domenica 13 giugno 2010

Senza parole. - Federico D'Orazio




Questo è quanto recita un cartello apparso lungo Corso Vittorio Emanuele, L’Aquila. Se fosse vero, sarebbe un fatto gravissimo. Ma sarebbe in buona compagnia.

Aggiungo solo: meno male che la Protezione Civile non mi legge….

http://stazionemir.wordpress.com/2010/06/13/senza-parole/


Imprenditoria mafiosa. Cosa Nostra punta ai grandi appalti


di Maria Loi - 10 giugno 2010


Palermo.
I nomi sono più o meno noti. Si tratta di imprenditori, alcuni già condannati, che stamani sono stati raggiunti da un’altra ordinanza di custodia cautelare per associazione mafiosa, estorsione, riciclaggio ed intestazione fittizia di beni.


E’ emerso dall’operazione antimafia condotta dalla Polizia di Stato sotto la direzione del Dipartimento mafia ed economia della Dda palermitana che stamattina, a Palermo, ha portato all’arresto di 19 persone tra le quali
Vincenzo Rizzacasa, Francesco Lena, Filippo Chiazzese, l’imprenditore Salvatore Sbeglia, e i fratelli Francesco Paolo e Giuseppe Sbeglia nonché i nipoti Marcello e Francesco Sbeglia.

Sono stati notificati in carcere invece i provvedimenti a carico dei boss Nino Rotolo, Francesco Bonura, Vincenzo Marcianò, Carmelo Cancemi e Massimo Troia.
Tra l’altro sono state sottoposte a sequestro preventivo anche aziende, imprese e beni immobili per diverse centinaia di milioni di euro.
Al centro dell’inchiesta il sistema degli appalti ai quali Cosa Nostra non voleva rinunciare. L’infiltrazione nel mercato edilizio avveniva attraverso imprenditori e una rete di insospettabili che controllavano consorzi operanti in campo nazionale e numerose società di primo piano nel mercato palermitano. “Cosa Nostra, attraverso imprenditori di primo piano continua a controllare la gestione di appalti pubblici e privati e, in questo caso l’intero ciclo produttivo dell’edilizia fino alla fase finale dello smaltimento dei rifiuti” ha detto il pm Scarpinato, neo procuratore generale a Caltanissetta.
Il provvedimento firmato dal gip Maria Pino è il frutto di indagini che si sono avvalse di intercettazioni ambientali e di servizi sul territorio a partire dagli anni 2005 e 2006 sino ad oggi, e che hanno permesso di svelare i sofisticati sistemi mediante i quali l’organizzazione mafiosa ha mantenuto nel tempo un pervasivo controllo di tutto il ciclo produttivo del mercato edilizio: dalla fase di acquisto dei terreni, alla gestione delle cave di inerti, all’imposizione delle imprese addette a tutti i comparti produttivi, sino alla fase di smaltimento dei materiali nelle discariche.

Uno degli imprenditori arrestati oggi a Palermo è
Vincenzo Rizzacasa, 63 anni, accusato di trasferimento fraudolento di valori, perché avrebbe gestito attraverso le sue società il patrimonio del boss Salvatore Sbeglia. L’architetto Rizzacasa è il rappresentante legale dell’azienda Aedilia Venusta srl, l’azienda sospesa da Confindustria Sicilia perché non era in linea con il codice etico sottoscritto dagli industriali nel 2007. La società ha come dipendente e direttore dei lavori Francesco Sbeglia condannato in primo grado a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa e come direttore tecnico il padre di Francesco, Salvatore Sbeglia, considerato un uomo d’onore della famiglia della Noce e già condannato in via definitiva per associazione mafiosa. Contro la decisione di Confindustria Vincenzo Rizzacasa ha deciso di trascinare in Tribunale Confindustria per danni all’immagine. Tre giorni fa è arrivato il responso del giudice del Tribunale di Palermo che ha reintegrato l’Aedilia Venusta nelle fila di Confindustria. Ma dopo l’operazione odierna i vertici dell’associazione degli industriali hanno già deciso di riunirsi domattina in un consiglio direttivo straordinario per sospendere di nuovo l’azienda edile di Rizzacasa.




Ecco chi ci intercetta. E perché si lamenta


Le aziende che lavorano per le procure contestano la legge bavaglio e rivelano: noi spioni? Macché, forniamo gli strumenti ma non ascoltiamo nulla. Senza contare che lo Stato non paga mai le centinaia di milioni che ci deve ogni anno.



di Cristina Bassi

“Le aziende che effettuano le intercettazioni minacciano di staccare la spina? È una buona notizia”. Tradotto: i politici, di destra e di sinistra, non amano la registrazione delle telefonate a fini di indagine. O almeno così la pensano i titolari delle aziende che forniscono questo servizio alle procure. Per capire il loro punto di vista, bisogna fare un passo indietro di alcuni mesi.
Ottobre 2008: le maggiori società che affittano le apparecchiature per le intercettazioni telefoniche e ambientali minacciano lo sciopero. I debiti delle procure, cioè del Ministero della Giustizia, nei confronti del settore (un centinaio di aziende, con 2.500 dipendenti) ammontano a quasi 500 milioni di euro, per ammissione dello stesso ministro Alfano, i ritardi nei pagamenti sono tra i 550 e i 700 giorni, le fatture accumulate risalgono al 2003. Molte delle società, tra cui le principali (Area, Innova, Resaerch control system e Sio, che da sole rappresentano circa il 70% del mercato delle telefoniche), incassano ogni anno solo il 5-8 per cento di ciò che fatturano. Hanno come unico cliente lo Stato e vantano crediti che in alcuni casi arrivano al doppio del proprio fatturato annuo. Sono quindi a loro volta pesantemente indebitate con le banche.

Nella primavera del 2009 la convocazione al ministero delle quattro principali aziende porta a un accordo che tampona la crisi. Ma la battuta sul minacciato sciopero da parte di uno dei politici presenti alle riunioni rende l’idea degli umori delle parti in causa. Il responsabile di uno dei maggiori operatori del settore dice la sua a proposito della tanto discussa
legge in via di approvazione: “Non è un caso che per giustificare la misura, il governo definisca le intercettazioni ‘eccessive’ e i costi di questo strumento ‘fuori controllo’, usando le cifre in modo strumentale. Si fa riferimento di continuo agli abusi sulla divulgazione di alcune registrazioni e ai milioni di euro che noi chiediamo. Lo scopo è mettere in cattiva luce davanti all’opinione pubblica le intercettazioni tout court”.

Si tratta di una voce di parte, certo. Ma aiuta, insieme a quella di magistrati, giornalisti, forze dell’ordine, a capire meglio i termini della questione. Anche perché i numeri raccolti dai fornitori provengono dalle fatture e non dai discorsi politici. Per scongiurare lo sciopero, Alfano istituisce un’Unità di monitoraggio per le intercettazioni (Umi), decide di scorporare dalla generica voce “spese di giustizia” (la numero 1360) un apposito capitolo, il 1363,
riferito alle sole intercettazioni e soprattutto trova cento milioni per pagare le aziende. Le società, pur di recuperare un po’ di soldi, rinunciano al 10 per cento di quello che gli spetta e agli interessi maturati e da maturare. Altri 180 milioni saranno stanziati per il 2010, ma la contabilità dei fornitori, a causa dei lavori fatturati nel frattempo e dei vecchi debiti non coperti dagli stanziamenti, oggi è più o meno la stessa dell’aprile 2009. E nonostante Alfano abbia dichiarato di aver “estinto definitivamente” il debito. “Quest’anno – continua il fornitore – ho incassato il 40-45 in meno rispetto allo scorso, pur avendo fatturato agli stessi livelli. E con la nuova legge prevedo una diminuzione del lavoro del 20-30 per cento”.

Anche le società più piccole, riunite nell’Associazione italiana per le intercettazioni legali e l’Intelligence (
Iliia), sono contro il provvedimento, che “piega le gambe a centinaia di piccole e medie imprese, espressioni del miglior made in Italy”, ha dichiarato Walter Nicolotti, presidente dell’associazione. “Il nostro lavoro – ha aggiunto – richiede impegno, professionalità ed una buona dose di rischio. Lo Stato dovrebbe tenere in alta considerazione le realtà imprenditoriali di questo comparto per il lavoro che svolgono quotidianamente ma nonostante tutto il debito contratto negli anni per le intercettazioni dal ministero della Giustizia sia di 500 milioni di euro, con fatture risalenti anche al 2003. Le numerose imprese del settore intercettazioni, se la situazione non cambierà, saranno costrette a cessare la propria attività e quindi a sospendere il prezioso servizio a supporto delle investigazioni, con prevedibili ripercussioni sulla lotta alla criminalità”.

Che ridurre le intercettazioni significhi usare armi spuntate contro la criminalità, per gli operatori del settore è persino banale. E a chi crede che manager e dipendenti di queste aziende dispongono di un potere di controllo occulto e pericoloso, mostrano i propri uffici. Sono tappezzati di ringraziamenti da parte di funzionari e ufficiali delle forze dell’ordine per il contributo dato alla cattura di latitanti e alla riuscita delle indagini. Non c’è traccia però di liste di numeri di cellulare privati né di persone con le cuffie alle orecchie. “I nostri macchinari, server e singoli terminali – spiega un manager – sono ceduti in affitto alle procure e installati nelle sedi centrali e nelle sedi periferiche delle forze dell’ordine. Dove la polizia giudiziaria effettua materialmente l’ascolto, la registrazione e la trascrizione delle conversazioni. Noi riceviamo l’ordine dei magistrati di attivare e disattivare un terminale d’ascolto, è come aprire e chiudere un rubinetto, ma non sappiamo chi è il soggetto intercettato. Per assurdo, se ascoltassero me con una mia macchina, neppure lo saprei”.

È naturale che i dipendenti e i dirigenti delle società che forniscono, e a volte producono in proprio, le costosissime apparecchiature possano accedere alle registrazioni. Anche perché effettuano periodicamente la manutenzione presso i centri d’ascolto. “Ogni accesso – continua l’operatore – è comunque loggato e tracciato. Non mi sognerei di trafugare un file, mettendo a rischio i miei affari. Ma anche nel caso in cui volessi farlo, come potrei pescare una telefonata interessante tra le migliaia di ore di registrazione che le mie apparecchiature raccolgono ogni giorno?”. Una domanda che forse apre nuovi dubbi sulla
vicenda della Rcs (Research control system), il cui amministratore avrebbe passato sottobanco alla famiglia Berlusconi un file audio con l’ormai celebre conversazione tra Piero Fassino e Gianni Consorte.

Tutte le notizie sul disegno di legge sulle intercettazioni




Intercettare fa bene .Sandra Amurri


12 giugno 2010

Telecom Sparkle-Fastweb, Antonveneta: tanti i casi nei quali lo Stato ha recuperato centinaia di milioni. Le inchieste basate sugli ascolti, che saranno proibiti, hanno guadagnato molto più delle spese sostenute

Una fra le tante motivazioni offerte dai sostenitori del ddl sulle intercettazioni che fa maggiormente presa sull’opinione pubblica è che le intercettazioni costituiscono per lo Stato un costo enorme e in tempi di sacrifici vanno abolite. Peccato si tratti di un’affermazione che non corrisponde al vero. Vediamo perché. Secondo i dati ufficiali forniti dal ministero della Giustizia nel 2009 tutte le procure d’Italia hanno speso per le intercettazioni 271 milioni di euro. Di questi, 212 milioni sono il costo degli apparati, 45 milioni per spese varie e 12 milioni di euro per l’acquisizione dei tabulati telefonici. Voce quest’ultima che dal primo gennaio 2010 è stata abolita da un decreto che obbliga le società telefoniche a fornire i tabulati gratuitamente con un risparmio per le casse dello Stato di 20 milioni di euro l’anno. Decreto inutile a questo punto, visto che la legge “mette a tacere” le indagini. Un risparmio comunque che diventerebbe enorme se venisse imposto alle società di telefonia, come accade in altri Paesi europei come Francia e Germania di fornire gratuitamente le linee intercettate invece di pagarle, come accade ora, 12 euro ognuna.

DOPPIO GUADAGNO

Inoltre va detto che le società telefoniche incassano due volte per la stessa linea in quanto la telefonata viene già pagata dall’intercettato. Chiusa questa parentesi non trascurabile veniamo ai benefici che lo Stato trae dalle indagini effettuate grazie alle intercettazioni, indagini che con questa legge non si potranno più fare. Non potendo contare su dati ufficiali complessivi di tutte le inchieste d’Italia, in quanto inesistenti, offriamo ai lettori degli esempi di casi specifici. L’inchiesta della Procura di Roma
Telecom Sparkle-Fastweb ha consentito di recuperare oltre 400 milioni di euro a fronte di un costo per le intercettazioni di circa 200 mila euro. Lo Stato, dunque, grazie a questa inchiesta – che, ripetiamo, non sarà più possibile fare – ha guadagnato 399 milioni e spiccioli. A cui va aggiunto un altro dato importante. Con le intercettazioni i magistrati oltre ad aver ricavato la prova del reato hanno anche acquisito la certezza di dove il denaro si trovasse per poi andarlo a sequestrare attraverso le rogatorie visto che il tesoro veniva custodito a Hong Kong, a Singapore e in Inghilterra.

CENTINAIA DI MILIONI

Se poi si va ad aprire il file alla voce “reati finanziari” perseguiti dalla Procura di Milano vediamo che i milioni di euro recuperati sono stati 850, quasi quanto una mini finanziaria. L’ultima inchiesta in ordine di tempo quella sui furbetti del quartierino, la scalata della banca Popolare di Lodi alla Banca Antonveneta ha permesso di recuperare finora quasi 340 milioni di euro. Il costo complessivo per l’inchiesta è stato di circa 8 milioni di cui circa 3 milioni per le intercettazioni. Un altro esempio ce lo fornisce l’indagine sulla gestione della discarica di Cerro Maggiore in cui
Paolo Berlusconi e soci hanno patteggiato risarcendo oltre 50 milioni. A cui si aggiungono i 2 milioni di euro restituiti all’Anas da oltre 30 imputati dell’inchiesta sulle tangenti per gli appalti Anas per la manutenzione delle strade in Lombardia. Fino a tornare a Mani Pulite quando sono stati recuperati 850 milioni di euro. Se invece scendiamo a Sud arriviamo in Sicilia dove come spiega il neoprocuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato in qualità di coordinatore del dipartimento mafia-economica della Procura di Palermo che comprende anche Trapani e Agrigento: “Dal gennaio 2008 a oggi sono stati sequestrati 3 miliardi di euro” . Stiamo parlando di circa 40 inchieste con un costo ognuna di circa 300 mila euro per le intercettazioni, totale circa 12 milioni di euro a fronte, ripetiamo di 3 miliardi di euro.

BUSINESS DELLA MAFIA

Intercettazioni che hanno permesso di sequestrare 700 milioni di euro al re dei supermercati
Despar, Grigoli, prestanome del capo di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro. E abbiamo preso in considerazione solo tre province siciliane. Dunque, è facile immaginare che complessivamente si supererebbe la somma di 4 miliardi. La maggior parte di questi valori, individuati è stato possibile recuperarla anche all’estero, come nel caso dei 12 milioni di euro custoditi su un conto alle Bahamas, solo grazie alle intercettazioni che hanno permesso di individuare presta-nomi insospettabili. Insomma con i circa 5 miliardi recuperati solo grazie alle inchieste prese in considerazione si potrebbero finanziare tutte le intercettazioni d’Italia e rifocillare le casse dello Stato. Ma per un governo che vuole legalizzare l’illegalità e mettere la museruola al “cane” per impedirgli di abbaiare al potere ogni bugia è necessaria per sostenere l’utilità di questa legge-scempio.

LEGGI

'Cucchi, Aldrovandi e Uva sarebbero rimasti invisibili' di Simone Ceriotti

Blagojevich, la privacy e le inchieste senza bavaglio di Giulia Alliani



Da
il Fatto Quotidiano del 12 giugno

http://antefatto.ilcannocchiale.it/glamware/blogs/blog.aspx?id_blog=96578&id_blogdoc=2498308&yy=2010&mm=06&dd=12&title=intercettare_fa_bene