Uno dei rari vantaggi del governo Draghi è che ha fatto sparire l’Innominabile, quello che racconta di aver vinto lui perché è arrivato Draghi. Ormai fa notizia soltanto per le sue imprese extracomunitarie, dall’Arabia Saudita all’Africa nera, da Dubai al Bahrein, dov’è ancora una discreta attrazione circense, mentre in Europa ormai lo conoscono. L’altro giorno però, non sapendo più chi incontrare e avendo 40 minuti liberi (aveva visto perfino Calenda e la Bonino), Letta gli ha concesso udienza in nome della vecchia amicizia. Dev’essere stato un bel momento. Pare che il segretario Pd camminasse rasente muri, per non offrire le spalle all’ospite e stare più sereno. Alla fine si è saputo che i due sono d’accordo su molte cose (i rispettivi nomi e cognomi, la bella giornata primaverile, la temperatura decisamente alta per la stagione), fuorché su un dettaglio: l’alleanza con i 5Stelle di Conte. Sul punto, Letta la pensa come Zingaretti: senza M5S e Conte, il Pd viene doppiato dalle destre. Ma Letta piace alla gente che piace, dunque la sua continuità col predecessore viene applaudita da chi fischiava Zinga e spacciata dai media per “discontinuità”, “cambio di passo”, “svolta”, “rivoluzione”. Non solo: Zinga, come il M5S, voleva il proporzionale, per correre separati e poi governare insieme. Letta vuole il maggioritario, che imporrà a M5S e Pd candidati comuni in ogni collegio: un patto di sangue, un’alleanza strategica.
Ora i giornaloni non si danno pace che, fra Conte e Demolition Man, Letta sembri prediligere il primo (in effetti è bizzarro che, fra il politico più popolare e il più impopolare, non si butti sul secondo). E dall’altro continuano a trattare i 5Stelle come gli esploratori bianchi del ’700-’800 vedevano gli ottentotti, i watussi, i pigmei, gli zulu. Su Rep il nostro adorato Folli si strugge per “l’ostacolo Raggi tra Pd e M5S” e le “insidie di un’intesa con il mondo grillino”, cioè per quella curiosa tribù di selvaggi da adescare con perline colorate, nella speranza prima o poi di civilizzarla. Nell’attesa, l’alleanza funziona così: il Pd mette i candidati e il M5S mette i voti. E, “per dimostrare la sua leadership”, “Conte deve dire alla Raggi che è ora di farsi da parte”. La cosa ovviamente non vale per Milano, dove Sala piace alla gente che piace, quindi può candidarsi contro il M5S, mentre la Raggi è una selvaggia, quindi non può correre contro il Pd: “Un ritorno della Raggi in Campidoglio sarebbe un enorme danno per Letta e di conseguenza per Conte”. Di lasciar decidere gli elettori romani non se ne parla. Dunque chi deve dire alla candidata M5S di levarsi dai piedi? Conte, il leader M5S. Poi, se fa il bravo, qualche perlina colorata la danno anche a lui.
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