mercoledì 29 luglio 2015

Lo scambio tasse-sanità di Renzi viene da lontano. - Pierfranco Pellizzetti

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Non c’era bisogno di essere un acuto politologo per capire che l’annuncio estivo di Matteo Renzi della manovra anti-tasse è solamente l’inizio di una lunga campagna elettorale per recuperare i consensi perduti. In una sequenza accelerata alla Ridolini: abolizione dell’Ici sulla prima casa nel 2016, diminuzione dell’Irap nel 2017 e poi dell’Irpef un anno dopo. Semmai la domanda era un’altra: da dove il mirabolante premier presume di far saltare fuori la provvista per un’operazione quantificabile in svariate diecine di miliardi.
Poi il dubbio è stato parzialmente sciolto: almeno una diecina di miliardi arriveranno da tagli sulla sanità. E – così – se resta il dubbio sul portato effettivo dell’annuncio, molti altri aspetti della complessiva politica renziana sono venuti alla luce. In particolare la stretta dipendenza dal modello berlusconiano, che ora risulta in tutta la sua pienezza. Non soltanto come priorità accordata all’illusionismo comunicativo; in una visione iomaniaca del proprio ruolo, ridotto a bulimia di potere.
Lo scambio tasse-sanità rivela ben di più: l’identificazione nelle strategie politiche messe a punto a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso dalla destra repubblicana degli Stati Uniti, riconfezionate negli anni Novanta dai vari Tony Blair e Bill Clinton nelle retoriche della (presunta) Nuova Sinistra di Terza Via.
Insomma, emergono con nitidezza le coordinate cultural-politiche del giovane provincialotto di Rignano, sempre sulle orme del ganassa di Arcore; entrambi intenti a recitare la sceneggiatura da Italietta del dopoguerra de “L’americano a Roma”.
Facciamo qualche passo indietro per capirci: nell’Occidente del secondo dopoguerra venne portata a compimento un’opera di ingegneria politico-sociale già teorizzata nell’anteguerra da John M. Keynes e avviata dal presidente Franklin D. Roosevelt con il New Deal. Ossia, una poderosa opera di trasferimenti di risorse verso l’area centrale della società (inducendo al tempo stesso dinamiche ascensionali inclusive) per garantire sicurezza e qualità della vita tramite un vasto apparato di servizi sociali.
In questo modo si utilizzavano le capacità di programmare, organizzare e distribuire i grandi numeri e i grandi volumi, apprese e messe a punto dagli Stati durante i due conflitti mondiali, quale traduzione in modello del cosiddetto compromesso keynesiano-fordista (lo scambio negoziale tra cassi lavoratrici sindacalizzate e borghesia imprenditoriale, avente per oggetto l’accettazione del sistema capitalistico, a fronte della promessa di piena occupazione tendenziale).
Si affermava così in un po’ tutte le realtà occidentali il cosiddetto Stato Sociale, o Welfare State. Il programma con cui la sinistra democratica e/o socialdemocratica arrivò e si mantenne al potere per lustri. Da qui partiva la riflessione, che impegnò a lungo i think tanks conservatori/reazionari: come rompere la “simbiosi welfariana”. Ossia, le mosse per staccare i ceti medi beneficiati dai servizi dal personale politico-burocratico che tale sistema presidiava.
L’uovo di Colombo e – al tempo stesso – il cavallo di Troia furono trovati individuando il punto debole della costruzione: il finanziarsi attraverso la leva fiscale. Psicologi dell’egoismo avido, i progettisti NeoCon puntarono sulla miopia possessiva del “meglio un uovo oggi che una gallina domani”. All’insegna della bieca metafora “infilano le mani nelle tasche dei cittadini”, partì già in quegli anni una campagna comunicativa che metteva a frutto tutte le armi propagandistiche accumulate negli arsenali dell’anti-Stato, propugnatrici dell’inesistenza del sociale. La febbre distruttrice trovò inizialmente il proprio speaker nell’attore sul rimbambito Ronald Reagan, già distintosi come pioniere della tematica quale governatore della California, portandolo alla presidenza degli Stati Uniti. Poi dilagò, arruolando tutti gli arrampicatori sociali impegnati in politica; nell’avvenuta cancellazione dei confini tra le varie posizioni e i vari schieramenti.
Questa la premessa di una lunga fase storica che Thomas Piketty ha soprannominato “i Quaranta ingloriosi”. In cui si è fatto macelleria sociale (mentre si propugnava l’intento mendace di combattere la presunta macelleria fiscale), si sono favoriti mastodontici ri-trasferimenti di ricchezza al vertice della piramide sociale, si è sbaraccato l’apparato sicuritario (Habermas diceva che “i servizi sono le stecche del corsetto della democrazia”) con l’assenso masochistico dei diretti beneficiari; lasciatisi turlupinare da chi faceva loro intravedere una succulenta bistecca virtuale, riflessa nello stagno della disuguaglianza imperante in questi anni.
Una vergognosa ricetta di successo, con cui Silvio Berlusconi si presentò sulla scena politica alla fine della Prima Repubblica (lo slogan vittorioso “meno tasse per tutti”); che ora riprende il neofita Matteo Renzi. Mentre si abbatte a colpi di piccone la scuola pubblica, si combattono i diritti del lavoro per consentire la gestione del business con molto bastone e un po’ di carota a un ceto manageriale incapace, si intende disarmare la magistratura inquirente perché non trovi collusioni tra malaffare e personale di partito, si lascia intuire ai malati che per salvare la pelle è meglio ricorrere alla sanità privata.
Il tutto a fronte di promesse non mantenibili (stante il pauroso deficit che ci opprime) di alleggerimenti futuri. Nell’intento immediato dell’epigono toscano di un americanista brianzolo di fare l’en plein alla roulette elettorale.