venerdì 24 settembre 2021

Approvato il decreto per il taglio delle bollette di luce e gas.

 

La bozza, 450 milioni per rafforzare il bonus sociale.


Il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al decreto per il taglio delle bollette di luce e gas. Lo si apprende da fonti di governo. Arrivano 450 milioni per rafforzare il bonus sociale sulle bollette destinato alle famiglie in difficoltà economica e con malati gravi.

Lo prevede la bozza del decreto.

Le nuove misure del decreto sulle bollette intervengono a vantaggio degli oltre 3 milioni di persone che beneficiano del "bonus energia". Lo rende noto Palazzo Chigi al termine del Cdm. Si tratta, viene spiegato, di nuclei che hanno un Isee inferiore a 8.265 euro annui, nuclei familiari numerosi (Isee 20.000 euro annui con almeno 4 figli), percettori di reddito o pensione di cittadinanza, utenti in gravi condizioni di salute. "Per costoro - si sottolinea - sono tendenzialmente azzerati gli effetti del futuro aumento della bolletta".

Per il trimestre ottobre-dicembre - si legge - "le agevolazioni relative alle tariffe elettriche riconosciute ai clienti domestici economicamente svantaggiati ed ai clienti domestici in gravi condizioni di salute e la compensazione per la fornitura di gas naturale sono rideterminate dall'Autorità per energia al fine di minimizzare gli incrementi della spesa per la fornitura, previsti per il quarto trimestre 2021, fino a concorrenza di 450 milioni".

In arrivo poco meno di due miliardi e mezzo per tagliare i costi fissi e tamponare così gli aumenti delle bollette di luce e gas: lo prevede la bozza del decreto taglia-bollette esaminata dal Consiglio dei ministri. Nel dettaglio si tratta di 2 miliardi per eliminare gli oneri generali di sistema nel settore elettrico e di 480 milioni per ridurre gli oneri generali sulla bolletta del gas. Gli oneri di sistema sulla bolletta della luce saranno compensati per 700 milioni con il ricavato delle aste di CO2 e con il trasferimento di 1,3 miliardi alla Cassa per i servizi energetici e ambientali.

ANSA

Dpcm, crolla un’altra balla contro Conte: che ne dirà Cassese? - Peter Gomez

 

Mes, Reddito di cittadinanza, Dpcm: otto mesi dopo la nascita del governo Draghi, l’osservatore onesto dovrebbe ammettere che nel 2020, durante la prima fase della pandemia, i giornali, i commentatori e i politici si sono resi protagonisti solo di dibattiti privi di senso. O meglio di dibattiti che, come spesso accade in Italia, non scaturivano dalla logica o dall’ideologia (sempre legittima in democrazia), ma solo dalla necessità di dire l’esatto contrario rispetto all’avversario del momento. In quel caso, l’esecutivo Conte-2.

Ad archiviare le richieste di fare altro debito (il Mes) per finanziare una sanità il cui problema non era l’assenza di fondi, subito stanziati, ma semmai l’incapacità di spenderli, è stato Mario Draghi, un uomo a cui si può dire di tutto tranne che non capisca di finanza e di bilanci. E sempre Draghi si è poi ritrovato ad affermare un’altra ovvietà che ha placato i media e buona parte della politica: in un Paese civile, i soldi ai poveri vanno dati. Ora è il turno della Corte costituzionale. Ieri la Consulta ha posto fine a un’altra discussione utile solo per esacerbare gli animi degli italiani, già messi a dura prova dalla pandemia: quella sui famigerati Dpcm.

I decreti della Presidenza del Consiglio dei ministri, emanati d’urgenza da Palazzo Chigi per fronteggiare il repentino evolversi della situazione sanitaria, non erano uno “scandalo incostituzionale” come sosteneva Matteo Renzi e non erano nemmeno “un golpe giuridico” come affermava la Lega. Erano semplicemente quello che sono sempre stati i decreti ministeriali: degli atti amministrativi utili per attuare ciò che è stato stabilito tramite una legge o un decreto legge.

La decisione della Corte, nella sua ovvietà, servirà dunque a spegnere le residue polemiche (che tra l’altro, a dimostrazione di quanto fossero strumentali, si erano già ridotte non appena nella scorsa primavera l’esecutivo Draghi ne aveva adottato uno). Noi, però, da inguaribili ottimisti, speriamo che la sentenza faccia di più. Che spinga tv e giornali a smettere di trattare il giurista Sabino Cassese come una sorta di oracolo di Delfi. Perché ascoltare l’opinione di Cassese va bene, visto che si tratta di un giudice emerito della Consulta. Trasformarlo nell’unico depositario della verità no. Se non altro perché, all’epoca delle polemiche più dure, presidenti emeriti della Consulta come Gustavo Zagrebelsky la pensavano in maniera diametralmente opposta alla sua. Così, se Cassese affermava sicuro “Prima o poi anche la Consulta boccerà le misure anti-Covid del governo Conte (…) allora si riconoscerà che i Dpcm sono illegali”, si faceva la ola in mezzo Parlamento e su buona parte della stampa. Ma se Zagrebelsky ribatteva “il governo non ha usurpato poteri che non gli fossero stati concessi dal Parlamento”, poco mancava che venisse trattato da vecchio rincoglionito.

Certo, lo sappiamo. In democrazia si sceglie anche in base alla simpatia o all’antipatia, si vota pensando ai propri interessi o per semplice tifo. Oggi che al governo ci sono dentro tutti e che sopratutto a palazzo Chigi siede un premier invocato per mesi e mesi da editori, banche e industriali in pochi notano come si proceda a ritmi record di decreti legge e voti di fiducia. Ma sebbene ci venga un po’ da sorridere pensando alla maggioranza bulgara di cui dispone il nuovo premier, non ci sogneremmo mai di gridare alla “deriva autoritaria” come faceva fino allo scorso anno Forza Italia. Perché finché un esecutivo ha i voti e rispetta la costituzione quello che fa, anche se non piace, non si chiama golpe, ma governare.

ILFQ

La Legge del Dipende. - Marco Travaglio

 

Per la serie “La sai l’ultima?”, la sentenza d’appello sulla trattativa Stato-mafia conferma integralmente i fatti, ma condanna solo la mafia e assolve lo Stato. E così afferma un principio che sarebbe perfetto per l’avanspettacolo, un po’ meno per il diritto penale: trattare con lo Stato è reato, trattare con la mafia non è reato. Sarà avvincente, fra tre mesi, leggere le motivazioni della Corte d’assise d’appello di Palermo. Ma lo sarebbe ancor più poter assistere alla loro stesura, cioè vedere i giudici che mettono nero su bianco questa trattativa asimmetrica con la Legge del Dipende: è reato solo per i mafiosi da un lato del tavolo e non per i carabinieri e i politici dall’altro: più che una trattativa, una commedia (anzi una tragedia) degli equivoci.

Ricapitoliamo. Il boss Bagarella – a cui a questo punto va tutta la nostra solidarietà – si becca 27 anni di galera per aver minacciato a suon di bombe (insieme a Riina e Provenzano, prematuramente scomparsi) i governi Amato e Ciampi nel 1992-’93 e per aver tentato di minacciare pure il governo Berlusconi nel ’94. Il medico mafioso Cinà – a cui a questo punto va la nostra solidarietà – si becca 12 anni per il suo ruolo di tramite e postino dei pizzini e dei papelli che si scambiavano Vito Ciancimino, imbeccato dai carabinieri del Ros Subranni, Mori e De Donno, e il duo Riina-Provenzano. Ma i carabinieri del Ros Subranni, Mori e De Donno, che dopo l’assassinio di Salvo Lima (marzo ’92) e soprattutto dopo Capaci (maggio ’92) commissionarono al mafioso Ciancimino la trattativa con Cosa Nostra per salvare la pelle a politici collusi che rischiavano la pelle per non aver mantenuto gli impegni sull’insabbiamento del maxiprocesso, vengono assolti perché “il fatto non costituisce reato”. Quindi il fatto – cioè non tanto la trattativa, quanto la sottostante “minaccia a corpo politico dello Stato” attivata a suon di stragi da Cosa Nostra e veicolata ai governi Amato e Ciampi dal trio del Ros – sussiste eccome: però, quando trasmettevano le minacce mafiose per mettere in ginocchio i governi con l’unico effetto di rafforzare Cosa Nostra e di scatenare altre stragi, a partire da quella di via D’Amelio, i tre ufficiali dei carabinieri non commettevano reato. Perché? Lo scopriremo dalle motivazioni. Probabilmente mancava il “dolo”, l’intenzionalità. Lo facevano a loro insaputa? Pensavano di agire a fin di bene? Erano sovrappensiero? Non capivano niente? Sia come sia, la lotta alla mafia era in buone mani. Parliamo dello stesso Ros che nel ’92 non perquisì il covo di Riina, lasciandolo setacciare ai mafiosi favorendo Cosa Nostra, ma furono assolti perché mancava il dolo. Nel ’93 non arrestarono Nitto Santapaola a Terme di Vigliatore (Messina). E nel ’95 non catturarono Provenzano, che il pentito Ilardo gli aveva consegnato in un casolare di Mezzojuso, favorendo Cosa Nostra, ma furono assolti perché mancava il dolo. Dei fulmini di guerra.
Nel ’94 lo scenario cambia: Cosa Nostra sospende l’ultima strage, quella fallita il 23 gennaio allo stadio Olimpico di Roma, e tre giorni dopo B. annuncia la sua discesa in campo. Poi vince le elezioni grazie anche ai voti di mafia e ’ndrangheta. Bagarella e Brusca (colpevole anche lui, ma prescritto) mandano Vittorio Mangano a trovare il suo vecchio capo Marcello Dell’Utri nella sua villa di Como per ricordargli ciò che deve fare il governo dell’amico Silvio. Che infatti il 13 luglio infila tre norme pro mafia nel decreto Biondi. Anche questo episodio sembra confermato dal dispositivo della sentenza: infatti Bagarella e Brusca sono ritenuti colpevoli anche di quella minaccia al governo B.. Una minaccia, però, non più consumata (altrimenti verrebbe ricondannato anche Dell’Utri), ma soltanto “tentata”. Così anche Dell’Utri può essere assolto “per non aver commesso il fatto”: cioè per non aver trasmesso a B. la minaccia di Bagarella&C. portata da Mangano. Evidentemente la Corte non ritiene sufficienti le prove che B. fosse stato avvertito dal suo compare. Si sa che Marcello a Silvio nasconde sempre tutto. Mangano lo avvisa che, senza leggi pro mafia, le stragi ricominciano, e cosa fa? Si tiene tutto per sé e non dice niente al suo capo e amico, mettendone a rischio la pelle. Fortuna che Silvio, ignaro di tutto, si precipita ugualmente a varare tre norme pro mafia. Si pensava che fosse sotto minaccia e agisse per paura. Ora invece scopriamo che lo fece per piacer suo: una passione personale, un afflato spontaneo, una sintonia istintiva con Cosa Nostra. Un viatico in più per il Quirinale.
In attesa di leggere le motivazioni, torna alla mente lo sfogo di Riina con un agente della penitenziaria nel 2013: “Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me”. Per una volta nella vita, diceva la verità: fu lo Stato, tramite il Ros, ad avviare la trattativa. E anche questa sentenza lo conferma. Tutti i negazionisti vengono sbugiardati: le parole di Massimo Ciancimino, Brusca e decine di pentiti sono confermate. I veri bugiardi sono le centinaia di uomini dello Stato che prima hanno taciuto e poi negato tutto: a saperlo prima che la trattativa Stato-mafia è reato solo per la mafia, avrebbero confessato anche loro con un bell’“embè?”. Bastava aver letto Sciascia: “Lo Stato non può processare se stesso”. E, quando gli scappa di processarsi, presto o tardi si assolve.

ILFQ

Per la Trattativa condannati solo i mafiosi, assolti Dell’Utri e i carabinieri: ecco perché (in attesa delle motivazioni dell’Appello). - Giuseppe Pipitone

 

Come mai i giudici del processo di secondo grado sono arrivati a decisioni così nettamente diverse da quelle del primo? Per ogni valutazione, ovviamente, occorrerà aspettare di leggere le motivazioni. Dal dispositivo della sentenza, però, emergono già tre fatti che aiutano a comprendere quale percorso ha fatto la corte per arrivare a cancellare gran parte delle condanne.

Alla fine è rimasta una trattativa mafia-mafia. È con una battuta che un investigatore commenta la sentenza del processo di secondo grado, uscendo dal bunker del carcere Pagliarelli di Palermo. Sono circa le 17 e 30 quando il presidente della corte d’Assise d’Appello, Angelo Pellino, seguito dal giudice a latere, Vittorio Anania, e dai sei popolari, compare nell’aula del penitenziario siciliano. Poco più di due minuti e mezzo per leggere il dispositivo della sentenza che nei fatti cancella gran parte delle condanne del primo grado. Gli ex alti ufficiali del Ros Mario MoriAntonio Subranni e Giuseppe De Donno assolti dall’accusa di violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato perché il fatto non costituisce reato. L’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri assolto per non aver commesso il fatto. Confermata parzialmente la condanna per il boss Leoluca Bagarella, che grazie a una riqualificazione ottiene uno piccolo sconto di dodici mesi sulla pena, abbassata a 27 anni. L’unica condanna confermata in toto, 12 anni di carcere, è quella per Antonino Cinà, medico di Totò Riina. Una decisione quest’ultima che, come vedremo, aiuta a intuire quale possa essere il senso delle decisioni dei giudici.

I tre elementi del dispositivo (in attesa delle motivazioni) – Per la corte d’Assise di Palermo, dunque, i colpevoli del processo sulla cosiddetta Trattativa tra esponenti dello Stato e boss mafiosi sono solo questi ultimi. O meglio quelli rimasti in vita: i vertici di Cosa nostra, Totò Riina e Bernardo Provenzano, sono morti durante il processo di primo grado, mentre per Giovanni Brusca è stata confermata la prescrizione del reato. Unici condannati, dunque, sono Bagarella e Cinà mentre incassano l’assoluzione – seppur con formule diverse – i carabinieri e l’unico politico rimasto a processo, cioè Dell’Utri. In primo grado avevano preso condanne pesanti: 12 anni all’ex senatore di Forza Italia, a Mori e a Subranni, otto per De Donno. Come mai dunque i giudici del processo di secondo grado sono arrivati a decisioni così nettamente diverse da quelle del primo? Per ogni valutazione, ovviamente, occorrerà aspettare di leggere le motivazioni, che saranno depositate tra tre mesi. Dal dispositivo della sentenza, però, emergono già tre fatti che aiutano a comprendere quale ricostruzione ha fatto la corte per arrivare a cancellare le condanne emesse il 20 aprile del 2018.

“Il fatto non costituisce reato”: dunque è stato commesso – La prima cosa da tenere a mente è che gli imputati erano accusati del reato disciplinato dall’articolo 338 del codice di penale: violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. Per la pubblica accusa, dunque, erano tutti colpevoli di aver trasmesso ai governi in carica tra il 1992 e il 1994 le minacce provenienti dai vertici Cosa nostra: altre bombe e altre stragi se lo Stato non avesse messo un freno alla lotta alla mafia. E quindi, secondo la sentenza di primo grado, i mafiosi Bagarella e Cinà e i carabinieri Mori, De Donno e Subranni recapitarono il ricatto mafioso ai governi di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi; il medesimo Bagarella e Dell’Utri invece trasmisero le richieste al primo esecutivo di Silvio Berlusconi. Scegliendo due formule diverse di assoluzione, dunque, la corte d’Assise d’Appello considera diversi i due segmenti del processo. Assolvere i carabinieri “perchè il fatto non costituisce reato“, vuol dire che il fatto c’è, è stato commesso ma evidentemente senza dolo, neanche eventuale: non c’era insomma né volontà e neanche consapevolezza di potere infrangere la legge. Per la corte Mori, Subranni e De Donno aprirono effettivamente un canale di comunicazione con Cosa nostra ma l’obiettivo non era agevolare la mafia o far piegare le istituzioni al volere dei boss.

Il giudicato su Mannino e le parole di Firenze – È possibile che su questa scelta abbia influito la sentenza su Calogero Mannino: secondo l’originaria tesi dell’accusa l’ex ministro della Dc è l’uomo che chiede ai carabinieri di aprire la trattativa, perché intimorito dalle minacce ricevute proprio da Cosa nostra. Mannino, però, ha scelto di farsi processare con l’abbreviato ed è stato assolto in via definitiva: per i giudici non chiese di trattare con Cosa nostra ma continuò addirittura a combatterla. Quando invece all’operato dei carabinieri, per il giudici del rito abbreviato si trattava solo di una “operazione info-investigativa di polizia giudiziaria”. Una tesi che l’assoluzione con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, adottata dalla corte d’Assise d’Appello, potrebbe avvalorare. Bisognerà aspettare le motivazioni per capirlo. Un’altra ipotesi può essere legata al fatto che essendo i carabinieri esponenti dello Stato non potevano trasmettere una minaccia allo stesso corpo istituzionale di cui fanno parte: in pratica – sembra essere il ragionamento dei giudici – se comunicarono le richieste di Riina alla politica fu solo per cercare di mettere un freno alla violenza di Cosa nostra, non per limitare l’azione dello Stato nella repressione dei boss. D’altra parte i primi a parlare di trattativa furono proprio Mori e De Donno al processo di Firenze sulle stragi del 1993: riferendosi ai mafiosi, il generale spiega di essersi chiesto “non si può parlare con questa gente?”. È a quel punto De Donno aggancia Vito Ciancimino: ecco un altro motivo che potrebbe spiegare perché i giudici della corte d’Assise d’Appello li hanno assolti con la formula del fatto che non costituisce reato, dichiarando però implicitamente che il medesimo fatto è stato commesso.

Cosa vuol dire la condanna di Cinà – D’altra parte che le condotte dei militari ci siano state, seppur senza alcun tipo di dolo, lo dimostra la conferma della condanna di Cinà. Il medico di Riina è accusato di aver fatto da postino al papello, cioè il foglio di carta con le richieste avanzate dal capo dei capi per far cessare le stragi. Quel pezzo di carta era destinato a Massimo Ciancimino, che lo avrebbe passato al padre Vito e da quest’ultimo sarebbe poi stato consegnato ai carabinieri. Quella di Cinà è l’unica condanna confermata integralmente dalla corte d’Assise d’Appello: vuol dire che in questo caso per i giudici il reato di violenza o minaccia a un corpo dello Stato si è consumato in modo totale. Cosa che evidentemente non hanno ravvisato per i carabinieri.

Il caso Bagarella e la minaccia solo tentata a B. – Ancora diverso è il caso di Bagarella, per il quale la condanna relativa ai fatti del 1992 e 1993 è stata confermata. Nel 1994, invece, secondo la corte il ricatto al governo Berlusconi non si è consumato: ecco perché ha modificato il reato di minaccia ad un Corpo politico dello Stato in una tentata minaccia. Ne deriva che questa parte del reato contestato a Bagarella si è già prescritta, per questo motivo la condanna del boss mafioso è stata abbassata di un anno. Vuol dire che per i giudici non c’è la prova che il messagio intimidatorio sia arrivato a Palazzo Chigi, o comunque che il governo in carica l’abbia recepito, reagendo di conseguenza. Qui sarà molto interessante leggere in che modo la corte motiverà questa decisione. Nelle 5252 pagine che la corte d’Assise aveva utilizzato per spiegare i motivi delle condanne di primo grado si considerava provata che la reazione del primo governo Berlusconi alle minacce mafiose si era concretizzata con l’inserimento di una norma nel decreto Biondi, meglio noto come “salvaladri“. Era una modifica minima e molto tecnica, di cui all’epoca non si accorsero né i giornali e neanche i ministri competenti, che aveva come obiettivo quello di alleggerire la custodia cautelare per i mafiosi. Nello stesso decreto c’era un’altra modifica che obbligava i pm a svelare le indagini per mafia dopo tre mesi, di fatto vanificandole. Di queste modifiche, sempre secondo la sentenza di primo grado, Dell’Utri informò in “anteprima” Vittorio Mangano, che la riferì a sua volta ad altri mafiosi.

L’assoluzione di Dell’Utri – Evidentemente a questa ricostruzione la corte d’Assise di Appello non crede, visto che ha assolto lo stesso Dell’Utri per non aver commesso il fatto. Quindi l’ex senatore, già condannato in via definitiva per concorso esterno fino al 1992, considerato fino a quella data trait d’union tra Berlusconi e Cosa nostra, due anni dopo non ha più rivestito il ruolo di uomo cerniera tra Berlusconi e i boss. E dunque per i giudici non è Dell’Utri che ha recapitato il messaggio estorsivo dei mafiosi all’uomo di Arcore. O in ogni caso non c’è la prova che l’ex senatore avesse comunicato a Berlusconi il contenuto degli incontri con Mangano, inviato proprio da Bagarella (e da Brusca) nella villa di Como per “consegnare” la minaccia mafiosa. Una ricostruzione, quella della corte d’Assise d’Appello, che potrebbe pure collegarsi al fatto che Dell’Utri è stato assolto in via definitiva dall’accusa di concorso esterno per i fatti successivi al 1992. All’epoca l’ex senatore commentò quella condanna solo per gli anni precedenti con una provocazione: “I giudici mi fanno passare per mafioso fino al ’92, ma cadono in contraddizione: se fosse vero, la mafia non mi avrebbe mollato proprio nel ’92, quando poteva sperare nei veri vantaggi del potere, della politica”.

ILFQ