardo avrebbero provocato un terremoto non solo all’interno di Cosa Nostra ma anche nella politica italiana. Quella nota finì sulla scrivania del procuratore di Firenze Pier Luigi Vigna. E poi? Alla domanda del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, Messina risponde senza tentennamenti: “Noi non abbiamo ricevuto delega come Dia. Almeno fino a quando ci sono stato io a Firenze e fino a quando era operativo il gruppo Stragi”.
In quell’informativa non c’è il nome di Salvatore Baiardo: “All’epoca – spiega Messina – non voleva comparire e fu utilizzato il termine ‘persona indagata nel procedimento penale 3309/93 (il processo sulle stragi, ndr) e per la quale pende richiesta di archiviazione a Firenze’”.
In sostanza, quelle informazioni “non furono sviluppate” dalla Procura che “diede atto del fatto che si trattava di un soggetto che non intendeva apparire”. Nel corso della deposizione, il capo dell’Anticrimine più volte definisce “ondivago” l’atteggiamento di Salvatore Baiardo, di fatto un potenziale pentito che, a metà degli anni Novanta, prima dei colloqui investigativi con la Dia era stato sentito a sommarie informazioni anche dai carabinieri di Palermo. “Fu convocato dai dottori Patronaggio e Caselli, ma si rifiutò di parlare”. “Io l’ho visto due volte – ricostruisce Messina –. Ci furono dei contatti preliminari finalizzati a capire se lui avesse intenzione di fare questo passo. Ci fu un tentativo di interrogatorio. Fu convocato ma all’atto dell’apertura del verbale disse che non aveva niente da dire. Nelle fasi in cui sembrava orientato a dare un contributo, ascoltammo questo signore per capire che spazio c’era e lui rappresentò genericamente di essere in possesso di informazioni che potevano essere strategiche per ricostruire tutto il periodo della latitanza dei Graviano e fornirci delle indicazioni che potevano essere utili”.
Al centro dell’informativa della Dia ci sono proprio quei colloqui investigativi: “Accennò – aggiunge il capo dell’Anticrimine – all’esistenza di un rapporto tra i fratelli Graviano e alcuni soggetti in particolar modo milanesi. Parlò di un tale Rapisarda, di origine siciliana, con cui c’erano degli interessi economici. E poi accennò anche a un rapporto tra il signor Marcello Dell’Utri e i fratelli Graviano e in particolare con Filippo, ritenuto la mente finanziaria dei Graviano”.
Agli investigatori della Dia, il fiancheggiatore Baiardo raccontò un episodio avvenuto a casa sua tra il 1991 e il 1992: “Ci disse – ricostruisce Francesco Messina – di avere assistito a due conversazioni telefoniche tra Filippo Graviano e Marcello Dell’Utri. Conversazioni da cui emergeva che i due avevano in comune interessi economici”.
“Baiardo – continua Messina – disse di avere avuto informazioni particolari in merito alla natura dei rapporti che legavano Dell’Utri ai fratelli Graviano. Aveva capito che in questo contesto era coinvolto tale Fulvio Lima di Palermo, a suo dire parente del noto onorevole Salvo Lima (ucciso dalla mafia nel 1992, ndr)”. Sempre nella stessa informativa, il direttore dell’Anticrimine aveva appuntato che “Baiardo disse di avere accompagnato fisicamente, tra il 1992 e il 1993, i fratelli Graviano al ristorante ‘L’Assassino’ di Milano dove i due si sono incontrati con Dell’Utri” anche se lui non l’ha visto.
Il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo insiste, riprova a chiedere che fine abbia fatto quell’indagine. Al termine dell’udienza, Messina ribadisce: “Fino alla mia permanenza nel gruppo investigativo della Dia non ho mai avuto deleghe”. E ritorna attuale la frase detta a mezza bocca da Baiardo in un’intervista fatta da Peter Gomez e Marco Lillo e pubblicata dal Fatto nel giugno del 2012: “Di queste cose non voglio parlare adesso. C’è già la Dia di Firenze che mi martella, l’ultima volta son venuti tre mesi fa”.

Milano, uno tsunami di denaro sporco: oltre un miliardo di euro di operazioni sospette in sei anni. - Davide Milosa


Milano, uno tsunami di denaro sporco: oltre un miliardo di euro di operazioni sospette in sei anni
Una cifra mai vista e mai denunciata prima che comprende riciclaggio mafioso, finanziamento al terrorismo, evasione e corruzione. In tempi di Covid molto passa in secondo piano, non questi movimenti di denaro che rappresentano oggi un vero alert che dovrà essere tenuto in grande considerazione dalla Procura.
Uno tsunami di denaro sporco. Oltre un miliardo di euro in sei anni. A tanto ammonta il tesoretto complessivo delle operazioni sospette sulla piazza di Milano. Una cifra mai vista e mai denunciata prima che comprende riciclaggio mafioso, finanziamento al terrorismo, evasione e corruzione. In tempi di Covid molto passa in secondo piano, non questi movimenti di denaro che rappresentano oggi un vero alert che dovrà essere tenuto in grande considerazione dalla Procura.
La cifra di 1,1 miliardi di euro è prodotta da 23 operazioni complessive che l’unità antiriciclaggio del comune di Milano in stretta collaborazione con la Commissione antimafia ha segnalato all’Unità di informazioni finanziaria presso la Banca d’Italia. Il tutto compreso tra il 31 marzo 2014 e il 20 aprile scorso. Nelle decine di atti accumulati in questo periodo e trasferiti sul tavolo dell’antiriciclaggio nazionale ci sono diverse storie che illustrano i tanti settori economici a rischio. Dalla ristorazione ai parcheggi, dalle società sportive fino al settore alberghiero. A scorrere i numeri si resta impressionati.
Il lavoro ha riguardato l’analisi di 4.795 operazioni economiche che hanno coinvolto in modo diretto e non 1.256 società e 2.427 persone. Da questo screening iniziale si è arrivati a iscrivere 23 dossier complessivi. Ognuna di queste segnalazioni si porta dietro una serie di dati che messi insieme danno da soli l’idea del fenomeno a Milano. A monte delle 23 segnalazioni alla Uif, infatti, ci sono ben 303 operazioni economiche per un totale complessivo di 144 milioni di euro. Non è finita, perché dietro a queste operazioni la movimentazione totale di capitale supera il miliardo di euro. E se i numeri sono numeri, c’è ben poco da stare tranquilli.
Nascoste dietro le 23 operazioni segnalate e che hanno prodotto l’apertura di altrettanti fascicoli da parte della Uif, ci sono 473 movimentazioni di valuta, in contanti e non. Le società coinvolte risultano ben 234. L’elenco comprende attività economiche diverse tra loro. In testa alla classifica ci sono le immobiliari con 50 società segnalate, 39 i ristoranti, 27 bar, 11 autorimesse. Non solo, ci sono anche 7 organizzazioni socio-religiose, 9 enti pubblici territoriali, 4 studi medici, 2 istituti di credito e addirittura una sala da ballo. Mentre gli atti di registro estrapolati sono stati 4194 e 210 le persone fisiche coinvolte. Insomma un quadro inedito che illustra prima di tutto una cosa: il flusso dei soldi è quasi sempre a “ciclo chiuso” con il denaro che movimentato in modo fittizio torna sempre al punto d’origine, comportando perdite apparenti di circa il 20% del valore iniziale.
Uno schema di riciclaggio quasi elementare. Che diventa ancora più chiaro osservando i protagonisti di queste operazioni sospette. Su 210 individuati ben oltre la metà, 162, sono italiani. Di questi quasi il 50% (67) provengono da aree geografiche ad alta infiltrazione mafiose. Dodici i comuni individuati tra Calabria, Sicilia e Campania. Il denaro, dunque, nasce al sud ma poi viene riciclato a Milano. E del resto un recente report della Banca d’Italia segnala come solo il 23% degli affari della ‘ndrangheta provengono dalla Calabria, il restante 77% si forma fuori dai confini regionali e anche nazionali. Non a caso il dottor Francesco Messina a capo della Direzione centrale anticrimine (Dac) spiega: “Oggi ci troviamo di fronte a un deriva mercatista della ‘ndrangheta ed è su questo aspetto che noi dobbiamo concentrarci, l’azione di contrasto va modulata non più solo con riferimento all’apparato militare dei clan”.
I risultati dell’unità antiriciclaggio del comune di Milano sono certamente in linea con l’ultimo report della Direzione investigativa antimafia. Qui, si legge, nel primo semestre del 2019 in Lombardia le operazioni sospette di diretta attinenza con il crimine organizzato sono state ben 2.158 collegate a 9.925 reati spia.
Non c’è però solo il rischio di infiltrazioni mafiose. Di grande interesse sono anche i risultati che riguardano il finanziamento al terrorismo. Ora dei 210 soggetti fisici segnalati, 48 sono cittadini stranieri. Di questi ben 38 provengono da paesi considerati ad alto rischio per il finanziamento al terrorismo islamico. Due sono originari di stati inseriti nella black list internazionale. Il nome di una di queste persone è finita sul tavolo della procura di Milano che ha avviato un’indagine per finanziamento al terrorismo. Al centro del fascicolo vi è una singola operazione sospetta messa in piede per aggirare le norme dell’Unione europea in tema di contrasto al finanziamento di programmi di proliferazione delle armi di distruzione di massa.
La mole di lavoro in questi anni è stata enorme e ha riguardato operazioni già avvenute e i cui indizi sono stati raccolti prima di tutto dal territorio e dall’analisi delle attività economiche. Diversi gli alert messi in campo dall’unità antiriciclaggio di palazzo Marino. Tra gli ultimi e più nuovi quello del cosiddetto “titolare effettivo” di una società o di un fondo immobiliare, la cui identificazione è spesso un campanello d’allarme per una operazione di riciclaggio. Tra i sorvegliati speciali ci sono anche le società che controllano le squadre di calcio di Inter e Milan. Come spiega Davide Gentili presidente della Commissione antimafia di Milano: “La richiesta era precisa: una chiara e trasparente rappresentazione dei titolari effettivi delle società contraenti la concessione comunale. Era il nono punto dei sedici presenti nell’ordine del giorno che il Consiglio Comunale ha votato il 28 ottobre 2019, sul nuovo stadio e la riqualificazione dell’area circostante. Nel gennaio 2020 l’obbligatorietà di richiedere i titolari effettivi a chiunque sottoscriva un contratto con il Comune di Milano è stata poi inserita nel Piano anticorruzione.
La risposta, così come riportata nelle slides recapitate al Comune appare altrettanto chiara: le società che detengono Milan e Inter non hanno assolutamente intenzione, per il momento, di dichiarare chi siano le persone fisiche che controllano o detengono le società”. Non c’è solo questo. Soprattutto oggi in tempi di Covid, di crisi economica e di appetiti mafiosi. Spiega sempre Gentili riferendosi ai risultati ottenuti dall’unità antiriciclaggio del comune “Ho chiesto agli uffici di controllare, in particolare in questo periodo, i cambi degli assetti societari nelle aziende che investono nella ristorazione, nell’alberghiero e quelle che hanno in gestione appalti importanti con il Comune di Milano. La liquidità di evasori e mafiosi fa gola a molti”.

SUL “DISTANZIAMENTO SOCIALE”. - ANDREA ZHOK



Piccola nota per i disattenti.
Il “distanziamento sociale” non è nato due mesi fa, con il lockdown.
Nel “distanziamento sociale” ci abbiamo sguazzato tutti da almeno mezzo secolo.
Il “distanziamento sociale” è quella cosa per cui abbiamo vissuto gran parte della vita in perfetta solitudine in mezzo a folle anonime, ammassati come bestiame sui mezzi di trasporti, senza sapere chi abitava sul pianerottolo di fronte.
Il “distanziamento sociale” è quello che ha messo in mano ai vostri figli degli schermi di varie dimensioni con cui rincoglionirsi in solitudine passando compulsivamente da un meme a un filmatino e ritorno.
Il “distanziamento sociale” è da tempo quella cosa per cui ciascuno viene spinto a vedere in chi fa il suo stesso lavoro un concorrente, un competitore, un potenziale avversario cui magari stringere la mano (ah, il contatto umano), ma pensando solo a come fregarlo o come non farsi fregare.
Smettete di lamentarvi dell’odierno “distanziamento sociale ” come se fino a ieri aveste abitato nella Repubblica platonica o nella comunità di Utopia, scambiandovi abbracci ed effusioni, comunicazioni col cuore in mano e approfondimenti esistenziali col prossimo.
Quello che viene richiesto oggi, come una cautela protempore, non è “distanziamento sociale”; è l’incremento del “distanziamento fisico” di un’ottantina di centimetri rispetto allo standard usuale.
Smettetela di giocare ai piccoli sociologi, come se qui si giocasse il destino della vostra umanità.
Che il “distanziamento sociale”, quello vero, abbia già fatto strame da tempo della vostra umanità lo si capisce benissimo guardando a tutti quelli che fanno i magnifici mostrandosi disposti a sacrificare serenamente la pelle altrui (perché tanto sono vecchi, o malati, o sfigati, o chemmenefrega a me, basta che non sono io).

Occhio ai forchettoni. - Marco Travaglio

Amministrative: tanti i candidati prestanome delle lobby del ...

Non avrei firmato, se me l’avessero chiesto, l’appello raccolto dal manifesto fra molti intellettuali di sinistra, fra cui diversi amici e collaboratori del Fatto, contro gli agguati a Conte e al suo governo. Intanto perché non sono un intellettuale, poi perché non vengo da sinistra (anche se spesso mi ci ritrovo) e soprattutto perché conosco bene i meccanismi della disinformazione, fatti apposta per trasformare ogni cosa nel suo contrario e dunque – come puntualmente avvenuto – nel gabellare quell’iniziativa in una minaccia “di regime” contro il sacrosanto diritto di critica al premier e al governo in carica. Ciò premesso, chi legge l’appello si rende conto che coglie nel segno. Anzitutto perché sottolinea quello che anche noi notiamo da mesi: a memoria d’uomo non s’è mai visto un governo tanto osteggiato dall’establishment mediatico-finanziario-lobbistico.
Nella Prima Repubblica i giornali, la Rai e poi anche la Fininvest erano governativi per definizione (salvo gli organi di partito di destra e di sinistra e, dagli anni 70, i tre nuovi quotidiani di opinione, il manifesto, il Giornale e la Repubblica, che riflettevano le libere convinzioni dei fondatori, Rossanda&Parlato, Montanelli e Scalfari). Nella Seconda Repubblica, i governi B. raccoglievano applausi dai giornali di destra e confindustriali, e fischi da quelli di centrosinistra; e i governi di centrosinistra viceversa, con l’eccezione di quelli confindustriali che restavano sostanzialmente governativi. Poi, nel 2011, iniziò la breve (per fortuna) èra delle larghe intese: Monti aveva tutti i poteri, tutta la stampa e tutte le tv ai suoi piedi (a parte il Fatto e poche eccezioni), idem Enrico Letta e il suo santo patrono Napolitano, idem Renzi, almeno fino alla rottura del Nazareno (l’elezione di Mattarella al Colle nel gennaio 2016, non concordata con B.). Il Salvimaio, appena nato, raccolse l’ostilità preconcetta di quasi tutta la stampa e dei poteri retrostanti, che fingevano di avercela con i due partiti “populisti”, mentre in realtà tremavano solo per il M5S. Tant’è che, non appena Conte, Di Maio&C. iniziarono a minacciare le mangiatoie dei soliti noti (concessioni autostradali, Tav, prescrizione e impunità per corrotti ed evasori), l’establishment e i suoi fogli d’ordini puntarono tutto su Salvini, nuovo santo patrono del Sistema. Infatti tutti, persino Repubblica, dopo la crisi del Papeete spingevano per le elezioni subito, che ci avrebbero restituito il finto bipolarismo di prima: finta destra contro finta sinistra, con le rispettive penne alla bava al seguito, e quegli outsider di Conte e dei 5Stelle a casa.
Tanto la roulette del bipolarismo all’italiana è sempre truccata: che esca il rosso o il nero, vince sempre il banco. Per fortuna nostra e sventura di lorsignori, il piano fallì: e, col governo Conte-2 si saldò con sette anni di ritardo quel connubio fra un centrosinistra seminuovo e un M5S semiresponsabile che era già possibile nel 2013, quando Grillo offrì al Pd di eleggere Rodotà al Quirinale e subito dopo di governare insieme. Ma invano, per l’inesperienza e l’arroganza dei 5Stelle e la miopia e le compromissioni di quel Pd, ancora ostaggio di Re Giorgio, che infatti si fece rieleggere per benedire l’inciucio con B.. E col Partito Trasversale degli Affari: lo stesso che l’anno scorso, in mancanza di meglio, si era consegnato mani e piedi a Salvini. E che ora, col governo Conte-2, incentrato sulla figura del premier e condizionato dal M5S e dall’ala meno affaristica del Pd, non riesce più a toccare palla.
Il secondo pregio dell’appello degli intellettuali è proprio questo: aver colto il vero motivo dell’ostilità preconcetta e irriducibile di tutto l’establishment a
Conte e al suo governo. Che non sono odiati per i loro errori, ritardi, pasticci, litigi. Ma per i loro meriti: cioè per aver tenuto finora lontane le lobby che hanno sempre spadroneggiato con tutti i governi e ora impazziscono per l’astinenza. Perché l’Innominabile, cioè il leader meno stimato dagli italiani, viene intervistato da giornaloni e tv con frequenza e spazi inversamente proporzionali ai consensi? Perché è l’unico, nella maggioranza, che asseconda le lobby. E perché tutti i giornaloni (ora anche Repubblica, dopo la brutale presa del potere degli Agnelli) tirano la volata al governissimo di Draghi o di chi per esso? Perché, come al circo, più gente entra più bestie si vedono, e Confindustria, Confquesto e Confquello vogliono tornare a comandare tramite i loro burattini. La pressione aumenta a mano a mano che svanisce il ricordo dei morti da Covid-19 e si avvicina l’arrivo dei soldi pubblici, italiani ed europei, roba da centinaia di miliardi, o anche solo da decine (forza Mes!). Il presidente di Confindustria Bonomi, uno dei responsabili della mancata chiusura della Val Seriana (record europeo dei caduti), l’ha detto brutalmente: i soldi li vogliamo tutti noi, basta aiuti a pioggia (peggio che mai ai bisognosi). Questa è la partita che si sta giocando: vecchi e nuovi forchettoni (pensate ai giochetti delle lobby farmaceutiche sulle mascherine) marciano sulla punta non delle baionette, ma dei giornaloni per risedersi al tavolo. Anzi a tavola. E spartirsi la torta. Diceva Totò: “C’è a chi piace e a chi non piace”. A noi non piace.