sabato 7 marzo 2020

Come il corpo blocca i virus.



I vaccini «addestrano» le cellule a reagire. Quando un agente patogeno - virus o batterio - viene introdotto nel corpo, si moltiplica e attacca le cellule: si parla di infezione. Riconoscendo il microbo come corpo estraneo, il sistema immunitario implementa due strategie di difesa. Prima di tutto c'e' la risposta immunitaria innata I macrofagi sono cellule assassine che inghiottono gli intrusi per distruggerli, i fagociti catturano ed eliminano le tossine. Questa reazione rapida e localizzata puo' arrestare o rallentare l'infezione, ma non sempre basta. Qui entrano in gioco i linfociti, cellule difensive che identificano l'invasore grazie alla sua molecola caratteristica, l'antigene. Ogni linfocita e' programmato per attaccare un particolare virus o batterio. Appena identifica l'antigene, si moltiplica I linfociti B hanno la capacita' di produrre un gran numero di anticorpi. Circolando nel corpo, gli anticorpi si attaccano agli antigeni e li neutralizzano, permettendo ai macrofagi di eliminarli. I linfociti T identificano e distruggono le cellule infette. Il problema e' la reazione immunitaria e' lenta, impiega diversi giorni, dando ai germi il tempo di scatenare una malattia. Fortunatamente, il corpo ricorda i nemici. Dopo un'infezione, gli anticorpi e i linfociti ne custodiscono la memoria e reagiscono se ricompare lo stesso patogeno In questo caso la reazione immunitaria e' molto piu' rapida ed evita che si sviluppi la malattia. I vaccini funzionano sfruttando la memoria del sistema immunitario. La vaccinazione simula un'infezione, allenando il sistema immunitario e facendogli sviluppare le armi di difesa. In pratica si introduce nel corpo un germe morto o inattivo o solo un suo frammento. Il vaccino innesca quindi una reazione immunitaria senza causare la malattia. L'organismo produce linfociti che memorizzano l'invasore e gli anticorpi, in preparazione per qualsiasi attacco futuro. Il potere di anticorpi e linfociti tende a diminuire nel tempo, il che significa che a volte e' necessario ripetere le vaccinazioni. ( Ansa - CorriereTv ).

https://www.youtube.com/watch?v=DcdNBuKTtQc

Blazar da record sotto gli occhi di Lbt.

Risultato immagini per Pso J030947+27 è il blazar

Pso J030947+27 è il blazar a oggi più distante mai osservato. La sua luce che riceviamo ora è stata emessa quando l’universo aveva meno di un miliardo di anni, ovvero circa il 7 per cento della sua età attuale, stimata in 13,8 miliardi di anni. La scoperta è stata coordinata da Silvia Belladitta, ricercatrice Inaf a Milano.
Rappresentazione artistica di un blazar (dall’inglese: blazing quasi-stellar object) è una sorgente altamente energetica, variabile e molto compatta associata a un buco nero supermassiccio che si trova al centro di una galassia ospitante. Crediti: M. Weiss/CfA
La sua sigla, piuttosto difficile da ricordare, è Pso J030947.49+271757.31, ma il record che detiene è decisamente chiaro: è infatti il blazar a oggi più distante mai osservato. La sua “luce” che osserviamo oggi è stata emessa quando l’universo aveva meno di un miliardo di anni, ovvero circa il 7 per cento della sua età attuale, stimata in 13,8 miliardi di anni. A scoprire Pso J0309+27 – questa la sua sigla abbreviata – è stato un team di ricercatrici e ricercatori guidato da Silvia Belladitta, dottoranda dell’Università dell’Insubria che sta svolgendo il suo lavoro di tesi presso l’Istituto nazionale di astrofisica a Milano, sotto la supervisione di Alberto Moretti e Alessandro Caccianiga. La scoperta, ottenuta grazie alle osservazioni con il Large Binocular Telescope (Lbt), confermate poi anche da alcuni dati del telescopio spaziale Swift, solleva il velo su questi mostri cosmici già attivi all’alba dell’universo e apre la strada per un accurato censimento dei nuclei galattici attivi in quell’epoca così remota, finora inaccessibile.
I cosiddetti radio-loud Agn, ovvero nuclei galattici attivi (Agn) di tipo radio, sono potentissime sorgenti di segnali radio alimentate da buchi neri supermassicci al centro delle galassie, che espellono poderosi getti di materia a velocità prossime a quella della luce. In particolare Pso J0309+27 è un Agn di tipo radio che ha tutte le caratteristiche per appartenere alla sotto-classe dei blazar, cioè quei radio-loud Agn il cui getto è fortuitamente allineato sulla nostra linea di vista.
Inizialmente individuato sulla base della sua emissione radio e ottica, questo oggetto è stato quindi osservato con Lbt, di cui l’Italia con l’Inaf è partner, usando lo spettrografo Mods, in modo da poterne confermare la natura di Agn lontano. «Lo spettro che è apparso davanti ai nostri occhi ha confermato come prima cosa che PSO J0309+27 è effettivamente un Agn, ovvero una galassia il cui nucleo centrale è estremamente luminoso per la presenza, nel suo centro, di un buco nero supermassiccio che si sta alimentando fagocitando il gas e le stelle che lo circondano», dice Belladitta, prima firmataria dell’articolo che descrive la scoperta, pubblicato oggi sulla rivista Astronomy & Astrophysics. «Inoltre, i dati ottenuti a Lbt hanno anche confermato che Pso J0309+27 si trova a un’enorme distanza da noi quantificata da uno spostamento verso il rosso che in gergo tecnico chiamiamo redshift, pari al valore record di 6.1, mai misurato prima per un oggetto simile. A questa distanza stiamo osservando l’universo com’era circa 900 milioni di anni dopo il Big-Bang, meno di un decimo della sua età attuale, che è di 13,8 miliardi di anni».
Silvia Belladitta
Pso J0309+27 è quindi risultato essere, al momento, la sorgente radio persistente più potente nell’Universo primordiale, ovvero entro il primo miliardo di anni dalla sua formazione. Osservazioni condotte con il telescopio Xrt a bordo del satellite Swift – missione a cui l’Inaf ha dato un contributo fondamentale insieme all’Agenzia spaziale italiana – hanno inoltre permesso di stabilire che, anche nei raggi X, Pso J0309+27 è la sorgente più luminosa mai osservata a queste distanze.
Queste proprietà “estreme” hanno permesso ai ricercatori di stabilire che Pso J0309+27 è un blazar, ovvero un Agn con un potente getto di materiale relativistico che punta verso la Terra. Grazie a questo particolare allineamento, l’emissione risulta fortemente amplificata e può quindi  essere osservata fino a grandi distanze. E qui emerge uno dei punti chiave della ricerca:   «Osservare un blazar è estremamente importante», sottolinea Belladitta, «in quanto per ogni sorgente scoperta di questo tipo sappiamo che ne devono esistere un centinaio simili, ma orientati diversamente, e quindi troppo deboli per essere visti direttamente». La scoperta di Pso J0309+27 permette quindi di quantificare per la prima volta il numero di nuclei galattici attivi con potenti getti relativistici presenti nell’universo primordiale.
«Da nuove osservazioni con Lbt, ancora in corso di elaborazione, stimiamo inoltre che il motore centrale che alimenta Pso J0309+27 sia un buco nero con una massa pari a circa un miliardo di volte quella del Sole. Grazie alla nostra scoperta, siamo quindi in grado di affermare che già nel primo miliardo di anni di vita dell’universo esisteva un grande numero di buchi neri molto massicci e in grado di produrre potenti getti relativistici. Questo risultato pone dei vincoli molto stringenti ai modelli teorici che cercano di spiegare l’origine di questi enormi buchi neri presenti nell’universo», conclude Belladitta.
https://www.media.inaf.it/2020/03/06/blazar-da-record/?fbclid=IwAR16p_5bFdPXS2Bb2Idha9Z6XFAdOA3hPGq8xklO2yaOnk_kZMWaBB6j5dY

Superquark ai tempi del Big Bang. - Valentina Guglielmo









              Due scienziati dell’Università di York hanno identificato una nuova particella – scoperta nel 2011 e chiamata d-star hexaquark – che potrebbe aver dato origine alla materia oscura nelle prime fasi della vita dell’universo dopo il Big Bang. Un‘ipotesi – spiega a Media Inaf Mikhail Bashkanov, primo autore dello studio pubblicato su Journal of Physics – in grado di rendere conto anche dell’asimmetria materia-antimateria.
Rappresentazione artistica di un esaquark di tipo dibarione. Ci sono due quark costituenti per ciascuna delle tre cariche di colore. Crediti: Linfoxman/Wikimedia Commons
Se l’indagine sulla componente oscura del nostro universo fosse un giallo, si potrebbe dire che il colpevole abbia lasciato numerose e inequivocabili tracce di sé, senza però far trapelare il minimo indizio circa la sua identità. Quale particella si nasconda dietro (o dentro) la ormai pluriprovata esistenza della materia oscura rimane infatti a oggi un mistero.
La materia oscura, così chiamata per la sua caratteristica di non assorbire né emettere radiazione elettromagnetica e interagire con la materia luminosa solo tramite l’interazione gravitazionale, è presente nell’universo in proporzione cinque volte superiore rispetto alla materia barionica ordinaria, quella di cui sono composte tutte le cose che osserviamo e di cui abbiamo esperienza. Lo dicono innumerevoli osservazioni di sorgenti e fenomeni astrofisici, dalla curva di rotazione delle galassie a spirale al lensing gravitazionale. Eppure, nonostante decenni di tentativi, nessuno è ancora riuscito a incastrarla.
Uno studio pubblicato a metà febbraio su Journal of Physics G, condotto da due fisici dell’Università di York (Regno Unito), Mikhail Bashkanov e Daniel Watts, propone un nuovo indiziato alla soluzione del caso: il nome è d-star hexaquark, ed è una particella che costituirebbe la materia oscura trovandosi confinata in uno stato chiamato condensato di Bose-Einstein.
Agli occhi degli addetti ai lavori, è un nome – soprattutto nella sua forma completa: d*(2380) hexaquark – che fa immediatamente intuire la struttura e le proprietà della particella. Si tratta di una particella della classe dei deuteroni (da cui la lettera ‘d’), composta cioè dalla somma di un protone e un neutrone, ciascuno dei quali a sua volta è composto di tre particelle elementari dette ‘quark’ (da cui ‘hexaquark’: 6 quark). Il numero ‘2380’ si riferisce alla massa, espressa in MeV (megaelettronvolt). E la stella ‘*’ indica che essa si trova in uno stato eccitato, ovvero a un livello di massa-energia più elevato.
Mikhail Bashkanov, del Dipartimento di fisica della University of York, primo autore dell’articolo “A new possibility for light-quark dark matter”. Crediti: M. Bashkanov
«Questo stato eccitato», spiega a Media Inaf il primo autore dell’articolo, Mikhail Bashkanov, «rende tali particelle estremamente instabili: il loro tipico tempo di vita nel vuoto infatti è di soli 10-24 secondi, il che significa che se esse vengono prodotte nel vuoto decadono immediatamente. Ma se si crea uno stato della materia che le contenga, come un condensato di Bose-Einstein, l’energia di legame compensa il beneficio energetico che queste particelle avrebbero nel decadere, e si crea un equilibrio stabile».
La possibilità di creare questo stato della materia estremamente favorevole è insita nella natura di queste particelle: i deuteroni infatti rientrano nella categoria dei bosoni, particelle con spin unitario non soggette al principio di esclusione di Pauli, che quindi non si respingono reciprocamente a piccole distanze, e possono anzi collassare insieme. «Possiamo immaginare questo condensato come un frammento di stella di neutroni, in cui la carica dei quark è compensata dagli elettroni. Avremo quindi piccoli agglomerati di materia di dimensione inferiore a un atomo, con carica neutra – che dunque non interagiscono elettromagneticamente – e una dimensione sufficientemente grande da produrre un segnale di tipo gravitazionale». In altre parole, il ritratto del candidato ideale a particella di materia oscura. Un candidato di cui già si hanno tracce sperimentali: la particella d-star hexaquark è stata scoperta nel 2011 da un team di scienziati all’acceleratore di particelle di Juelich, in Germania, facendo collidere fasci di protoni con neutroni, ed è stata in seguito completamente caratterizzata attraverso tutti i suoi possibili canali di decadimento.
«La forza di questa ipotesi», sottolinea Bashkanov, «sta nel fatto che non servono nuove teorie fisiche per spiegare come sia avvenuta la formazione della materia oscura, né come mai essa sia predominante rispetto alla materia barionica. Inoltre, questa teoria risolve naturalmente il problema della asimmetria fra materia ed antimateria».
«Si può infatti immaginare l’universo negli istanti successivi al Big Bang», prosegue Bashkanov, «come una zuppa di quark e anti-quark (la loro anti-particella) i quali, man mano che la temperatura del cosmo diminuiva per effetto della sua stessa espansione, formavano protoni, neutroni e anche il condensato di d-star hexaquark. Dal momento che quest’ultimo stato della materia è energeticamente favorevole, la maggior parte dei quark e antiquark tenderà a esso, e molti meno verranno invece impiegati nella generazione della materia normale. Ecco perché abbiamo cinque volte più materia oscura che materia barionica. Inoltre, materia e antimateria si comportano gravitazionalmente in modo analogo, pertanto se tutta l’antimateria creata condensa in (anti-) materia oscura, non abbiamo più il problema di dover spiegare come mai non la vediamo, l’antimateria».
La domanda a questo punto sorge spontanea: si può scovare, nell’immenso e multiforme laboratorio dell’universo, la presenza di questo condensato di d-star hexaquark? Forse sì. Sembra che i raggi cosmici di elevatissima energia siano in grado di rompere tale condensato, e generare un inequivocabile fascio di fotoni di uguale energia provenienti da una regione spaziale estremamente circoscritta in un intervallo temporale ristretto. La rarità di questo evento e l’energia di interazione necessaria per rompere l’energia di legame del condensato sono ancora sconosciute, e sono oggetto di uno studio sinergico fra laboratorio, teoria e osservazioni astrofisiche.
«La determinazione dell’energia di interazione dei d-star hexaquark fra loro e con la materia barionica consentiranno di stimare le dimensioni fisiche del condensato di Bose-Einstein, il numero di particelle che lo compongono e la temperatura alla quale questo si è formato – ovvero quanti secondi dopo il Big Bang», conclude Bashkanov. «Stiamo attualmente analizzando i dati sulle interazioni presi in laboratorio, con un esperimento condotto all’acceleratore Mami di Magonza – dove i d-star hexaquark sono creati facendo collidere fasci di fotoni su target di deuteroni, per misurarne la forma e la dimensione – e contiamo di avere una risposta entro i prossimi due anni e mezzo».

Taglia-incolla Dna usato per la prima volta nel corpo umano.

La Crispr-Cas applicata per la prima volta in vivo nelle cellule della retina (fonte: P. Motta/Università Sapienza di Roma/SPL) © Ansa
La Crispr-Cas applicata per la prima volta in vivo nelle cellule della retina (fonte: P. Motta/Università Sapienza di Roma/SPL)

Per correggere le cellule malate nell'occhio e non in provetta.

La tecnica che taglia e incolla il Dna, la Crispr-Cas, è stata applicata per la prima volta all'interno del corpo umano, per modificare (in vivo e non in provetta) le cellule di una persona colpita da una rara forma di cecità ereditaria incurabile. Il trattamento verrà a breve testato su altri 17 pazienti nell'ambito della sperimentazione 'Brilliance', condotta all'Università dell'Oregon in collaborazione con l'azienda farmaceutica Allergan e la compagnia biotech Editas Medicine.
La terapia sperimentale consiste nell'iniettare nell'occhio un innocuo virus 'fattorino', che nel suo genoma trasporta tutto il necessario per produrre in loco le forbici molecolari ultra-precise della Crispr. L'obiettivo è farle entrare in azione nelle cellule della retina sensibili alla luce (fotorecettori), per correggere la mutazione del gene CEP290 che provoca una rara forma di distrofia chiamata amaurosi congenita di Leber (Acl).
Finora la terapia genica tradizionale prevedeva l'inserimento nella cellula malata di una copia corretta del gene, procedura impossibile nell'amaurosi congenita di Leber perché il gene CEP290 è troppo grande per poter essere veicolato da un vettore virale. In passato un'altra tecnica di editing (quella della nucleasi a dita di zinco) era stata applicata direttamente nel corpo umano, per inserire una copia corretta del gene malato in un paziente colpito da una malattia metabolica (la sindrome di Hunter), ma l'intervento non aveva determinato alcun miglioramento dei sintomi.
L'idea di provare la Crispr nel corpo del paziente, e non sulle sue cellule coltivate in provetta per essere poi reinfuse, rappresenta un notevole cambio di passo nel campo dell'editing genetico. Come spiega sul sito di Nature l'esperto Fyodor Urnov, dell'Università della California a Barkeley, è come paragonare “un volo spaziale a un normale volo in aereo: le sfide tecniche, e i rischi per la sicurezza, sono molto più grandi".