mercoledì 8 giugno 2016

Referendum costituzionale, se Massimo Cacciari dimentica Karl Popper. - Angelo Cannatà




Ho letto l’intervista di Mauro a Cacciari (la Repubblica, 27 maggio) e non riesco a liberarmi dal senso di smarrimento che trasmettono le sue parole. L’impressione molto forte è che Cacciari storicizzi e retroceda fino agli anni Ottanta (“Abbiamo provato a riformare le istituzioni per quarant’anni, e non ci siamo riusciti”), per spostare l’asse del discorso sul passato e non confrontarsi realmente sui limiti della riforma, della quale dice, certo, che è piena di difetti, ma bisogna votarla perché “realizza alcuni cambiamenti che volevamo da anni”. 

Ho molta stima per Cacciari del quale apprezzo non solo Krisis, Icone della legge, Dell’inizio, eccetera, ma anche i testi giovanili scritti per Contropiano. Una stima che non mi impedisce d’evidenziare – anzi mi stimola – quanto la sua posizione politica (sì al referendum) sia poco strutturata e fondata filosoficamente. Insomma, Aristotele lo bacchetterebbe per le conclusioni che trae dalle sue premesse: “è una riforma concepita male e scritta peggio”; “punta alla concentrazione del potere”; “la montagna ha partorito un brutto topolino”; “è una riforma modesta e maldestra”; abbinata alla legge elettorale “punta a dare tutto il potere al capo”; dunque: la voto. Incredibile! 

Si avverte un senso di vertigine pensando al profondo sdoppiamento di personalità che deve vivere Cacciari: centinaia di pagine di filosofia per riflettere, con stile e rigore logico, sulle domande del Parmenide platonico e ragionare con lucidità su Cusano e Schelling, per poi - spostato lo sguardo sulla riforma della Costituzione - approdare ad un orrendo e spicciolo pragmatismo. Fa male vedere Cacciari accodarsi a quanti sostengono che non c’è alternativa ergo bisogna votare sì anche se la riforma della Costituzione non piace. A questo siamo. Speravamo di più da un filosofo che stimiamo da anni e volevamo al governo, non solo della sua Venezia, ma del Paese, mossi dalla suggestione platonica dei filosofi re. Invece, Cacciari ci dice che dobbiamo tapparci il naso (“Vuole fingere – obietta a Mauro – che non abbiamo votato spesso turandoci il naso?”), che dobbiamo scegliere il “male minore” e votare sì. 

Chi l’ha detto, caro Cacciari, che la riforma Renzi sia il male minore? E’ vero il contrario. Se la riforma del Senato sommata all’Italicum svuota la democrazia e concentra il potere nelle mani del capo - come lei riconosce - è evidente che non ci sia male maggiore. Evidente per una serie di motivi che il logos e la tradizione filosofica hanno acquisito da anni. 

Non devo essere io a spiegare a Cacciari che Karl Popper sulla concentrazione del potere nelle mani di un capo ha scritto pagine decisive: la domanda fondamentale in democrazia non è “Chi deve governare?” - osserva - quanto piuttosto: “Come possiamo organizzare le nostre istituzioni politiche in modo tale che governanti cattivi o incapaci (che cerchiamo di evitare, ma che tuttavia possono capitarci) arrechino il minor danno possibile e che noi possiamo rimuoverli senza l’uso della forza?” Il problema della politica è “organizzare le istituzioni” per impedire che l’esecutivo prevarichi sul legislativo. 

Nel referendum di ottobre sulla Costituzione la posta in gioco è questa. Alta, fondamentale e non derubricabile a “male minore”. Si tratta di decidere, col nostro voto, se la democrazia italiana continuerà ad avere (o no) gli strumenti per frenare l’abuso di potere del Premier. E’ la questione posta da Popper, su cui è nata una teoria della democrazia. Che Cacciari la sottovaluti e preferisca turarsi il naso è peggio di un delitto. E’ un errore.


http://temi.repubblica.it/micromega-online/referendum-costituzionale-se-massimo-cacciari-dimentica-karl-popper/

Cacciari, come perdersi in un bicchier d'acqua...
Per un punto Martin perse la cappa...
E' demoralizzante notare come uomini di una certa levatura morale e mentale si inchinino al tristo e bieco gioco della politica.
Sta succedendo sempre più spesso e a molti....
La politica ha il potere di comprare tutti? E' così accattivante?

Nel nome di J. P. Morgan. Le ragioni economiche della controriforma costituzionale. - Guglielmo Forges Davanzati



Il progetto di riforma costituzionale è stato autorevolmente commentato da numerosi costituzionalisti, che hanno concentrato la loro attenzione sugli aspetti propriamente giuridici e politici del cambiamento prospettato[1]. Nel dibattito che si è sviluppato in questi mesi, minore attenzione hanno ricevuto interpretazioni che attengono a ragioni di carattere propriamente economico che spingono verso la riforma della Costituzione italiana.

Per individuarle conviene partire da un fatto ampiamente noto. J.P.Morgan, una delle Istituzioni finanziarie più importanti su scala globale, in un documento del 2013, ha rilevato l’impronta “socialista” che sarebbe implicita nella nostra Carta costituzionale[2]

In effetti, si tratta di un’interpretazione che può essere condivisa se si leggono gli articoli che più direttamente riguardano la sfera economica e, in particolare, quelli che danno allo Stato anche funzioni di programmazione. Evidentemente, dal punto di vista degli interessi della finanza che quella Istituzione rappresenta, la presenza di elementi di “socialismo” nella nostra Costituzione deve essere particolarmente sgradita. Va chiarito che il documento di J.P. Morgan è estremamente rilevante, anche al di là del progetto di riforma costituzionale, perché aiuta bene a comprendere i processi di depoliticizzazione in atto: ovvero processi che demandano a tecnici non eletti la gestione della politica economica, a condizione che quest’ultima sia concepita in modo da “non essere invisa alle banche centrali”[3].

La propaganda governativa non richiama l’ammonimento di J.P. Morgan, non fa riferimento al ‘socialismo costituzionale’ italiano, preferendo concentrarsi essenzialmente su due aspetti. 

1. La riforma costituzionale si rende necessaria per ridurre i costi della politica. 

2. La riforma costituzionale si rende necessaria per accelerare i tempi di decisione.


Il primo argomento appare suscettibile di una immediata critica, che riguarda il fatto che, se davvero si intende ridurre i “costi della politica”, non si capisce per quale ragione non farlo – in modo estremamente più semplice – attraverso l’attuazione delle numerosissime proposte di riduzione degli stipendi e degli emolumenti di chi ci rappresenta. Peraltro, come è stato osservato, la previsione per la quale i senatori non percepiranno indennità in quanto senatori (il che, ci viene detto, è un risparmio) è combinata con la previsione che le medesime indennità i senatori le percepiranno dalle istituzioni da cui sono espressi[4]. Ciò al netto del fatto che – ed è bene ricordarlo – la remunerazione accordata a chi svolge attività politica ha il suo fondamento nella possibilità data ai meno abbienti di assumere incarichi. E’ evidente che nella situazione attuale questi emolumenti hanno assunto dimensioni la cui legittimazione è oggettivamente difficile da darsi, ma è altrettanto evidente che la politica ha un costo; riforma o meno. 

Vi è di più, considerando che sebbene elevati in termini assoluti questi costi appaiono assolutamente marginali rispetto ai costi che i cittadini italiani (in particolare, i lavoratori dipendenti e le piccole imprese) sostengono per una tassazione che serve solo in misura marginale a pagare il ceto politico. E che serve semmai a generare avanzi di bilancio. E tuttavia, nel confronto con la media europea, ci troviamo di fronte al paradosso per il quale siamo maggiormente tassati per pagare più di altri una classe politica che, nella sua espressione governativa, ci somministra dosi di austerità fiscale (riduzioni di spesa combinate con aumenti della pressione fiscale) superiori a quanto accade altrove.

Il secondo argomento, apparentemente inoppugnabile (chi vorrebbe maggiore lentezza delle decisioni?), è maggiormente rilevante giacché attiene ai rapporti fra dimensione economica e sfera delle decisioni politiche. La Costituzione che si intende ridisegnare è, a ben vedere, una Costituzione modellata su parametri di efficienza economica, ovvero, finalizzata a rendere l’economia italiana più attrattiva per gli investitori esteri. Questo sembra il punto essenziale sul quale si gioca questa partita. In un contesto che si definisce di globalizzazione, effettivamente ciò che conta è la rapidità delle decisioni politiche che asseconda la rapidità dei processi di produzione e vendita di merci: la c.d.time-based competition che diventa competizione fra Stati anche sulla rapidità delle scelte politiche. Letta in questa prospettiva, la riforma appare del tutto coerente con una logica, per così dire, efficientista: logica che, tuttavia, è in radicale contrasto con la tutela dei diritti, in particolare dei diritti sociali. Ciò che conta è l’efficienza dei processi decisionali, come si legge nei documenti preparatori della riforma redatti da questo Governo (peraltro, del tutto in linea con i governi che lo hanno preceduto).

Vi è anche da rilevare che il tema della qualità delle istituzioni è stato oggetto, negli ultimi anni, di studi compiuti prevalentemente da economisti (si pensi, innanzitutto, alla c.d. analisi economica del diritto). Si tratta di studi che, applicando l’assunto della scelta razionale ai problemi di decisione politica e di disegno delle istituzioni, giungono fondamentalmente alla conclusione che è ottimale quel disegno delle istituzioni (costituzioni comprese) che istituisce un meccanismo di incentivo/disincentivo tale da rendere possibile la massimizzazione del benessere sociale[5].

In un certo senso, è questa la base teorica della riforma che si intende attuare: il passaggio, niente affatto neutrale, da un modello costituzionale pensato per la tutela dei diritti sociali, attraverso un incisivo intervento pubblico in economia, a un modello costituzionale pensato in una logica di perseguimento di obiettivi di efficienza economica, da perseguire mediante il minimo intervento pubblico in economia (si pensi, a riguardo, alla costituzionalizzazione del pareggio di bilancio).

Ma qui, il punto ulteriore in discussione riguarda il nesso che viene a istituirsi fra ‘governabilità’ ed efficienza, dal momento che non è affatto scontato che una maggiore rapidità dei tempi della decisione politica implichi un aumento dell’efficienza di sistema. In altri termini, appare discutibile l’idea che, se anche il superamento di una Costituzione basata sulla tutela di diritti sociali si renda necessario per garantire la ‘governabilità’, quest’ultima produca benessere per tutti.

A ben vedere, sussistono ottime ragioni per ritenere che il decisore politico è “catturato” da gruppi di interesse e che, ponendo la questione in questi termini, il solo risultato ragionevolmente prevedibile a seguito della riforma costituzionale può configurarsi sotto forma di maggiore governabilità a beneficio dei gruppi di interesse che il Governo difende[6]. E, almeno in questa fase storica, non sono certo né i lavoratori dipendenti, né i pensionati, né le piccole imprese. Va chiarito, a riguardo, che esiste un’ampia letteratura economica che mostra come un fondamentale presupposto per la crescita economica risieda esattamente nella tutela dei diritti sociali e, a questi connessi, a una più equa distribuzione del reddito. Ma si tratta di una letteratura marginalizzata dal pensiero dominante e palesemente non funzionale all’attuale modello di sviluppo, basato semmai su crescenti diseguaglianze distributive e su quella che Luciano Gallino, nei suoi ultimi scritti, definiva la ‘lotta di classe dall’alto’.

In questo senso, il referendum ha una notevole implicazione economica, giacché pone in evidenza il fondamentale discrimine fra una visione della carta costituzionale come strumento di tutela delle fasce deboli della popolazione e una visione della stessa come dispositivo finalizzato alla governabilità per l’efficienza, laddove quest’ultima passa attraverso il superamento del modello di democrazia economica delineato nella Costituzione attualmente vigente. 

NOTE
[1] Si veda, fra gli altri, per il fronte del NO: Zagrebelsky, Il mio no per evitare una democrazia svuotata, Micromega-on line, maggio 2016. Si rinvia anche a G.Azzariti,Contro il revisionismo costituzionale, Bari, Laterza, 2016. Per le ragioni del SI si rinvia, fra gli altri, a Salvatore Curreri, Le critiche che la riforma costituzionale non merita:http://www.huffingtonpost.it/salvatore-curreri/riforma-costituzionale-critiche-giuseppe-gargani_b_10201920.html

[2] J. P. Morgan, The Euro area adjustment: about halfay there, “European Economic Research”, 28 marzo 2013. Per un commento a questo articolo, si veda:http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/06/19/ricetta-jp-morgan-per-uneuropa-integrata-liberarsi-delle-costituzioni-antifasciste/630787/

[3] H. Radice, Reshaping fiscal policies in Europe, “The Bullet”, febbraio 2013. 

[4] D. Gallo, Le ragioni del NO all’arretramento costituzionale, Micromega on-line, 31 maggio 2016. 

[5] V., fra gli altri, R.A Posner, The economic analysis of law, Harvard, Harvard University Press, 1999. 

[6] Sul tema, si rinvia, fra gli altri a P. Burnham, New Labour and the politics of depoliticization, “British Journal of Politics and International Relations” 3/2, 2001, pp. 127-149, che sottolinea la sostanziale impossibilità di coniugare le nuove modalità di regolazione del capitalismo con la democrazia, così come l’abbiamo conosciuta nel Novecento.


http://temi.repubblica.it/micromega-online/nel-nome-di-j-p-morgan-le-ragioni-economiche-della-controriforma-costituzionale/

La democrazia senza velo. - Paolo Flores d'Arcais



La società belga “G4S Secure Solutions” ha come norma che i dipendenti non possano esibire segni di appartenenza religiosa. Samira Achbita dopo tre anni di lavoro pretende di indossare il velo islamico e l’azienda la licenzia. Il “Centro belga per le pari opportunità e la lotta al razzismo” fa causa alla società e la Cassazione del Belgio investe del problema la Corte di giustizia europea, il cui avvocato generale, Juliane Kokott, conclude a favore dell’azienda.

Sumaya Abdel Qader, leader musulmana “progressista” e candidata del Pd al Consiglio comunale di Milano, si indigna: «Mettersi il velo è una pratica religiosa, che dovrebbe essere garantita dall’ordinamento giuridico a tutela della libertà religiosa». Sumaya Abdel Qader ha torto, e con lei i moltissimi “multiculturalisti” di una “sinistra” anti-illuminista che ha completamente perduto la bussola dell’eguaglianza e dell’emancipazione. In una società democratica i simboli religiosi dovrebbero anzi essere vietati in tutti gli uffici e servizi pubblici, scuola in primis (e il divieto dei privati non dovrebbe essere considerata discriminazione).

Un ufficio pubblico è infatti un bene comune, deve appartenere a tutti, non solo ai cittadini diversamente credenti ma a tutti i diversamente miscredenti e atei. Laddove si esibisca o campeggi un simbolo di appartenenza religiosa quello spazio è sottratto a quanti non vi si riconoscono, è confiscato e privatizzato. Che i simboli religiosi consentiti siano più di uno non cambia nulla, lottizza la confisca tra alcune fedi, ma una prevaricazione plurale sempre prevaricazione resta. 

Per garantire eguaglianza bisognerebbe che ogni possibile religione (compreso il “Dio degli spaghetti volanti” la cui Chiesa è ufficializzata negli Usa) e ogni possibile ateismo avessero i propri simboli appesi alle pareti, ma così non saremmo allo spazio comune bensì al bailamme delle identità in conflitto. Esattamente l’opposto dell’eguale cittadinanza, l’unica appartenenza che una democrazia riconosce.

Sumaya Abdel Qader e i “multiculturalisti” di “sinistra” naturalmente sono in buona compagnia, il Papa, niente meno. Non solo il fondamentalista Karol Wojtyla e il teologo della crociata contro la modernità Joseph Ratzinger, per i quali l’aborto è “il genocidio del nostro tempo” (medici e infermieri che rispettano la volontà della donna all’interruzione della maternità messi moralmente sullo stesso piano di un Ss, del resto l’anatema di Wojtyla, perché non vi fossero dubbi, fu pronunciato in Polonia a pochi chilometri da Auschwitz), ma anche il buonissimo e apertissimo Francesco che manda ormai in estasi fior di “laici” in debito di “Senso” e marrani del valore fondante e irrinunciabile della sinistra, l’eguaglianza sostanziale.

Ma questa convergenza, che vorrebbe le fedi religiose come humus per la democrazia contro il pericolo nichilista, e che ha affatturato anche pensatori un tempo di riferimento come Habermas, non fa che rendere esplicita e improcrastinabile per l’intera Europa (se ancora ha una chance di nascere) la necessità di radicarsi in una laicità coerente e adamantina, quella “alla francese”, rettificata anzi in alcune sue “concessioni” (scuole private, ad esempio).

La democrazia per funzionare, infatti, e più che mai per uscire dalla sua devastante crisi attuale, ha bisogno di decretare l’ostracismo di Dio dalla sfera pubblica. Valga il vero.

L’eguale sovranità non consiste nella mera conta delle volontà, ma nell’argomentazione reciproca con cui i cittadini mettono capo alla decisione della legge attraverso la scelta dei loro rappresentanti. Se la sfera pubblica si riduce alla semplice conta di volontà irrelate e non vincolate al dovere di “fornire ragioni”, il terreno è già fertile perché si passi dal “perché sì” del voto al “perché sì” del manganello. Un cittadino, e un politico, devono argomentare le proprie scelte, condizione pregiudiziale (benché non sufficiente) per essere tutti concittadini. Ma ogni argomento-Dio nega il dialogo, è autoreferenziale, ne esclude i non credenti o i diversamente credenti, ecco perché il ricorso alla fede non deve avere spazio nella sfera pubblica. 

Solo i fatti accertati, la logica, e i valori fondamentali della Costituzione (per la nostra, nata dalla Resistenza, suonano “giustizia e libertà”). Se invece si può “argomentare” perché “Dio vuole così” (lo hanno fatto fin troppi presidenti americani) siamo già alla sharia. Che non a caso, con la benedizione di governi “cristiani”, è ormai vigente in molti ghetti delle metropoli europee.


http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-democrazia-senza-velo/

Flores d'Arcais mi trova pienamente d'accordo.
Oltretutto il simbolismo del velo, in particolare, non sarebbe altro che un rafforzativo della presunta inferiorità, sottomissione della donna nei confronti dell'uomo e, quindi, non farebbe altro che fomentare il femminicidio.