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domenica 25 giugno 2023

Il papà di Di Pietro salvato da Cartabia. - Luca Teolato

 

L’uomo fu condannato dalla Corte dei Conti, la consulta annullò i verdetti.

Negli ultimi giorni è balzata agli onori della cronaca la biografia di Paolo Di Pietro, papà di Matteo, lo youtuber indagato per omicidio stradale per l’incidente avvenuto alla periferia sud di Roma che mercoledì è costato la vita a Manuel Proietti, bimbo di cinque anni. 

Quasi tutte le testate nazionali, dopo la diffusione di un video in cui l’uomo, dipendente del Quirinale, partecipa a una delle challenge del figlio guidando una Ferrari senza cintura, hanno ricordato i suoi precedenti con la giustizia per un’indagine per distrazione di denaro dalle casse della Presidenza della Repubblica di oltre 4,5 milioni di euro.

Un ricordo incompleto per la maggior parte dell’informazione che ha sottolineato che il papà dello youtuber ne è uscito indenne, con le accuse a suo carico archiviate in udienza preliminare, insieme agli altri imputati (tra prescrizioni e assoluzioni), compreso Gaetano Gifuni, segretario generale della Presidenza della Repubblica per Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi.

Ma Paolo Di Pietro e un altro suo collega sono stati condannati dai giudici contabili in via definitiva per il danno erariale provocato alle casse del Quirinale (come già raccontato nell’aprile del 2021 dal Fatto, ma a questo particolare ha accennato solo Repubblica che ha citato il nostro vecchio articolo).

Inoltre Stefano Imperiali, il giudice della Corte dei Conti che ha emesso nel 2016 la condanna di secondo grado nei confronti dei due dipendenti del Quirinale, stabilendo il risarcimento dell’intero danno erariale accertato dal consulente tecnico nominato dal pm del Tribunale di Roma, durante il processo in sede penale per la medesima vicenda, ha dovuto attraversare una serie traversie – tra contestazioni, sanzioni, rarefazione delle udienze – che se non sono mobbing di sicuro segnano la fine di una carriera.

Tant’è che circa un anno dopo la sentenza ha deciso di andare in pensione anticipata: 64 anni appena quando normalmente la soglia è, al netto di proroghe eventuali, di 70 anni.

Sacrificio risultato vano perché nel giugno 2018 è arrivata la sentenza della Corte Costituzionale, redatta da Marta Cartabia, allora giudice della Consulta, che ha annullato i verdetti di primo e secondo grado sui due dipendenti, accogliendo un ricorso della Presidenza della Repubblica per conflitto d’attribuzione tra poteri dello Stato, stabilendo che la giurisdizione spettava al Tribunale Civile anziché alla Corte de Conti.

Cartabia che in seguito diventerà presidente della Corte Costituzionale e poi ministro della Giustizia del governo guidato da Mario Draghi.

Imperiali ha presentato una denuncia alla Procura di Roma sulla vicenda per un verdetto che ha definito “incomprensibile” e che costituisce “un autorevole ‘precedente’ che certo porrà per lungo tempo tutti i dipendenti della Presidenza della Repubblica al gradito riparo da eventuali giudizi di responsabilità per danno erariale”.

Una denuncia che però è stata archiviata.

Intanto, Matteo Di Pietro ha deciso di lasciare Roma, in attesa di essere interrogato. Il giovane si è allontanato dall’abitazione dove solitamente risiede per recarsi in un appartamento di famiglia sul litorale.

F.Q. 20 giugno

https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=1148492862751786&id=100027732506122 

sabato 29 gennaio 2022

Stalker arrestato e subito liberato. Il pm a Cartabia: “Norma da rifare”. - Antonella Mascali

 

La ministra della Giustizia Marta Cartabia appena il mese scorso aveva elogiato le misure per proteggere e mettere in sicurezza le donne vittime di violenza, aveva citato in particolare la legge che ha introdotto l’arresto in flagranza per chi viola il divieto di avvicinamento, facendo finta di nulla rispetto alle preoccupazioni, pure segnalate, dalle procure italiane, che questa legge non si può applicare. Un caso concreto successo ieri a Parma, che tra poco racconteremo, è la prova sul campo del cortocircuito normativo di cui fanno le spese le vittime. La legge entrata in vigore a ottobre scorso (articolo 387 bis del codice penale) non si può eseguire perché non è stata fatta una cosa tanto semplice quanto essenziale: la modifica di un articolo del codice penale collegato. Ed ecco che un uomo è stato sì arrestato a Parma mentre bussava alla porta di casa della sua ex compagna , violando un ordine di non avvicinamento, ma è tornato subito dopo in libertà. Il procuratore Alfonso D’Avino ha evidenziato le incongruenze della legge al ministero della Giustizia, senza ricevere alcuna risposta. Dopo il caso di ieri ha spiegato cosa accade: da un lato “la polizia giudiziaria è obbligata all’arresto ma, dall’altro, il pm, al quale viene trasmesso il verbale di arresto per la convalida, non può richiedere nessuna misura coercitiva, ma deve disporne la liberazione”.

Come mai? D’Avino ha parlato di una “situazione paradossale” che si è venuta a creare dopo che è stato introdotto l’arresto obbligatorio in flagranza per questo reato, “non è stata modificata la norma che prevede i casi nei quali il pm può chiedere la misura coercitiva. La conseguenza è che – come nel caso in questione – all’arresto obbligatorio da parte della polizia giudiziaria deve seguire l’immediata liberazione da parte del pm”. Il riferimento del procuratore è alla mancata modifica dell’articolo del codice penale, il 381, che elenca i reati per i quali in caso di flagranza può avvenire l’arresto pur non prevedendo il reato una pena superiore a 3 anni come – appunto – il reato di violazione di divieto di avvicinamento che, in base al codice Rosso, varato durante il governo precedente, prevede dai 6 mesi a 3 anni di pena. Bastava aggiungerlo a quell’elenco e l’arrestato di ieri non sarebbe tornato in libertà. Invece, abbiamo letto in una circolare interna, di novembre, della procura di Torino, la legge così com’è “rischia non solo di limitare di molto le finalità di tutela che il legislatore si proponeva di realizzare, ma anche di complicare la gestione dei procedimenti che da tali arresti potranno scaturire”. E infatti così è stato.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/01/28/stalker-arrestato-e-subito-liberato-il-pm-a-cartabia-norma-da-rifare/6471363/?utm_content=marcotravaglio&utm_medium=social&utm_campaign=Echobox2021&utm_source=Facebook&fbclid=IwAR2DGR_oAoMTuX6_Bwo8YKYXemyineQpdwF0jzNQSLDLZm-YcW10pBv3Hss#Echobox=1643356747

lunedì 1 novembre 2021

Nino Di Matteo: “La legge Cartabia vìola la Costituzione. È buio per noi toghe”. - Marco Lillo

 

Consigliere Antonino Di Matteo il titolo del suo nuovo libro è ‘I nemici della giustizia’. Chi sono?

Sono tanti. Non solo mafiosi corrotti e criminali. Si annidano nelle pieghe delle istituzioni e della politica e anche della magistratura. Non possiamo far finta che questo momento non sia uno dei più bui della storia della magistratura. I mali diffusi come metastasi nel corpo della giustizia sono il correntismo, la corsa sfrenata alla carriera, la gerarchizzazione degli uffici di procura e il collateralismo con la politica.

Perché ha scritto con Saverio Lodato questo libro in questo momento così poco felice della magistratura?

Non possiamo far finta di stupirci. Dobbiamo indignarci e non nascondere la verità. Sono tanti quelli che vogliono approfittare di questo momento difficile per regolare i conti con i magistrati che hanno saputo esercitare il controllo di legalità anche sul potere finanziario e politico. C’è una logica di rappresaglia ma anche di prevenzione per il futuro. Vogliono vendicarsi ed evitare che la magistratura possa essere troppo incisiva. Ecco perché ho ritenuto di far sentire la mia voce. Non mi piace questo andazzo. La magistratura sembra rassegnata a subire l’attacco frontale di chi vuole trasformare le procure in organi collaterali e serventi rispetto al potere esecutivo.

C’è un intero capitolo nel libro dedicato alla riforma Cartabia. Quali sono i rischi maggiori?

La ritengo una delle peggiori riforme degli ultimi 30 anni. L’Europa chiedeva di accelerare i processi ma se fosse stata in vigore la riforma Cartabia, processi importanti come quello per il crack Parmalat, la strage di Viareggio o per le violenze nella scuola Diaz di Genova nel 2001, si sarebbero conclusi nel nulla. Questa normativa presenta per me aspetti di evidente incostituzionalità. Va nella stessa direzione del processo breve voluto dal premier Berlusconi e dal ministro Alfano nel 2009. Allora però ci fu una forte reazione. Gli organismi rappresentativi della magistratura, i movimenti e partiti che allora insorsero oggi sono silenti o addirittura favorevoli alla riforma Cartabia.

Poi c’è il tema dei criteri di priorità stabiliti dal legislatore. Quali sono i pericoli?

Questo punto mi preoccupa ancor più dell’improcedibilità. Le maggioranze parlamentari del momento dovranno individuare le priorità dell’azione penale. La maggioranza di turno potrà ad esempio in futuro stabilire che bisogna perseguire prima la criminalità da strada e poi, solo se resta tempo, i reati di corruzione o tipici dell’abuso di autorità. Così si mina l’obbligatorietà dell’azione penale e l’autonomia e indipendenza della magistratura. Non è solo un problema della casta della magistratura. Intravedo un grave pericolo per i cittadini e le minoranze che si oppongono alla maggioranza di turno.

Nel libro dedica un capitolo intero ai referendum sulla giustizia. Ci spiega perché è contrario?

Premetto che la Costituzione prevede lo strumento referendario anche per cambiare le norme della giustizia. Nulla da dire quindi sul metodo. Nel merito invece sono contrario a cinque dei sei quesiti. Il sesto, quello sulle firme necessarie per presentare le candidature al CSM, per me è inutile perché non serve a evitare lo strapotere delle correnti.

Lei è contrario soprattutto alla separazione delle carriere. Perché?

Il primo piano in tal senso era quello di Rinascita Democratica di gelliana memoria. Poi è diventata una bandiera di Forza Italia e del centrodestra nella seconda repubblica. L’appiattimento dei giudici sui pm è un falso storico. Basta vedere le statistiche: i giudici disattendono spesso le richieste dei pm. Inoltre sul passaggio da una funzione all’altra i paletti sono già alti. Negli ultimi 15 anni poco più del 2 per cento dei pm è diventato poi giudice e meno dello 0,5 dei giudici ha compiuto il passaggio inverso. La separazione delle carriere porterebbe, se non immediatamente in maniera inevitabile, alla sottoposizione del pm all’esecutivo e comunque consacrerebbe una figura del pm estranea alla cultura della giurisdizione.

Perché non sarebbe giusta la riforma della responsabilità civile?

Si dice che i magistrati che sbagliano devono pagare. Messaggio suggestivo ma che si basa su presupposti sbagliati. Esiste già la responsabilità penale con decine di magistrati sotto processo. Poi c’è la responsabilità disciplinare che viene fatta valere più frequentemente per noi magistrati che per altre categorie. Anche la responsabilità civile già c’è. Anche se solo per dolo e colpa grave. La normativa attuale prevede l’azione del cittadino che si ritiene leso contro il Governo per chiedere i danni. In caso di accertamento del dolo o della colpa grave, è il Governo a potersi rivalere sul magistrato. Con il sì al referendum si consentirebbe al cittadino l’azione diretta contro il magistrato. Vedo alcuni rischi: innanzitutto si determinerebbe un’incompatibilità in capo al magistrato chiamato in causa. Inoltre i magistrati che devono giudicare una controversia, civile o penale potrebbero essere indotti a favorire la parte più forte, che ha i mezzi per rivalersi sul magistrato. Tra una multinazionale e un lavoratore il giudice sarà sereno nel giudizio?

Nel libro c’è un riferimento alla sentenza Trattativa. L’appello ha ribaltato il primo grado assolvendo Marcello Dell’Utri e i Carabinieri. Cosa ha pensato?

Bisognerà attendere le motivazioni. Però alcune cose si possono già dire. Intanto non siamo stati solo noi pm a valutare certe condotte. Il giudice dell’udienza preliminare ha ritenuto giuridicamente corretta l’impostazione accusatoria. E poi la Corte di Assise – dopo 5 anni di processo e centinaia di udienze – ha scritto 5.500 pagine per motivare la condanna. Non voglio scendere nel merito delle responsabilità penali degli imputati. Però una cosa voglio dirla: sono a posto con la coscienza e sono orgoglioso di aver contribuito con i miei colleghi, pm e giudici, a far emergere fatti oggi incontestabili che solo la nostra tenacia ha fatto riemergere da archivi nascosti e polverosi. L’opinione pubblica aveva il diritto e forse anche il dovere di sapere che nel periodo delle stragi Cosa Nostra ha agito nell’ottica di un dialogo a suon di bombe con lo Stato. Nessuna sentenza potrà mai cancellare i fatti storici emersi in quel processo.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/11/01/nino-di-matteo-la-legge-cartabia-viola-la-costituzione-e-buio-per-noi-toghe/6375387/

mercoledì 29 settembre 2021

Abracartabia. - Marco Travaglio

 

In attesa del prossimo film di Woody Allen, chi vuol farsi qualche sana risata può vedersi le audizioni alla Camera sul dlgs Cartabia per “rafforzare la presunzione di innocenza”. Cioè per abolire la cronaca giudiziaria. Ormai, fra depenalizzazioni, prescrizioni, improcedibilità, cambi di giurisprudenza à la carte, minacce ai giudici e altre porcherie, il rischio che un potente sia condannato è inferiore a quello che Italia Viva superi il 3%. Infatti ciò che spaventa lor signori non è più di finire in galera, ma sui giornali: cioè che si sappia quel che fanno. Quindi i pm e le forze dell’ordine potranno parlare delle loro inchieste “solo quando è strettamente necessario per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre rilevanti ragioni di interesse pubblico”. Cioè: meglio per loro se si stanno zitti, così i media non scrivono più nulla e la gente non sa più una mazza. Ogni tanto – abracadabra! – sparirà qualcuno da casa, parenti e amici penseranno al peggio e chiameranno Chi l’ha visto?, i giornali segnaleranno il curioso fenomeno dei desaparecidos come nell’Argentina anni 70: anni dopo si scoprirà che era stato arrestato, ma non era strettamente necessario dirlo.

Nel caso in cui un pm o un agente temerario si ostinino a informare di un’indagine, dovranno astenersi dall’“indicare pubblicamente come colpevole” l’indagato o l’imputato. Uno spasso: per legge il pm che chiede al gip di arrestare tizio deve indicare i “gravi indizi di colpevolezza” a suo carico: ora dovrà aggiungere che sembra colpevole, ma è sicuramente innocente. Anche se l’ha colto in flagrante o filmato o intercettato mentre accoltellava la moglie, o spacciava droga, o frugava negli slip di un bambino. E persino se ha confessato. Formula consigliata: “È innocente, arrestiamolo”. Severamente vietato poi “assegnare ai procedimenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza”. Retata di narcotrafficanti, mafiosi, terroristi, scafisti, papponi, pedofili, tangentisti? Operazione “Giglio di Campo” o “Tutta Brava Gente”. Anche fra i reati da contestare, evitare quelli che fanno pensar male: non più “associazione per delinquere”, ma “sodalizio conviviale”. La stampa dovrà cospargere le pagine di vaselina, evitando termini colpevolisti quali “criminalità organizzata” (tutt’al più disorganizzata, ecco). Ma questo già avviene su larga scala, infatti ieri l’Ordine dei giornalisti e la Fnsi han dato buca alla Camera. Se già i media chiamano statisti i pregiudicati, esuli i latitanti e perseguitati i colpevoli prescritti, il dlgs Cartabia è pleonastico. Anche grazie ai giudici che si portano avanti col lavoro e cancellano brutture come la trattativa Stato-mafia, condannando solo i mafiosi. Che trattavano sì, ma da soli. Infatti ora si chiama “trattativa mafia-mafia”.

ILFQ

domenica 15 agosto 2021

Cartabia sul Ponte: piovono balle, promesse e omissioni. - Marco Grasso

 

Genova - L’azzardo: “Nessuna prescrizione per il maxi-processo”.

“Lo voglio dire qui, davanti a voi, senza possibilità di equivoci: non c’è mai stato rischio per il processo sul Ponte Morandi”. Lo ha detto ieri il ministro Marta Cartabia: nessuna prescrizione per il maxi-processo di Genova. Il palco è quello dove si commemora il terzo anniversario della strage del viadotto Polcevera. A questo passaggio il pubblico applaude. In platea ci sono molti familiari delle vittime del crollo. È a loro che si rivolge la Guardasigilli, con un argomento quantomeno singolare: la sua riforma, sembra quasi volerli rassicurare, non si applicherà al loro processo. E accusa chi dice il contrario di “disonestà intellettuale” e di “allarmismo infondato” che “aggiungono ulteriore dolore”.

Ma ecco le parole esatte usate nel suo intervento: “Nelle ultime settimane so che è stata per voi e per tutta la città fonte di preoccupazione l’opinione, del tutto destituita di fondamento, per cui la riforma del processo penale potrebbe frustrare la vostra bruciante domanda di verità e giustizia. Lo voglio ripetere qui davanti a voi, senza possibilità di equivoci: non c’è mai, mai stato alcun rischio per il processo sul Ponte Morandi. Anzi, avendo ascoltato le vostre parole questa mattina, c’è un pensiero che non posso tacere. Bisognerebbe riflettere più di una volta prima di diffondere opinioni che generano allarme e gravano di ulteriore peso chi già porta un così grande dolore. Basterebbe leggere il testo della riforma, e non serve un giurista per verificare che si applica a reati successivi al 1 gennaio 2020. Ma questo sarebbe poco. Non solo il processo per il Morandi, ma tutti i processi che riguardano altri gravi disastri, o qualunque altra vicenda umana, debbono essere portati a termine. Il governo ha lavorato a questa riforma per assicurare un accertamento tempestivo di tutte le responsabilità, non per stroncare il lavoro dei giudici”.

Il discorso ufficiale è stato affiancato da un incontro con i familiari delle vittime. Un colloquio in cui la ministra ha esposto sostanzialmente quattro concetti. Il primo è lo stesso ribadito davanti ai microfoni: l’irretroattività della norma. Il secondo: i processi particolarmente complessi avranno strade preferenziali. Terzo: la giustizia viaggerà più rapida grazie alle 8 mila figure che verranno inserite (a tempo determinato) nell’ufficio del processo. Quarto: Cartabia ha spiegato di avere in mente la creazione di una “task force” di 200 magistrati “mobili”, che andranno a coprire le emergenze di volta in volta. In altre parole: “Nessuna tagliola, vogliamo che tutti i processi arrivino in fondo”. Ma è davvero così?

Partiamo dalla questione principale: la riforma non riguarderà il processo sul Ponte Morandi. Sul Fatto è stato scritto più volte il motivo per cui questa affermazione potrebbe essere smentita: una norma che interviene su una questione “sostanziale” come la pena, può essere impugnata davanti alla Corte Costituzionale, per chiedere che abbia efficacia retroattiva (secondo il principio del favor rei: un imputato ha diritto a essere giudicato secondo la legge a lui più favorevole). In altri termini, se l’appello durasse più di due anni o il processo in Cassazione più di uno, qualunque avvocato potrebbe presentare a nome di un cliente condannato un’eccezione di costituzionalità. E sarebbe tutt’altro che infondata. Un’opinione condivisa da molti giuristi, magistrati e avvocati. È a questa platea che si rivolge la ministra quando parla di “opinioni che generano allarme e gravano di ulteriore peso chi già porta un cosi grande dolore” o solo a quei giornalisti che mettono una cosa in connessione con l’altra? Secondo argomento: le corsie preferenziali per processi di “particolare complessità”. Qui sono i costituzionalisti che hanno già lanciato avvertimenti: ogni volta che si creano binari speciali, l’incostituzionalità è dietro l’angolo. Perché reati puniti con la stessa pena, rischiano di essere giudicati con regole diverse (un esito illogico). E sui reati comunitari potrebbe essere l’Ue a censurare l’Italia per bloccarne l’improcedibilità.

Quanto alle risorse aggiuntive (i cui meriti invero andrebbero riconosciuti a Bonafede), qui la questione discutibile è accostare le 8 mila assunzioni di assistenti giudiziari alla promessa di concludere tutti i processi d’appello entro due anni, e in Cassazione entro uno: si può davvero fare senza assumere nuovi magistrati? Quanto all’idea della “task-force”, assomiglia a un rafforzamento di figure già esistenti, i magistrati in applicazione extra-distrettuale: spesso usati come “jolly”, e per questo poco specializzati, sono figure raramente risolutive, se i problemi sono strutturali (uffici che accumulano costantemente più fascicoli di quanti ne possono smaltire). La rassicurazione finale: un cuscinetto di 4 anni, dice la ministra, permetterà di valutare l’efficacia della norma e valutare eventuali modifiche. Peccato che non sia farina del suo sacco, ma il compromesso uscito dalla trattativa con Giuseppe Conte.

ILFQ


sabato 31 luglio 2021

La mafia è maggioranza. - Marco Travaglio


 










Siccome l’“informazione” ha visto un altro film, riepiloghiamo quello vero. Il Governo dei Migliori partorisce una “riforma della giustizia” che ammazza tutti i processi d’appello (stragi e omicidi esclusi) che non arrivino a sentenza entro 2 anni da quella di primo grado: “improcedibili”. Tutti i partiti tranne uno e tutti i giornali tranne uno dicono che è una meraviglia, proprio quel che ci chiede l’Europa, e chi obietta qualcosa è un giustizialista incompetente che vuole sabotare i Migliori. Tutti i magistrati che la commentano dicono che è una salva-ladri&mafiosi. La Cartabia alla Camera nega: “Nessun processo di mafia improcedibile”. I ministri M5S ottengono qualche ritocchino e la votano con gli altri, perché Draghi minaccia di dimettersi (e loro ci credono). Poi Conte diventa capo del M5S. La “riforma”, bocciata pure da Anm e Csm, approda alla Camera e Draghi mette la fiducia. Conte dice che così è invotabile. La Cartabia replica che il testo non cambia perché l’han già votato tutti. Lega, FI e Iv confermano. Il Pd pigola qualcosa. I media dicono che Conte finge: ingoierà tutto, anche perché “Draghi ha perso la pazienza” (povera stella).

Giovedì il Cdm deve votare il testo definitivo per la fiducia. Conte dice ai suoi ministri di astenersi senza il minimo sindacale della decenza: niente improcedibilità per i reati di mafia (416 bis e ter), tempi tripli per i reati ad aggravante mafiosa (416 bis.1) e doppi per tutti gli altri, decorrenza da 90 giorni dopo la prima sentenza e termini sospesi se si rinnova il dibattimento. Per 9 ore la Cartabia e i suoi parolieri Ghedini&Bongiorno sfornano finte controfferte, con dietro tutti gli altri partiti che lottano come leoni per mandare al macero i processi di mafia. Conte riceve chiamate da tutti i palazzi e dai poltronisti grillini perché cali le brache. Ma tiene duro finché ottiene ciò che chiede. La “riforma” Cartabia non esiste più, mentre resuscita la Bonafede: la prescrizione resta bloccata dal primo grado e l’improcedibilità scatterà solo nei processi-lumaca che dureranno più di 4 anni per i reati ordinari e più di 6 in quelli con aggravante mafiosa. I 2 anni della Cartabia raddoppiano per i primi e triplicano per i secondi fino al 2025 (quando si sarà votato e chi avrà vinto potrà cancellare o peggiorare la schiforma). I due Matteo e FI, che non hanno toccato palla, fingono di esultare. I giornali scrivono che hanno vinto Draghi, Cartabia, Di Maio, Giorgetti, financo la Serracchiani. La Cartabia, anziché andare a nascondersi, esulta: “Abbiamo salvato i processi di mafia” (minacciati da sé medesima, che peraltro negava alla Camera fossero a rischio). Poi chiarisce tutto il fuorionda di Draghi: “Se uno ascolta troppo gli esperti, non fa niente”. Ah ecco.

ILFQ

giovedì 29 luglio 2021

Riforma Cartabia, il nuovo emendamento del Governo salva i colletti bianchi della mafia. Cinque stelle: “Su questo non si transige”.












Nessuno stop all'improcedibilità, ma soltanto "ulteriori proroghe" a discrezione del giudice. Dall'elenco però restano fuori i reati commessi avvalendosi dell'organizzazione mafiosa o al fine di agevolarne l'attività: ad esempio l'estorsione, la corruzione, il riciclaggio, il sequestro di persona, il favoreggiamento (come quello di cui era accusato l'ex governatore della SiciliaTotò Cuffaro).

Nessuno stop all’improcedibilità, ma soltanto “ulteriori proroghe” alla durata dei processi più complessi, di non più di un anno (in Appello) e sei mesi (in Cassazione) ciascuna, per una serie di reati: quelli di associazione mafiosa e terroristica, il voto di scambio politico-mafioso, le ipotesi di violenze sessuali e l’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti. Non è incluso però l’articolo 416-bis.1 del codice penale, che prevede l’aggravante per i reati commessi avvalendosi dell’organizzazione mafiosa o al fine di agevolarne l’attività: ad esempio il tentato omicidio, l’estorsione, la corruzione, il riciclaggio, il sequestro di persona, il contrabbando, il favoreggiamento (come quello per cui è stato condannato a 7 anni di carcere l’ex governatore della Sicilia Totò Cuffaro) o il depistaggio (come quello delle indagini sulla strage di via d’Amelio, per cui si indaga a Caltanissetta).

Ecco il contenuto più importante della bozza di accordo sulla riforma del processo penale in discussione in queste ore. In sostanza si escludono dall’ampliamento dei termini i reati dei “colletti bianchi della mafia“, che restano soggetti alla ghigliottina dopo tre anni in Appello e 18 mesi in Cassazione. Ed è questo il punto decisivo, su cui sono più forti le resistenze del Movimento 5 Stelle che valuta l’astensione in Cdm. “I processi che riguardano i reati del 416-bis.1, che agevolano l’attività delle associazioni di tipo mafioso o si avvalgono dell’appartenenza alla mafia oltre al concorso esterno, non possono concludersi con un nulla di fatto. Cioè sulla mafia non si transige“, spiegano fonti grilline all’AdnKronos.

La mediazione studiata dal premier Draghi e dalla ministra Cartabia è diversa da quella aspettata e chiesta dal M5s. Nella bozza non viene ampliato il novero dei reati per cui è esclusa l’improcedibilità, che rimangono soltanto quelli puniti con l’ergastolo. Si stabilisce invece che le possibili proroghe (singole) di un anno e di sei mesi “quando il giudizio di impugnazione è particolarmente complesso“, già previste per un elenco di reati, siano estese alla generalità dei processi. E che possano essere concesse potenzialmente all’infinito nei procedimenti per associazione mafiosa, terrorismo, violenza sessuale e traffico di stupefacenti. Contro il “fine processo mai” per questi reati, secondo Repubblica, hanno insistito in particolare il Pd e Forza Italia, che già stamattina con Antonio Tajani aveva chiesto “correttivi garantisti”. Ok anche dalla Lega per bocca di Matteo Salvini Giulia Bongiorno. Accolto anche il cosiddetto “lodo Serracchiani”: per consentire al sistema di andare a regime, i processi nati dalle impugnazioni svolte fino al 31 dicembre 2024 possono durare fino a quattro anni in Appello senza bisogno di proroghe.

Un’altra novità riguarda il “Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale”, il nuovo organo consultivo del ministero già previsto dall’articolo 15-bis del testo Cartabia. In base all’emendamento, il Comitato riferirà “al ministero della Giustizia con cadenza annuale, a far data dall’entrata in vigore della presente legge, in ordine all’evoluzione dei dati sullo smaltimento dell’arretrato pendente e sui tempi di definizione dei processi”. E il ministero “assume le conseguenti iniziative (…) necessarie ad assicurare il raggiungimento degli obiettivi di ragionevole durata del processo“.

ILFQ

Delenda Cartabia. - Marco Travaglio

 

Stupirsi perché l’informazione non informa, anzi disinforma, è come meravigliarsi perché la pioggia non è asciutta. Eppure, a vedere le tv e i giornali sulla “riforma” Cartabia, c’è da rabbrividire. L’Anm, che non è un covo di terroristi ma il sindacato dei magistrati, prevede la morte di 150 mila processi in corso e chissà quanti futuri. Cafiero de Raho, che non è una testa calda ma il procuratore nazionale antimafia, dichiara in Parlamento che l’improcedibilità in appello dopo 2 anni dalla sentenza di primo grado e in Cassazione dopo 1 anno da quella d’appello “mina la sicurezza e la democrazia” perché manda impuniti “reati gravissimi di mafia, terrorismo e corruzione”; e affidare al Parlamento la scelta dei reati da perseguire o ignorare “non è conforme alla Costituzione”. Gli stessi concetti, condivisi da magistrati, giuristi e avvocati, li esprimerà oggi il Csm, che non è un covo di tupamaros ma un organo costituzionale presieduto dal capo dello Stato, se finalmente il Colle gli leverà il bavaglio. Davigo dimostra sul Fatto, sentenze Cedu alla mano, che la procedura d’infrazione, scampata grazie alla blocca-prescrizione Bonafede, ora è assicurata.

Cosa arriva ai cittadini dell’immane catastrofe che sta per abbattersi sulla giustizia, sulla sicurezza, sulla Costituzione, sul dovere dello Stato di punire i colpevoli, sul diritto delle vittime a essere risarcite e degl’innocenti a essere assolti? Nulla, se non che c’è uno “scontro” fra il cattivo Conte e i “giustizialisti” 5Stelle da una parte e i bravi e onniscienti Draghi e Cartabia dall’altra per mettere i bastoni fra le ruote ai Migliori. Sul merito, non una sillaba. Sulle decine di migliaia di processi di mafia, corruzione, stupro, rapina, frode fiscale, giù giù fino ai reati minori (un saluto affettuoso alla legge Zan) al macero, tutti zitti. Dove sono i grandi costituzionalisti che si stracciavano le vesti nel 2009, quando B. tentò la stessa porcata (un po’ meno porca) col “processo breve”? Spariti. Dove sono i Saviano e gl’intellettuali antimafia e anticamorra da parata e da anniversario? Estinti. Nessuno si prende neppure la briga di smentire De Raho, Davigo, l’Anm, il Csm. L’unica cosa che conta è non disturbare il governo, che peraltro nessuno disturba. A questo punto è inutile avvitarsi in mediazioni al ribasso, come se evitare di incenerire 150 mila processi non fosse un dovere di Draghi & Cartabia, ma una gentile concessione a Conte (e naturalmente al Fatto). Molto meglio lasciar passare la porcata così com’è. Chi la vuole vota sì, chi non la vuole vota no. Ciascuno si assume le proprie responsabilità. Poi, ai primi mafiosi, stupratori e rapinatori improcedibili cioè impuniti, le vittime sapranno chi andare a ringraziare. E anche i lettori e gli elettori.

ILFQ


mercoledì 28 luglio 2021

Con la riforma Cartabia rischiano di andare in fumo anche i processi per reati commessi prima del 2020. Il precedente della Consulta (e la ministra era giudice). - Paolo Frosina

 

L'improcedibilità della nuova norma rischia di essere considerata retroattiva al primo ricorso delle difese che si appelleranno al favor rei. Almeno a leggere una sentenza della corte Costituzionale del 2019 (quando ne faceva parte pure la Guardasigilli), che cita a sua volta un'altra pronuncia del 2006.  Pasquale Bronzo, docente di Procedura penale alla Sapienza: "Qualsiasi avvocato solleverà la questione".

La riforma Cartabia non renderà impunibili solo i reati commessi dopo il 1° gennaio 2020, ma molto probabilmente anche quelli precedenti. Tra cui il crollo del ponte Morandi, il disastro di Rigopiano, la trattativa Stato-mafia. Lo dicono avvocati, accademici e persino la Corte costituzionale, che ha sempre espresso un principio chiaro: le norme penali più favorevoli si applicano retroattivamente ai processi in corso, e la legge non può – come fa il testo del Governo – limitarne l’applicazione nel tempo senza una valida ragione. “Dal punto di vista costituzionale, quella norma è piuttosto pericolante“, conferma al fattoquotidiano.it Pasquale Bronzo, docente di procedura penale alla Sapienza di Roma. E la Guardasigilli lo sa benissimo. L’ultima sentenza a esplicitare il principio, infatti, è la 63 del 2019: il presidente della Consulta è Giorgio Lattanzi, proprio l’ex magistrato voluto da Cartabia a capo della commissione di studio del progetto di riforma. Il relatore è il penalista Francesco Viganò. E tra i nove giudici del collegio c’è lei, la studiosa di diritto costituzionale ora ministra della Giustizia. La regola fondamentale da cui parte il ragionamento è quella dell’articolo 2, quarto comma del codice penale, il principio di retroattività della legge penale più favorevole: “Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile”.

Ma il valore di questo principio, spiega la Corte, non è quello di una semplice norma di legge ordinaria. “La regola dell’applicazione retroattiva della lex mitior (la legge meno severa, ndr) in materia penale”, si legge, “non è sprovvista di fondamento costituzionale: fondamento che la costante giurisprudenza di questa Corte ravvisa anzitutto nel principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis (la depenalizzazione, ndr) o la modifica mitigatrice”. Quindi: l’imputato sotto processo ha il diritto di godere della norma più favorevole, anche se non era in vigore nel momento in cui ha commesso il reato. E a dirlo non è solo la Costituzione ma il diritto internazionale ed europeo: la retroattività, ricordano i giudici, “è in particolare enunciata tanto dall’art. 15, comma 1, terzo periodo, del Patto internazionale sui diritti civili e politici (…) quanto dall’art. 49, paragrafo 1, terzo periodo, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”.

È per questo che nel 2006 un’altra pronuncia della Consulta – citata da Lattanzi, Cartabia e gli altri – ha dichiarato incostituzionale una norma molto simile a quella con cui la Cartabia esclude dai propri effetti i reati commessi prima del 2020. Era l’articolo 10, comma 3 della legge ex-Cirielli – la famosa “accorcia-prescrizione” voluta dal secondo governo Berlusconi – che proibiva di applicare la prescrizione più breve ai processi in cui fosse già stato aperto il dibattimento di primo grado. La regola, concludeva la sentenza, “limita in modo non ragionevole il principio della retroattività della legge penale più mite e viola l’art. 3 della Costituzione”: quel principio infatti “può essere sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo“, e in quel caso, secondo la Corte, non ce n’erano. Cosa succederebbe se, all’entrata in vigore della riforma Cartabia, gli imputati per reati anteriori al 2020 chiedessero l’applicazione retroattiva delle nuove norme, come hanno già annunciato alcuni legali nel processo per il crollo del Morandi? Non c’è motivo di pensare che la decisione dovrebbe essere diversa.

O meglio, in teoria c’è: perché la norma transitoria nel ddl Cartabia è definita come una regola processuale, che non rientra nel principio enunciato dal codice penale. Ma l’opinione più diffusa tra gli addetti ai lavori è che invece – di fatto – sia una norma sostanziale, perché incide direttamente sulla punibilità. È semplice: se il processo muore dopo due anni in Appello, l’imputato non può più essere condannato. Nè più nè meno che se il reato fosse prescritto. Per questo il professor Bronzo, uno dei più stretti collaboratori di Lattanzi, definisce la previsione “pericolante” e immagina già le conseguenze. “L’efficacia retroattiva si può sicuramente ipotizzare. Impedire la retroattività dando una veste processuale alla norma è l’ambizione di chi ha scritto il testo: se si applicano gli ultimi criteri dettati dalla Corte europea, l’improcedibilità si può definire una norma a effetti sostanziali. Qualsiasi avvocato diligente solleverà la questione, anche soltanto ponendo una questione di eguaglianza: possiamo dare per scontato che il tema arriverà di fronte alla Corte costituzionale“. Una pioggia di ricorsi, che, quella sì, di certo non velocizzerà i processi.

ILFQ

venerdì 23 luglio 2021

Io so che tu sai che non so. - Marco Travaglio

 

Il dibattito se i 5Stelle debbano restare al governo o uscirne è surreale, perché ci sono entrati con l’impegno a “non andare oltre” l’“accordo raggiunto con Pd e LeU” sulla blocca-prescrizione di Bonafede. Quindi, prima di andare oltre, devono chiedere agli iscritti che senso abbia restare in un governo che non va solo oltre, ma proprio agli antipodi. In ogni caso, in un Paese serio, il problema nemmeno si porrebbe perché dal governo sarebbe già uscita la ministra Cartabia. Da due giorni scriviamo che è una bugiarda, perché chiunque sa di giustizia (pm, giudici, avvocati, Dna, Csm) non fa che smentire le sue menzogne al Paese e financo al Parlamento. Ma forse, così, le facciamo un favore, presupponendo che sappia di cosa sta parlando ed escludendo che non ne abbia la più pallida idea. Ipotesi molto concreta, a leggere il Salvaladri&mafiosi e le parole usate per giustificarlo: “Si è detto che i processi per mafia e terrorismo andranno in fumo, ma non è così, perché per i reati puniti con l’ergastolo si esclude l’improcedibilità”.

Una frase agghiacciante già in sé: le vittime di tutti i reati che non siano l’omicidio apprendono che la ministra della Giustizia trova normale mandare i loro processi “in fumo”. Ma soprattutto una menzogna: la stragrande maggioranza dei processi di mafia e terrorismo non contemplano omicidi (puniti con l’ergastolo) e la ministra della Giustizia trova normale mandarli “in fumo”. La pena massima per associazione mafiosa e terroristica è 30 anni: se dalla sentenza di primo grado a quella d’appello passano 3 anni e un giorno, il processo muore stecchito. Quello per la trattativa Stato-mafia (minaccia a corpo politico) dura da oltre 3 anni: con la Cartabia, sarebbe già improcedibile (e non è escluso che lo diventi, se gli avvocati riusciranno a ottenere l’applicazione retroattiva, visti gli effetti penali sostanziali che comporta). Quelli ai forzisti D’Alì e Cosentino, condannati l’altroieri a 6 e a 10 anni in appello per concorso esterno, duravano da 6 e da 5 anni: con la Cartabia sarebbero finiti in fumo. Che queste cose la Guardasigilli le sappia o le ignori, poco cambia. Basterebbe un governo non dei migliori, ma dei discreti, per accompagnarla ipso facto alla porta. A prescindere. Se manda consapevolmente al macero decine di migliaia di processi perché sa quel che fa e poi mente sapendo di mentire, se ne deve andare per palese malafede. Se manda inconsapevolmente al macero decine di migliaia di processi perché non sa quel che fa (ma lo sa chi le scrive le leggi) e poi mente a sua insaputa, se ne deve andare per palese incompetenza. La nota giurista (per mancanza di prove) prestata alla politica va immediatamente restituita, prima che faccia altri danni.

ILFQ

Chi molla su Bonafede è complice. - Gaetano Pedullà

 

Andate avanti voi che a me vien da ridere. Dopo aver sentito montagne di fesserie dai giuristi à la carte innamorati della riforma Cartabia, ecco che arrivano le condanne d’Appello agli ex sottosegretari berlusconiani Cosentino e D’Alì (leggi l’articolo), il primo a dieci anni e il secondo a sei, entrambi per concorso esterno in associazione mafiosa.

Ai fini costituzionalisti in trincea per abbattere la legge Bonafede, dev’essere sfuggito che per Cosentino il processo di secondo grado è durato quasi 4 anni e 8 mesi, mentre per D’Alì ci sono voluti 3 anni e mezzo. Se fosse in vigore la norma che vuol propinarci la guardasigilli, i due ex parlamentari sarebbero da tempo liberi come l’aria, in quanto dopo due anni senza sentenza in Appello, e appena uno in Cassazione, scatterebbe l’improcedibilità. Dunque liberi tutti.

Questa situazione, non proprio un sorpresa per chi segue i fatti giudiziari, è denunciata da poche voci intellettualmente libere, con gli ultimi casi (leggi l’articolo) del Procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho e del capo della Procura di Catanzaro, Gratteri. Parole nette, di fronte alle quali la stessa Cartabia non ha fatto un plissé, continuando a raccontarci la favoletta che la sua riforma non fa sconti a nessuno (leggi l’articolo), anche se casualmente i soliti noti della vecchia politica e degli affari stanno facendo di tutto per farla passare.

Dunque, impedire quello che è un condono per migliaia di reati non è una battaglia ideologica, ma una scelta di campo tra chi sente il valore morale di una Giustizia giusta, e chi di valori ne preferisce altri, come quelli che possono sganciare gli impuniti.

LaNotizia

lunedì 19 luglio 2021

Giustizia, Conte fa asse con Letta. Se Draghi insiste, parola alla base. - Paola Zanca

 

L’incontro. L’ex premier spiegherà “da giurista” i nodi tecnici In caso di fiducia, decideranno gruppi parlamentari e iscritti.

Alle 11, a palazzo Chigi, più che da leader di partito ha intenzione di presentarsi come giurista. Per convincere “dal punto di vista tecnico” e non “identitario” che la riforma Cartabia, così com’è, non regge. Nel faccia a faccia con Mario Draghi in programma per questa mattina, insomma, Giuseppe Conte insisterà soprattutto sulla questione dell’improcedibilità – le nuove norme prevedono che, se entro due anni l’appello non si chiude, il processo salta, ndr – che poi è l’aspetto su cui si stanno concentrando le principali critiche dei magistrati italiani. A cominciare da quelle del loro presidente, Giuseppe Santalucia, che in audizione alla Camera, tre giorni fa è arrivato a definire la nuova prescrizione uno “strumento eliminatorio dei processi”, al punto che – secondo i calcoli dell’Anm – la riforma farebbe andare al macero 150 mila procedimenti in corso.

Sono state proprio le audizioni dei magistrati ad aver convinto anche il Pd a far arrivare a Draghi tutte le perplessità che la riforma lascia senza risposta. Non è un caso che ieri, il segretario dem Enrico Letta, su Repubblica abbia aperto a degli “aggiustamenti” e abbia sottolineato come sia un “dovere” del Parlamento intervenire per migliorare il pacchetto di misure votato dal governo.

L’irritazione per i tempi strettissimi con cui la Camera è chiamata ad esaminare il provvedimento (che dovrebbe andare in Aula già questa settimana) è ormai diffusa e i 5 Stelle, a questo punto, sperano di poter fare asse con Pd e Leu per riportare Draghi a più miti consigli: “Si troveranno le giuste soluzioni”, ha ribadito ieri sera Letta alla festa dell’Unità di Roma.

Non sarà esattamente una passeggiata, visto che il premier, sul tema, è piuttosto intransigente. “Prendere o lasciare”, aveva già detto ai ministri grillini che ventilavano l’astensione in Cdm, salvo poi decidersi a votare sì dopo i “consigli” di Beppe Grillo. Ma ora Conte ha deciso di ufficializzare proprio sulla questione della giustizia la fine della “diarchia” interna al Movimento. Lui la riforma così non la vota, ripete ai suoi. E conta di far leva sui risvolti tecnici della faccenda, ovvero sui suoi trascorsi professionali, per rompere le rigidità del premier: “Io sono consapevole che siamo in una nuova maggioranza e che non possiamo essere ideologici e arroccarci sulla difesa della legge Bonafede – ragiona l’avvocato –. Ma l’importante è che si trovi un modo, e si può trovare, per evitare che i processi vadano in fumo”. Porterà le sue proposte, Conte. E se Draghi dovesse tirare dritto e magari decidere di mettere la fiducia sul provvedimento, sarà lui a prendersi la responsabilità di questo gesto, è il senso delle riflessioni che l’ex premier sta facendo in queste ore. Conte ripete ai suoi – a cominciare dai ministri – che non ha intenzione di far cadere il governo, anche perché gli serve tempo per ricostruire il Movimento provato dalle lunghissime fibrillazioni interne. Ma vuole (e deve) ottenere qualcosa dal confronto con Draghi. Altrimenti, interpellerà i gruppi parlamentari e la base del Movimento. Cioè gli iscritti, che cinque mesi fa votarono in maggioranza Sì all’ingresso nel governo, ponendo tre condizioni “imprescindibili”: il “Superministero della Transizione ecologica”, la difesa del reddito di cittadinanza e l’indisponibilità a cambiare la riforma della prescrizione così com’era stata concordata dai giallorosa (quella nata dall’”accordo precedentemente raggiunto con Pd e LeU, oltre il quale il M5S non è disposto ad andare”). A Draghi, stamattina, Conte proverà a spiegare che – col senno di poi – la corda si è già tirata parecchio.

ILFQ

venerdì 16 luglio 2021

Marta, jolly di Formigoni la domenica al Santuario. - Gianni Barbacetto

 

Milano

Per trovare un articolo davvero interessante su Marta Cartabia, ministro della Giustizia, si deve andare a cercare con pazienza su TuttoBiciWeb, il “sito di riferimento del ciclismo italiano”. Qui, Alessandro Brambilla racconta con penna vivace una domenica del 1992. Era il 22 marzo di quell’anno quando la futura giurista partecipa, con un ruolo importante, alla “giornata speciale per il Santuario di Santa Maria alla Fontana e per il quartiere Isola di Milano”. Scrive Brambilla: “I piazzali e giardini del Santuario ospitano una speciale cronostaffetta benefica a coppie su mountain bike. Ogni coppia è composta da un corridore professionista e da un calciatore o disc-jockey o vip. A organizzare sono i giovani di Comunione e liberazione fortemente aiutati dall’onorevole Roberto Formigoni e dal suo segretario particolare Sergio Maggioni. Il duo Formigoni-Maggioni incarica il sottoscritto”, spiega Brambilla, “a condurre l’evento che prevede anche esibizioni musicali, interventi di autorità religiose e politiche. È una manifestazione organizzata in grande stile” – e qui il tono slitta un po’ verso l’agenzia Stefani – “nella domenica post Milano-Sanremo e con il Campionato di Serie A in pausa per impegni della Nazionale. Per l’occasione è presente la troupe Rai Tv con il grande Adriano De Zan pronto a realizzare il servizio; molti sono i ciclisti professionisti invitati a gareggiare, da Stefano Allocchio e da Vitaliano Zini, proprietario del vicino ristorante Il Tronco, e dallo staff Amore & Vita di patron Ivano Fanini”. Un non esperto comincia a perdersi tra i nomi dei vip, da Claudio Chiappucci a Beppe Bergomi, dal dj Ringo al velocista Alessio Di Basco.

“Presentare corridori, calciatori e disc-jockey per me è un invito a nozze, tuttavia data la tipologia dell’evento benefico, il repertorio seppur senza debordare va arricchito con note sociali, e naturalmente ci sono dirigenti da presentare che nulla hanno a che vedere con bici e pallone. Per garantirmi e agevolarmi il lavoro, gli organizzatori mi affidano a Marta, una bella ragazza dai capelli castani, gentile e raffinata”. Chi è? “Marta, mi precisano, è laureata in giurisprudenza”. È “una delle giovani responsabili dell’organizzazione e naturalmente rimane sul palco con l’onorevole Formigoni e altri dirigenti. Lei si dimostra immediatamente efficace. Oltre a rappresentare molto bene il comitato promotore nelle pubbliche relazioni, la ragazza è un jolly capace di occuparsi un po’ di tutto: si presta anche a fare la spola tra la mia postazione e i cronometristi, portandomi classifiche aggiornate e varie comunicazioni, compresi nominativi di starter, di chi deve consegnare i premi ai concorrenti e altre note organizzative”.

Un jolly. La gara benefica del Santuario “registra un notevole successo”. E “a fine evento Marta è molto soddisfatta, quanto me. Ci salutiamo con affetto, la ringrazio per la sua preziosa collaborazione e lei nel salutarmi mi porge il suo biglietto: Dottoressa Marta Cartabia”. Jolly di Formigoni e futuro ministro di Mario Draghi.

ILFQ