sabato 10 luglio 2021

Alla scoperta del labirintico (e abbandonato) "Seminario": l'ipogeo più grande di tutta Bari. - Federica Calabrese e Giancarlo Liuzzi - foto Antonio Caradonna

 

BARI – Con i suoi 1500 metri quadri di superficie rappresenta il più grande tra gli insediamenti sotterranei presenti nelle campagne baresi. Parliamo dell’ipogeo del Seminario, un vero e proprio mondo nascosto che con il suo susseguirsi di archi, corridoi e ambienti concatenati forma un intricato labirinto posto a pochi passi dalla zona commerciale di Santa Caterina(Vedi foto galleria)

Un sito per nulla valorizzato e di fatto abbandonato a se stesso, nonostante la sua millenaria storia: venne infatti creato nel V secolo e poi ampliato tra il VII e l’VIII secolo. Fu concepito come laboratorio produttivo agricolo per un vasto monastero che comprendeva altri ipogei come il Santa Caterina e il Milella, posti a poche centinaia di metri da qui. Un complesso che prendeva il nome di Casale rupestre del Vulpiclano.

Per raggiungere il luogo ci lasciamo alle spalle il centro commerciale di Santa Caterina e, superando il cavalcavia che sovrasta la statale 16, proseguiamo per 400 metri fino all’incrocio con strada Caratore del Carmine. Alla fine di quest’ultima si staglia la grigia facciata della settecentesca Masseria del Seminario, di proprietà ecclesiastica che dà il suo “religioso” nome anche all’ipogeo.Notizia pubblicata sul portale barinedita.it e di sua proprietà.

Costeggiamo alla nostra destra l’edificio per addentrarci su un sentiero di campagna delimitato da muretti a secco. Attraverso un varco ci facciamo strada tra gli alberi di ulivo fino a un avvallamento nel terreno colmato da folta vegetazione: siamo di fronte all’ingresso del sito sotterraneo. Una scaletta in pietra ci permette di scendere per cinque metri lungo la parete rocciosa e raggiungere un ampio atrio rettangolare: l’anticamera dell’intera struttura.Notizia pubblicata sul portale barinedita.it e di sua proprietà.

Subito di fronte a noi si apre una piccola “stanza”: sui muri tufacei notiamo verdi segni di umidità, massi e detriti, risultato dei crolli delle arcate superiori. Sulla nostra sinistra scorgiamo invece un passaggio che ci permette di introdurci nella prima vera cavità del complesso, avvolta dall’oscurità.Notizia pubblicata sul portale barinedita.it e di sua proprietà.

Ci rendiamo conto della sua estensione soltanto dopo aver illuminato tutto l’antro con dei faretti. Scopriamo così un ampio locale, chiuso sul soffitto da una copertura a volta, invaso quasi interamente da un alto cumulo di terriccio e pietre che ne ostruisce altri accessi. Tra le macerie notiamo anche alcune ossa di animali di cui non è possibile capire la provenienza. Notizia pubblicata sul portale barinedita.it e di sua proprietà.

Siamo in quello che era un tempo il laboratorio centrale del casale rupestre, fulcro delle attività produttive dei monaci. Su di esso si affacciano altri piccoli vani ciechi segnati da archi scavati nella roccia che poggiano su mezzi pilastri quadrangolari. Spostandoci sulla sinistra seguiamo l’andamento semicircolare della stanza con le sue tre piccole feritoie di areazione.Notizia pubblicata sul portale barinedita.it e di sua proprietà.

Proseguiamo il nostro viaggio tra cupe cavità e ci ritroviamo in un vasto spazio contraddistinto dalla presenza di un’antica macina utilizzata per pressare cereali e olive e di alcuni affossamenti artificiali: antiche vasche per l’approvvigionamento dell’acqua.Notizia pubblicata sul portale barinedita.it e di sua proprietà.

Da qui si dirama un lungo corridoio, chiuso da un tompagno, che probabilmente collegava questo complesso agli altri siti sotterranei vicini. Il tunnel ci conduce, dopo qualche metro, l'angolo più suggestivo di tutto l’ipogeo. La fioca luce che trapela da un’apertura ci permette di ammirare uno spesso pilastro centrale e le arcate superiori che sorreggono l’intera struttura. Dalle crepe aperte nella muratura rossastra pendono centinaia di piccole radici che “decorano” il luogo a mo’ di fitte tende.Notizia pubblicata sul portale barinedita.it e di sua proprietà.

Qui gli spazi si fanno sempre più angusti e tetri data la mancanza totale di luce derivante dall’esterno. Proseguiamo per una decina di metri, quasi perdendoci tra i vari ambienti concatenati tra loro, sino a incrociare un piccolo varco in un muro crollato che superiamo con difficoltà.Notizia pubblicata sul portale barinedita.it e di sua proprietà.

Una cascata di macerie e terra che scende da un’apertura nel soffitto invadendo l’intero antro, ci costringe a camminare carponi per oltrepassarla, arrivando così nella parte più nascosta di tutto il complesso. 

Di fronte a noi si aprono diversi locali e stanze cieche, molte delle quali murate e invase da ragnatele sulle pareti. Per terra troviamo vecchie bottiglie e pezzi di vasellame ceramico gettati negli anni dalla fessura circolare presente sul soffitto semiocclusa dalla vegetazione.Notizia pubblicata sul portale barinedita.it e di sua proprietà.

Ritorniamo sui nostri passi e ci poniamo su un ultimo corridoio di cui a stento riusciamo a intravedere la fine. Lo percorriamo per circa venti metri fino a renderci conto che risulta interamente murato: anche questo doveva servire un tempo da raccordo con le altre cavità ipogeiche presenti in zona.Notizia pubblicata sul portale barinedita.it e di sua proprietà.

Non potendo proseguire riemergiamo nell’avvallamento da dove era iniziato il nostro viaggio e raggiungiamo esternamente un secondo accesso posto a cinquanta metri dal principale. Quest’ultimo è inaugurato da un dromos: un corridoio a cielo aperto che, scendendo nel terreno, conduce a una serie di ambienti in passato probabilmente destinati a uso religioso.Notizia pubblicata sul portale barinedita.it e di sua proprietà.

Una ventina di anni fa alcuni privati ne avevano progettato una rifunzionalizzazione come locale notturno sotterraneo, snaturando interamente la sacralità del luogo. Lo stesso ingresso si presenta infatti trasformato da lavori edilizi tra l’altro non conclusisi e risulta in più non più utilizzabile a causa della vegetazione incolta che ne blocca la discesa.Notizia pubblicata sul portale barinedita.it e di sua proprietà.

Una situazione quindi di completo abbandono: la stessa che accomuna la totalità dei numerosi ipogei che costellano da secoli e secoli l’agro barese.

















bariinedita.it

La “nuova” prescrizione allungherà i processi. - Gian Carlo Caselli

 

L’emendamento sulla prescrizione approvato (senza votare) nel Cdm dell’8 luglio ricorda il meccanismo che porta a definire “escort” chi, accompagnando un cliente, è disponibile a rapporti sessuali (Treccani). La parola è più soft di altre, ma la sostanza è la stessa: un po’ come l’emendamento, che a prescrizione aggiunge improcedibilità, termine meno… impegnativo. Ma torniamo alla sostanza.

La prescrizione c’è dappertutto, ma nel nostro Paese con alcune differenze notevoli. Primo: da noi decorre da quando è stato commesso il reato e non – come altrove – dal giorno in cui il presunto colpevole è stato individuato o dal primo atto di accusa. Un notevole vantaggio per l’indagato. Secondo: il nostro sistema, disgraziatamente basato su un processo lunghissimo, ogni anno causa centinaia di migliaia di prescrizioni. Per cui, mentre altrove la prescrizione è circoscritta a pochi casi limite, da noi è una voragine gigantesca che inghiotte senza ritorno un’enormità di processi. Tant’è che la percentuale italiana di prescrizioni è del 10/11%, contro quella dello 0,1/0,2% degli altri Paesi europei. Terzo: negli altri ordinamenti, il decorso della prescrizione si interrompe definitivamente o nel momento del rinvio a giudizio o con la condanna in primo grado; invece in Italia, da sempre e per un lunghissimo tempo, non c’è mai stato un blocco definitivo, ma solo sospensioni temporanee, con una prescrizione di fatto “infinita”.

Si cambia registro – allineandosi agli altri Paesi – il 1° gennaio 2020: una nuova norma interrompe la prescrizione con la sentenza di primo grado. Neanche il tempo di festeggiare il Capodanno, ed ecco scatenarsi una bagarre con formule (sarà una bomba atomica!) note solo ai giuristi più raffinati. Peccato che nessuno sia in grado di stabilire con un minimo di affidabilità quali saranno davvero gli effetti della riforma del 2020 (comunemente definita “Bonafede”, il ministro che ha il merito di averla voluta). Prova ne sia che nella relazione del 24.5.21 di Giorgio Lattanzi, presidente della Commissione istituita dalla nuova ministra, Marta Cartabia, per elaborare proposte innovative sul processo penale, a pagina 51 si legge testualmente che tali effetti “si produrranno a partire dal 1° gennaio 2025 per le contravvenzioni e dal 1° giugno 2027 per i delitti”, per cui “dal punto di vista tecnico non vi sono ragioni che rendono urgente anticipare (una nuova) riforma della prescrizione”, lasciando peraltro “impregiudicata ogni valutazione politica”. Dunque, che fretta c’era di intervenire? Sul piano tecnico nessuna, se non privilegiando il piano politico con un occhio di riguardo a coloro che han sempre visto nella prescrizione (e nelle leggi ad personam) la soluzione più comoda ai loro problemi giudiziari. E basta sfogliare le cronache di questi anni per “scoprire” di chi si tratta.

Sta di fatto che nel Cdm dell’8 luglio, da un lato si conferma che la prescrizione si interrompe con la sentenza di primo grado, ma nel contempo dopo l’interruzione si introduce… una sospensione, nel senso che se non si arriva alla sentenza d’Appello entro due anni e a quella di Cassazione entro un anno dall’Appello, tutto finisce in niente, dovendosi dichiarare la non procedibilità del reato. Il che significa che i colpevoli restano impuniti e all’innocente viene negata l’assoluzione. In pratica, se non è zuppa (prescrizione) è pan bagnato (improcedibilità).

Dunque, un ritorno al passato che ricicla la convenienza ad allungare il brodo finché prescrizione+improcedibilità non intervengano inghiottendo ogni cosa. Con la conseguenza, ancor più grave, di perpetuare una anomalia del nostro sistema: la coesistenza di due codici distinti. Uno per i “galantuomini” (che in base al censo o alla collocazione politico-sociale sono considerati “perbene” a prescindere); l’altro per i cittadini “comuni”. I primi possono permettersi difensori costosi e agguerriti, in grado di utilizzare ogni spazio per eccezioni dilatorie. Per loro, il processo può ridursi all’attesa che il tempo si sostituisca al giudice con la prescrizione o improcedibilità che tutto cancella. Mentre per gli altri il processo – per quanto di durata biblica – riesce più spesso a concludersi, segnando in profondo vite e interessi. Un’intollerabile asimmetria incostituzionale, fonte di disuguaglianze, che nega elementari principi di equità. Dovuta al fatto che proprio il binomio prescrizione+improcedibilità può contribuire fortemente a far durare all’inverosimile certi processi. E ciò proprio grazie a un emendamento che vorrebbe essere garantista!

ILFQ

Prescrizione, l’intervento di Davigo: “Un’amnistia di fatto che non riduce il carico sui tribunali”. - Piercamillo Davigo

 

Il termine di due anni (salve eccezioni) per la fase di appello, dopo i quali scatta l’improcedibilità, significa far prescrivere (o meglio dichiarare improcedibili, ma l’effetto è lo stesso) quasi tutti i processi in cui sia proposto appello. Infatti, poiché i nuovi processi che arriveranno in appello andranno in coda a quelli pendenti (salvo quelli con imputati detenuti), per quasi tutti scatterà l’improcedibilità. Sostanzialmente si avranno gli effetti di un’amnistia senza neppure i benefici che le amnistie avevano di eliminare i processi.

In un precedente articolo (pubblicato sul Fatto Quotidiano del 10 giugno 2021 con il titolo “La perversione della prescrizione”) citavo la relazione della Commissione ministeriale di studio per elaborare proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale che affermava: “La Commissione muove dalla premessa che lentezza del processo e prescrizione del reato sono due problemi diversi, che si alimentano reciprocamente. Processi lenti favoriscono la prescrizione; la prospettiva della prescrizione favorisce processi lenti”. La stessa Commissione rilevava che, a oggi, l’arretrato delle Corti d’appello è pari al doppio dei processi definiti ogni anno, sicché tali Corti impiegherebbero due anni solo a smaltire l’arretrato se non arrivasse loro più nessun processo. Questa, essendo la situazione (non secondo me, ma secondo la Commissione ministeriale) prevedere, come sembra voler fare il disegno di legge di iniziativa governativa, un termine di due anni (salve eccezioni) per la fase di appello, dopo i quali scatta l’improcedibilità, significa far prescrivere (o meglio dichiarare improcedibili, ma l’effetto è lo stesso) quasi tutti i processi in cui sia proposto appello.

Infatti, poiché i nuovi processi che arriveranno in appello andranno in coda a quelli pendenti (salvo quelli con imputati detenuti), per quasi tutti scatterà l’improcedibilità. Sostanzialmente si avranno gli effetti di un’amnistia senza neppure i benefici che le amnistie avevano di eliminare i processi, perché comunque dovranno essere celebrati tutti i giudizi di primo grado.

In un precedente articolo (pubblicato sempre su questa testata il 3 giugno 2021 con il titolo “Non sono riforme, ma cure palliative”) ricordavo che la stessa Commissione aveva scritto: “È noto da sempre che la chiave del successo di un impianto accusatorio è rappresentata da un efficace compendio di riti alternativi, in grado di assorbire un’elevata percentuale di procedimenti, per riservare il dibattimento, articolato e ricco di garanzie, a un numero circoscritto di casi. È altrettanto noto che questa previsione – espressamente formulata dal legislatore del 1988 – è quella risultata maggiormente inattuata negli oltre trent’anni di applicazione del nuovo codice di procedura penale, nonostante i numerosi interventi che hanno tentato di potenziare l’appetibilità dei procedimenti speciali”. Proprio per incentivare i riti alternativi era stato cambiato l’art. 79 della Costituzione (con legge costituzionale 6 marzo 1992, n.1) prevedendo per le leggi di amnistia e indulto la maggioranza dei due terzi. Era ed è evidente che un imputato sceglierà di “patteggiare” solo se gli conviene, altrimenti no. Se, aspettando, arrivava l’amnistia o l’indulto (in media nei 50 anni precedenti l’entrata in vigore del codice di procedura penale del 1988 i provvedimenti di quel tipo si erano susseguiti al ritmo di uno ogni anno e mezzo) nessuno patteggia, perché nessuna pena è sempre preferibile a una pena ridotta. Ma una improcedibilità generalizzata in Appello otterrà gli stessi effetti di disincentivare i riti alternativi con la conseguente impossibilità di far funzionare il processo accusatorio. Se approvata, questa riforma ci esporrà a rilievi dell’Unione europea, già desumibili da pronunzie della Corte di Giustizia.

Perché una scelta in plateale contrasto con i presupposti stessi da cui la Commissione muove? Forse si pensa a una normativa transitoria che renda applicabili le nuove disposizioni solo dopo la drastica riduzione delle pendenze in Appello (come del resto già suggerito dal presidente dell’Associazione nazionale magistrati). Può anche darsi che, essendovi una larga maggioranza, si pensi a un’amnistia per azzerare la pendenza delle Corti d’appello. Così però si radicherà ancora di più l’idea che chi non cerca di guadagnare tempo è uno sciocco e quindi si affosserà definitivamente le possibilità di funzionamento del processo penale.

In ogni caso, un’eventuale amnistia e il rinvio dell’entrata in vigore di queste disposizioni presuppongono l’idea che nel frattempo vi sia un forte calo delle impugnazioni, in modo da ridurre la pendenza delle Corti d’appello. Allo stato, però, questa rimane un’illusione, dal momento che le proposte di modifica dell’Appello non sembrano tali da ridurre in modo considerevole il numero degli atti di Appello. Forse la reale spiegazione può essere ricercata nella convinzione (ovviamente non dichiarabile) della classe dirigente che l’Italia non possa reggere una giustizia seria, cioè – in altri termini – che non possa essere un Paese serio. Credo invece che questo nostro Paese sia anche pieno di persone perbene, che rispettano la legge e che prima o poi potrebbero pure seccarsi di vedere che chi invece le leggi le viola se la cava quasi sempre.

ILFQ

Aridatece il Caimano. - Marco Travaglio

 

Le conseguenze politiche del Salvaladri approvato dal Consiglio dei ministri sono una grande Operazione Verità: Draghi si conferma il nuovo capo politico dei 5Stelle, rendendo superflua la trattativa con Conte; Grillo si conferma il garante non del M5S, ma di Draghi; i ministri 5Stelle che hanno votato la porcata in Cdm e non si dimettono e i parlamentari che la voteranno in aula avranno la tessera onoraria del Movimento5Draghi, ultima succursale di FI con Iv e altri pulviscoli, e riusciranno finalmente a convincere gli elettori che votare è inutile perché la roulette delle urne è truccata e, alla fine, vince sempre il banco. Una menzione speciale a Pd e LeU, non pervenuti nella discussione perché già a 90 gradi al cospetto di Sua Maestà, che ingoiano senza un ruttino la quintessenza del berlusconismo contro cui avevano finto di battersi per 27 anni, fregando milioni di elettori.

Ma le conseguenze più nefaste del Salvaladri sono quelle giudiziarie, perché rovinano irrimediabilmente la vita dei cittadini: quelli onesti, si capisce. Per fregare gli allocchi grillini col loro consenso, Draghi ha spiegato che il termine massimo di 2 anni (o di 3 per i reati contro la Pa) basta e avanza per celebrare i processi d’appello prima che scatti la mannaia della “improcedibilità”, visto che le statistiche dicono che i processi d’appello durano in media 2 anni. Un trucchetto da magliari che non funzionerebbe neppure con un cerebroleso. Per due motivi. 

1) I 2 anni non si calcolano dalla prima udienza alla sentenza, ma da quando viene proposto l’appello (dopodiché passano mesi, a volte anni, prima che inizi il dibattimento). 

2) Se anche la durata media dei processi d’appello fosse 2 anni (falso: è di 2 anni e 3 mesi), vorrebbe dire che metà dei processi durano di più e l’altra metà di meno. Quindi, a spanne, diventerebbe improcedibile (cioè morto) un processo d’appello su due. Anzi, certamente di più. La legge Bonafede incentivava i patteggiamenti e riduceva i dibattimenti: se so di essere colpevole, vedo che il mio processo di primo grado non fa in tempo a prescriversi e dopo la prima sentenza non c’è più prescrizione che tenga, mi conviene patteggiare una pena scontata e smettere di pagare l’avvocato. Così il numero dei processi cala e quelli rimasti durano meno. Ora invece, col Salvaladri Draghi-Cartabia, chi patteggia è un coglione: gli basta ricorrere in appello anche se sa di essere colpevole e tirarlo in lungo fino a 2 (o 3) anni e un giorno, dopodiché il suo reato neppure si prescrive, ma diventa financo improcedibile (che è ancora più conveniente: il colpevole impunito non rischia nemmeno di risarcire la vittima).

Quindi non patteggerà più nessuno, le impugnazioni dilatorie si moltiplicheranno e con esse il numero e la durata dei dibattimenti. Già ora i tempi sono incompatibili con la barzelletta dei 2 anni, visto che in media le Corti d’appello hanno due anni di processi arretrati, che mandano in coda quelli nuovi: ciascuno dei quali parte con un handicap di 2 anni, cioè morto. È quella che Davigo, a pag. 5, chiama “amnistia mascherata”. E far passare i 2 anni è un gioco da ragazzi: basta che uno dei giudici si ammali, o muoia, o vada in pensione, o venga trasferito, e si deve ricominciare tutto da capo, con l’aggiunta dei cavilli degli azzeccagarbugli (inclusi gl’impedimenti parlamentari). Il che è tanto più probabile quanto grave è il reato: nei maxiprocessi alle associazioni per delinquere semplici o mafiose, ma anche per omicidi colposi plurimi tipo Morandi ed Eternit o per bancarotte tipo Parmalat e Cirio, non c’è neppure bisogno di incidenti od ostruzionismi per far passare i 2 anni. Quindi il Salvaladri non solo smantella la Bonafede; ma peggiora le cose anche rispetto a prima, facendo rimpiangere persino la prescrizione modello B..

Facciamo il caso di una rapina a mano armata: scatta l’allarme, la polizia insegue il rapinatore e lo arresta in flagrante. Processo per direttissima e condanna in primo grado a tempo di record, 6 mesi dopo il delitto. Finora, ma anche prima della blocca-prescrizione, i giudici avevano 14 anni e mezzo per celebrare l’appello e la Cassazione. Ora invece il processo muore dopo 2 anni e un giorno dal momento in cui il condannato appella la sua condanna. Risultato: la rapina a mano armata, che prima si prescriveva in 15 anni, diventa improcedibile dopo 2 anni e mezzo. Aridatece il Caimano. Ultima delizia: la norma transitoria del Salvaladri lo fa valere solo per i reati commessi dal 1° gennaio 2020 (per non lasciare la legge Bonafede nemmeno per un giorno simbolico). Ma, trattandosi di norme infinitamente più favorevoli all’imputato rispetto alla Bonafede, per gli imputati per reati pre-2020 sarà uno scherzo invocare il favor rei e ottenere il Salvaladri anche per sé. Così chi oggi è imputato in appello da un anno e mezzo non avrà che da tirare in lungo per altri 6 mesi e 1 giorno per arraffare l’impunità. Con tanti saluti alle decine di migliaia di vittime che, oltre al danno, subiranno pure la beffa alla vigilia della sospirata sentenza. Per fortuna la porcheria è ancora sulla carta: deve passare al vaglio del Parlamento. Chi ama la legalità e non vuole l’impunità tenga d’occhio i deputati e i senatori: il Fatto pubblicherà i nomi di quelli che voteranno a favore. Poi gli elettori faranno il resto.

ILFQ

Con la nuova prescrizione di Cartabia i processi non dureranno di meno: o muoiono (senza colpevoli) o si allungano. Ecco perché. - Giuseppe Pipitone

 

Il nuovo meccanismo sull'improcedibilità inserito nella legge delega penale applica al processo d'appello una data di scadenza. In questo modo gli imputati saranno incentivati a fare ricorso, puntando alla "morte" stessa del procedimento. E per fare "morire" il processo l'unica alternativa è puntare sulle tattiche dilatorie, che qualsiasi penalista di esperienza sa bene come mettere in campo.

Processi più veloci e che durano meno tempo. Era questa la richiesta all’Italia da parte della commissione Europea per avere accesso ai fondi del Recovery plan. Un obiettivo che sembra difficile da raggiungere con la legge delega licenziata giovedì sera dal Consiglio dei ministri del governo di Mario Draghi. Il motivo? Sono molteplici. Per esempio mancano elementi concreti che incentivino in modo sostanziale la scelta dei riti alternativi. Ma soprattutto ad apparire non particolarmente efficace è la nuova riforma della prescrizione della guardasigilli Marta Cartabia. La norma, nei fatti, soppianta la legge di Alfonso Bonafede, che dall’1 gennaio del 2020 blocca la prescrizione del reato dopo il primo grado di giudizio. Quella riforma, a suo tempo bandiera dei 5 stelle, produrrà i suoi effetti solo a partire dal 2025: sarebbe dunque prematuro cercare di tracciarne un bilancio. Di sicuro, però, chi si è visto applicare una norma che congela la prescrizione dopo la prima sentenza, non ha molto interesse a fare ricorso in appello. Soprattutto quando è stato magari condannato a pene molto lievi.

La tagliola di Cartabia – Il nuovo meccanismo studiato da Cartabia, invece, mantiene la prescrizione esistente solo fino al primo grado. Nel secondo subentra un altro concetto, quello dell’improcedibilità. Se l’Appello non si conclude entro due anni, il processo non può più andare avanti, cioè muore in via definitiva. Lo stesso vale per quello in Cassazione, dove la tagliola scatta entro un anno. I ministri dei 5 stelle hanno assicurato il sostegno al testo dopo che la guardasigilli ha modificato leggermente la riforma. Cartabia ha previsto l’allungamento (ma solo a discrezione del giudice) del termine entro cui si devono completare i gradi di giudizio – a pena di improcedibilità – a tre anni in Appello e 18 mesi in Cassazione per i più gravi reati contro la pubblica amministrazioneconcussionecorruzione, istigazione alla corruzione e induzione indebita a dare o promettere utilità. Tempi più lunghi sono previsti anche per reati gravi come la mafia e il terrorismo, mentre sono completamente esclusi da questo meccanismo quelli puniti con l’ergastolo, come l’omicidio e la strage. I 5 stelle rivendicano la minuscola modifica inserita nella riforma come una loro personale vittoria: “I tempi della prescrizione – sostengono in una nota – per i reati dei potenti, quelli contro la collettività (vedi la corruzione) sono stati allungati: non a caso rappresentanti di alcune forze politiche ieri hanno avuto forti mal di pancia”.

Processi più veloci del 25%? “Previsione irrealistica” – Una verità parziale. Intanto perché un sistema simile crea una discriminazione tra imputati e quindi può prestare il fianco a una questione di legittimità costituzionale. Ma soprattutto perché è evidente che in questo modo i processi non dureranno di meno. Non è un caso se un insigne giurista e celebre legale come Ennio Amodio ha definito la riforma come “un’occasione mancata“. A sentire Draghi le norme introdotte da Cartabia accorceranno del 25 percento i tempi dei processi penali, ma Amodio non è d’accordo. “Non mi sembra una previsione realistica perché si basa su un pensiero pieno di prospettive ma lontano dalla realtà”, ha detto tranciante il professore alla Stampa.

Il giudice in pensione: bisogna sostituirlo entro 60 giorni – Senza considerare che appliccando sul processo d’appello una data di scadenza gli imputati saranno incentivati a fare ricorso, puntando alla “morte” stessa del procedimento. E per fare “morire” il processo l’unica alternativa è puntare sulle tattiche dilatorie, che qualsiasi penalista di esperienza sa bene come mettere in campo. In effetti basta addentrarsi tra gli articoli della legge delega per accorgersi che mancano una serie di norme per disincentivare i tentativi di dilazione. A cominciare da eventuali sanzioni per i giudici e il personale amministrativo dei procedimenti che andranno in fumo. Ma non solo. La norma contenuta nell’ultima bozza della legge delega prevede che “i termini di durata massima del processo sono sospesi, con effetto per tutti gli imputati nei cui confronti si sta procedendo, nei casi previsti dall’articolo 159, primo comma, del codice penale e, nel giudizio di appello, anche per il tempo occorrente per la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale”. Che cosa vuol dire? Che nel caso in cui occorresse far ripartire il dibattimento – succede per esempio quando cambia il giudice – il tetto dei due anni viene congelato. La stessa norma però prescrive che “in caso di sospensione per la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, il periodo di sospensione fra un’udienza e quella successiva non può comunque eccedere i sessanta giorni”. Quindi se, per fare un esempio, un giudice va in pensione, bisognerà sostituirlo entro 60 giorni: in alternativa le lancette dell’improcedibilità riprenderanno a correre. In più, scritto in questa maniera, sembra che dal momento in cui il processo ripartirà, bisognerà concluderlo nel tempo rimasto.

Tattiche dilatorie e tempi morti: più processi più lunghi – Ma non solo. L’articolo 159, primo comma, del codice penale, citato nella norma precedente, disciplina eventuali impedimenti di difensori e imputati: prevede che in caso di assenza giustificata ogni rinvio deve essere fissato entro 60 giorni dalla cessazione dell’impedimento. Se per esempio l’imputato presenta un certificato medico che ne testimonia l’impedimento per 30 giorni, il giudice potrà fissare una nuova udienza anche tre mesi dopo (si sommano 30 giorni di impedimento ai 60). In questo lasso di tempo la “tagliola” dell’improcedibilità viene congelata ma è evidente che un sistema del genere non produrrà certo processi più veloci. Anzi: ne produrrà molti di più e più lenti. Senza considerare che, come si legge sempre nella bozza, la nuova disciplina sulla prescrizione si applica per reati commessi dopo l’1 gennaio 2020, data di entrata in vigore della riforma Bonafede, e non per quelli precedenti. Ma perché un imputato per un reato commesso il 31 dicembre del 2019, che magari è ancora in attesa di giudizio, deve essere giudicato con la vecchia legge sulla prescrizione – in questo caso la riforma Orlando – e non con la nuova, molto più favorevole al reo? E’ solo uno dei tanti interrogativi che pesano su una riforma nata per velocizzare i processi. Ma che rischia o di ucciderli o di rallentarli. Di sicuro ne produrrà di più.

ILFQ

“Assenteisti” al Comune di Palermo: 8 arresti, 43 indagati. - Riccardo Lo Verso

 

Blitz ai cantieri Culturali della Zisa. Timbravano e andavano al bar, a fare la spesa oppure jogging.

I finanzieri l’hanno denominata operazione “Timbro libera tutti”. É la fotografia di quanto sarebbe avvenuto all’interno dei Cantieri culturali della Zisa. I fatti sono nel 2018, ma molti lavoratori sono ancora in servizio. Da qui le attuali esigenze cautelari ritenute sussistenti dal Gip Rosario Di Gioia per 28 dei 43 indagati.

Otto persone finiscono agli arresti domiciliari, per 14 scatta l’obbligo di dimora e presentazione alla polizia giudiziaria e per sei il solo obbligo di presentazione.

Gli indagati per truffa sono dipendenti del Comune (11), del Coime (3) e della Reset (14). Tra di loro anche un soggetto indagato per mafia.

Su richiesta della Procura, l’indagine è coordinata dall’aggiunto Sergio Demontis e dal sostituto Maria Pia Ticino, vanno ai domiciliari Dario Falzone, 69 anni, Antonio Cusimano, 60 anni, Gaspare Corona, 69 anni, Mario Parisi, 61 anni, Francesco Paolo Magnis, 61 anni, Salvatore Barone, 47 anni (è un sindacalista molto noto che ha da sempre combattuto battaglie al fianco dei precari), Giancarlo Nocilla, 48 anni e Tommaso Lo Presti, 50 anni. Quest’ultimo è già indagato per mafia ed è cugino di due boss di Porta Nuova, Tommaso Lo Presti soprannominato il pacchione e il cugino omonimo detto il lungo.

L’obbligo di dimora è stato notificato a Fabiola Selvaggio, Giuseppe Muliello, Silvana Caravello, Massimo Pipi, Rosaria Gebbia, Francesco Caruso, Salvatore Consiglio. Salvatore Reina, Isidoro Chianello (è il padre di Angela da Mondello, il cui “non ce n’è Covid” è diventato un tormentone prima social e poi mediatico), Francesco Paolo Tinervia. Massimo Vesco, Mario Nuccio, Davide Nuccio. Vita D’Aiuto.

Obbligo di firma per Antonino Muratore, Maria Angela Di Carlo, Filippo Pecoraro, Marina Megna, Francesco Madonia e Francesco Ferraro. Ci sono anche altri 15 indagati.

Gli investigatori del Nucleo di polizia economico-finanziaria di Palermo – gruppo tutela mercato beni e servizi – hanno pedinato e filmato le assenze dei laboratori che timbravano e poi si allontanavano per fare la spesa al supermercato o shopping, andare al bar, o addirittura praticare jogging.

In molti casi un collega timbrava il bagde per tutti. Oppure si faceva ricorso allo strumento straordinario della “rilevazione manuale”, che consente in caso di “dimenticanza” del cartellino personale, di attestare la propria presenza al lavoro tramite comunicazione scritta.

Una telecamera nascosta piazzata vicino all’apparecchio per la rilevazione elettronica delle presenze ha registrato in poco più di tre mesi, nel 2018, oltre mille casi di assenza ingiustificata per circa 2.500 ore di servizio.

“L’attività investigativa ha svelato l’esistenza di un fenomeno illecito estremamente diffuso all’interno della struttura pubblica cittadina – spiega il generale Antonio Quintavalle Cecere, comandante provinciale della finanza di Palermo- , un modus operandi divenuto cronico a tal punto da essere considerato come un comportamento ‘normale’. Alcuni degli indagati hanno costituito delle vere e proprie ‘squadre di lavoratori assenteisti’ che provvedevano ad effettuare reciprocamente la timbratura dei badge dei propri compagni in modo da non far risultare i periodi di assenza dal lavoro. Purtroppo registriamo ancora una volta la sistematica violazione dei principi di diligenza, lealtà e buona condotta che i pubblici dipendenti sono tenuti ad osservare”.

“È emerso un sistema patologicamente orientato al malaffare a danno della pubblica amministrazione cittadina, in un contesto che appare di assoluta arbitrarietà nello svolgimento dei compiti lavorativi – aggiunge il colonnello Giancluca Angelini, comandante del Nucleo -. L’aspetto più allarmante è il diffuso senso di impunità che ha permeato un numero significativo di pubblici dipendenti che si sono sentiti liberi di violare sistematicamente le regole del rapporto di impiego, come se si trattasse di comportamenti normali, emergendo un sentimento di disaffezione al servizio che ha portato a compromettere con assoluta disinvoltura il rapporto di fedeltà con la pubblica amministrazione. In tali contesti, il controllo sociale riveste un ruolo determinante: nessuno deve più tollerare comportamenti di pubblici dipendenti che non siano improntati al rigoroso rispetto dei propri doveri nell’interesse generale della collettività.

LveSicilia