Con Berlusconi si manifesta un singolare fenomeno, già noto ai tempi della Democrazia cristiana. Negli anni Sessanta e Settanta erano rarissimi quelli che ammettevano di votare Dc. Ma il partito del "Biancofiore, simbol d’amore" prendeva regolarmente, a ogni elezione, il 30 per cento dei suffragi. Evidentemente chi lo votava se ne vergognava.
Così è con Berlusconi. Nei bar, nelle palestre, in piscina, ai bagni o in qualsiasi altro ritrovo pubblico che raccolga un po’ di gente, nessuno, anche quando il discorso cade sul politico, dice di votare Berlusconi.
E anche fra i giornalisti, a meno che non siano i giannizzeri del Giornale, diLibero, di Panorama, e pure qui non sempre, nessuno ti dice apertamente che sta con Berlusconi. Un poco se ne vergognano, anche loro.
Ma i berluscones si smascherano in modo indiretto. Se uno ha in orrore Di Pietro, considerandolo il vero "cancro morale" di questo paese, è molto probabile che sia un berluscones. Se vi aggiunge Marco Travaglio ne hai quasi la certezza. Se ci mette anche Giorgio Bocca è matematico.
Per Di Pietro la cosa si capisce, perché è l’unico, vero, contraltare politico del Cavaliere e, per soprammercato, porta avanti il discorso della legalità. E iberluscones detestano la legalità, naturalmente quando si pretende di richiamarvi "lorsignori", per gli altri c’è la "tolleranza zero".
Sono i liberali alla Ostellino, alla Galli della Loggia, alla Panebianco, i liberali da Corriere della Sera (scriveva un indignato Panebianco ricordando l’orribile stagione di Mani Pulite: "L’opera di repressione non doveva più occuparsi prevalentemente, come aveva sempre fatto, dei ‘deboli’ e dei reietti, ma poteva rivolgersi anche ai potenti" – Corriere della Sera, 20/9/1999 – e in un altro pregevole scritto "Non parliamo d’altro che di 'corruzione', 'concussione', 'abuso di ufficio' e non ci accorgiamo dei reati di vero allarme sociale che sono quelli della microcriminalità", e ancora "La legalità, semplicemente non è, e non può essere, un valore in sé" – Corriere, 16/3/1998).
Peraltro l’orrore per il "giustizialista" (altra parola magica che smaschera ilberluscones occulto) Di Pietro è un poco contraddittorio. L’intera classe politica attualmente in sella, berluscones in testa, non esisterebbe se non ci fosse stato il "giustizialista" Di Pietro. Particolarmente grottesca è l’avversione a Di Pietro degli ex Msi, ex An, oggi Pdl che, dopo essere stati espunti per decenni dalla politica con la truffa dell’"arco costituzionale", tornarono all’onor del mondo proprio grazie aMani Pulite.
Dove sarebbe oggi, senza Di Pietro, per esempio l’onorevole La Russa, disonorevole ministro della Difesa? Sarebbe ancora nelle catacombe a fare il "cattivo maestro" di ragazzi che poi, sotto quelle suggestioni, andavano magari a rovinarsi tirando qualche bombetta (Murelli e Loi).
Travaglio è scontato. Sulla legalità ha un rigore torinese, jansenista. Sia a destra sia a sinistra per la verità, ma il berluscones non va tanto per il sottile. Quando però gli chiedi cosa rimprovera a Travaglio, farfuglia. Il massimo che riesce a dire è che "con i libri su Berlusconi ci ha fatto i soldi". Che è come dire che Sciascianon doveva fare le denunce di Todo modo perché quel libro ha venduto.
Ma il più incomprensibile, e quindi il più significativo, è Giorgio Bocca. Se in una conversazione salta fuori, per qualsiasi motivo, il nome di Bocca, ilberluscones occulto cade in deliquio, fa il ponte isterico, gli viene la schiuma alla bocca e manca poco che venga preso da una crisi epilettica. Eppure Bocca è stato il primo giornalista italiano di sinistra, ma anche non di sinistra, a denunciare sulGiorno, in un memorabile reportage degli anni ‘60, che cosa fosse realmente la gloriosa Unione Sovietica.
Meriterebbe un posto d’onore nel mondadoriano e berlusconiano opuscolo "Il libro rosso degli orrori del comunismo". Invece i berluscones lo odiano. E si vedono anche delle sciacquette del giornalismo nostrano, gente che ha cominciato a scrivere editoriali, cioè temi da liceo, a vent’anni, e a trenta, non avendo fatto alcuna esperienza sul campo, non san più che dire, storcere il naso di fronte al nome di Giorgio Bocca e alla sua straordinaria carriera che gli permette, alle soglie dei novant’anni, di essere ancora perfettamente lucido sulla pagina.
"Non devo alcun rispetto a Bocca" scriveva tempo fa un pinchetto di cui non ricordo il nome, poniamo un Facci qualsiasi, mentre dovrebbe fare i gargarismi prima di pronunciare il suo nome invano. Comunque sia un indizio è un indizio. Tre indizi (Di Pietro, Travaglio, Bocca) fanno una prova.
Quindi se vi capita in casa un tipo mellifluo, che affetta equidistanza, ma quando sente i nomi di quei tre ha reazioni da demonio finito in un’acquasantiera, potete andare sul sicuro: è un berluscones doc. E cacciatelo a pedate nel culo perché non ha nemmeno il coraggio civile di essere ciò che è.
Da il Fatto Quotidiano dell'11 febbraio
Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
giovedì 11 febbraio 2010
La vergogna di dirsi berlusconiani - Massimo Fini
Scandalo annunciato - Peter Gomez
Da Il Fatto Quotidiano, 11 febbraio 2010
L’inchiesta fiorentina sulla Protezione civile e sui 337 milioni di euro sottratti ai contribuenti e bruciati nei lavori del G8 (mancato) alla Maddalena è una fotografia perfetta dello stato del paese.
L’inchiesta fiorentina sulla Protezione civile e sui 337 milioni di euro sottratti ai contribuenti e bruciati nei lavori del G8 (mancato) alla Maddalena è una fotografia perfetta dello stato del paese.
Al di là di quelli che saranno gli esiti dell’indagine, già ora si sa che intorno a Guido Bertolaso negli anni è nato, ed è stato foraggiato, un sistema di scambi di favori e diassegnazione degli appalti perfettamente bipartisan.
Grazie al Segreto di Stato, imposto da Prodi e confermato da Berlusconi, alla Maddalena i criteri di affidamento dei cantieri sono rimasti per tutti un mistero.
Così, con la scusa della sicurezza – che fa il paio con quella dell’emergenza – ad un’azienda da appena 26 dipendenti dichiarati, la Anemone Costruzioni, si è persino riusciti a regalare lavori per 58 milioni di euro.
E quando, il 23 dicembre del 2008, Fabrizio Gatti su L’Espresso, ha rivelato che l’Anemone era legata a doppio filo (affari) alla famiglia del braccio destro di Bertolaso, Angelo Balducci, ora in manette, nessuno ha battuto ciglio.
In Parlamento è stata presentata, a firma radicale, un’unica interrogazione.
Balducci, equanimamente vicino al ministro Altero Matteoli e all’ex leader Pd, Francesco Rutelli, invece, è rimasto seduto sulla sua nuova poltrona di presidente del Consiglio superiore delle opere pubbliche, mentre il governo ha addirittura pensato di trasformare la Protezione civile in una Spa.
Un sistema perfetto per gestire i soldi pubblici lontano da ogni verifica.
Oggi quindi ci si può giustamente indignare per un premier come Berlusconi che prima ancora di conoscere gli atti attacca i giudici e difende a prescindere tutti gli indagati.
Ma bisogna anche ricordare che nelle democrazie normali, a controllare chi governa, prima ancora della stampa e della magistratura, deve essere l’opposizione. Sempre che non vada abitualmente a pranzo o a cena con il Bertolaso o il Balducci di turno.
E, per saperne di più:
Meno male che Silvio c'è - Peter Gomez
Adesso negano tutti. Quelli che c’erano e quelli che non c’erano. Nega Gianfranco Micciché, nel 1994 coordinatore di Forza Italia nella Sicilia occidentale, che dice: "Mai nessun mafioso ha avuto contatti, né rapporti con me". Nega Sandro Bondi che all’epoca aveva appena lasciato Fivizzano per approdare in quel di Arcore. E nega Giancarlo Galan, che c’era, ma che stava in Veneto. Tutti sono d’accordo. Massimo Ciancimino è un calunniatore manovrato: tra la Forza Italia delle origini e Cosa Nostra non c’è mai stato alcun rapporto.
Ha ragione il sindaco di Palermo, Diego Cammarata, che, in qualità di dirigente, ricorda come le adesioni al partito avvennero "senza concedere mai alcuno spazio a personaggi che fossero in qualche modo anche lontanamente assimilabili ad ambienti collusi con la criminalità organizzata".
La storia però è tutta diversa. E a raccontarla non sono solo i processi, ma persino le collezioni dei giornali. Infatti se è sbagliato dire che Berlusconi vinse le elezioni del ‘94 (solo) grazie all’appoggio della mafia o che Forza Italia è nata per (esclusivo) volere di Bernardo Provenzano, altrettanto errato è affermare che Cosa Nostracon il movimento del Cavaliere non c’entra.
Anche perché già il 12 aprile del ‘94, il presidente della Commissione antimafiaTiziana Parenti, appena eletta nelle fila del partito del Cavaliere, denunciava a chiare lettere il "rischio di infiltrazioni mafiose.
In quei giorni si era spenta da poco l’eco della campagna elettorale. In Sicilia come nel resto del Paese erano nati centinaia di club azzurri. E visto che per fondarli bastava inviare un fax con cinque firme alla sede del partito, dentro ci si trovava di tutto.
Così, a Capaci, il paese della strage, una settimana prima delle elezioni, una bandiera di Forza Italia viene piazzata sul balcone della palazzina del boss locale, in quel momento in carcere.
A Misilmeri, invece, il responsabile del club cittadino, l’incensurato Giovanni La Lia si sente spesso per telefono con uno degli autori della strage dei Georgofili, a Firenze. Mentre ad Altofonte, coccarde e volantini sono distribuite da Mario Gioè, fratello di Nino, l’uomo d’onore morto suicida in carcere dopo essere stato arrestato per la bomba a Falcone. Angelo Codignoni, il responsabile nazionale dei club, smentisce che Gioè abbia ufficialmente fatto parte del movimento, ma per ironia della sorte, il 5 febbraio 1994, presenta Forza Italia ai siciliani nelle sale delSan Paolo Palace, l’albergo di un imprenditore condannato come prestanome, dei fratelli Graviano, i due boss di Brancaccio ora sospettati di essere in rapporti conMarcello Dell’Utri e Berlusconi.
E il club viene poi chiuso da Micciché. A Villabate, intanto, la fa da padrone Nino Mandalà, amico ed ex socio di Renato Schifani e Enrico La Loggia, che di li a poco prenderà in mano la locale famiglia mafiosa. Mentre il movimento politico di Sicilia Libera, fondato per volontà del cognato di Riina, Leoluca Bagarella, vede una serie di suoi aderenti confluire negli azzurri.
Decine di pentiti sono concordi nell’affermare che nel ‘94 arrivò l’ordine di schierarsi col Polo. Dice, per esempio, Pasquale Di Filippo, genero del boss della Kalsa Tommaso Spadaro: "Mi ricordo che mio suocero mi disse: 'Dovete votare per Berlusconi'. Tutta Palermo sapeva che doveva votare Berlusconi".
Anche se l’ex braccio destro di Provenzano, Nino Giuffrè, spiega: "Forza Italia non l’abbiamo fatta salire noi. Ma il popolo stanco della Dc. E noi furbi abbiamo preso la palla al balzo. Tutti Forza Italia".
Così, tra chi sostiene e fa campagna per il cavaliere, ecco anche il commercialista di Totò Riina, Pino Mandalari, un potente massone, già arrestato negli anni Settanta, e poi condannato a dieci anni di carcere.
In quei giorni i telefoni di Mandalari sono sotto controllo. La polizia lo sente lamentarsi perché a una riunione Micciché non lo ha fatto salire sul palco, ma poi lo ascolta mentre chiama Michele Fierotti e Filiberto Scalone di An e mentre parla con la segreteria di La Loggia che chiama pure a casa chiedendo di Enrico.
Certo, una volta interrogati tutti, a partire da Mandalari, negano (La Loggia) o minimizzano. Ma l’impressione che non si sia andati troppo per il sottile, resta. E diventa più evidente con il passare del tempo. Nel 1995, per esempio, entra in Forza Italia, Giovanni Mercadante, senza che nessuno dica niente sulla sua stretta parentela con il boss di Prizzi (legato a Provenzano), Tommaso Cannella. Il risultato è che Mercadante passa dal comune alla regione e infine approda nelle patrie galere.
Selezione della classe dirigente? Nessuna. Tanto che nel ‘96, diventa addirittura presidente della regione l’ex commercialista della moglie di zio Bino. Si chiama pure lui Provenzano (Giuseppe, ma è un’omonimia), è stato in prigione, poi però l’hanno prosciolto per insufficienza di prove. Per la politica quasi una medaglia. Per la mafia, che certamente ha frainteso tutto, l’ennesimo segnale.
da il Fatto Quotidiano del 10 febbraio
Insider trading e aggiotaggio: la mafia in Borsa
di Aaron Pettinari - 9 febbraio 2010
Milano. Non solo edilizia. L'infiltrazione mafiosa nell'economia legale ha diverse forme di espletamento e di certo non sfuggono gli investimenti in borsa. I finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Milano, con un'operazione partita 4 anni fa, hanno indagato 18 persone, alle quali martedì è stato notificato l'avviso di conclusione indagini, che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio.
La complessa indagine denominata "Texada" costituisce lo stralcio di una più vasta inchiesta che ha visto protagonisti gli affiliati alla nota famiglia mafiosa dei Rizzuto, con base a Montreal (Canada), nei cui confronti sono stati già effettuati arresti nell'ottobre 2007 (operazione "Gold Moustache"). I reati contestati sono di associazione per delinquere finalizzata all'insider trading e all'aggiotaggio, con l'aggravante della transnazionalità. Secondo l'accusa i 18 indagati italiani, tra cui figurano anche promoter finanziari e dipendenti di società di intermediazione mobiliare, operavano sui mercati regolamentati italiani e stranieri, tramite sofisticate tecniche di Borsa, con lo scopo di truffare i risparmiatori. In pratica gonfiavano e sgonfiavano artificiosamente i prezzi dei titoli sul mercato, un metodo chiamato “market abuse”. In particolare i promotori “promuovevano” investimenti sugli andamenti del titolo “Infinex”, quotato all'Over the counter della Borsa statunitense e al mercato regolamentato di Brema e Berlino. A passare le “dritte” erano i boss Roberto e Antonio Papalia, soci della Infinex Ventures Inc. Le informazioni, talora false, servivano a pilotare la movimentazione dei titoli, «anche servendosi di banche svizzere», ai danni sia degli stessi istituti di credito, sia dei risparmiatori.
Tra queste informazioni sensibili - si legge nel documento di chiusura delle indagini firmato dal pm Bruna Albertini - c'è “nel giugno - luglio 2004 l'imminente uscita di notizie che avrebbero fatto salire il titolo Infinex quali la prossima distribuzione di un dividendo consistente in una azione ogni 10 possedute, per il quale la società stava predisponendo gli incartamenti da presentare alla Sec e successivamente avrebbe annunciato tale fatto attraverso gli organi di informazione”. E ancora è presente la notizia che nell'ottobre 2004 ci sarebbe stato “un imminente aumento di capitale della società Infinex Ventures per circa 100 milioni di dollari, grazie all'ingresso di un nuovo socio con disponibilità patrimoniale quantificata da Roberto Papalia in 22 alberghi tra cui uno a Pompei, 2 casinò oltre a sviluppi immobiliari in Spagna e Santo Domingo”. Nel 2006 gli indagati hanno quindi contribuito a divulgare l'informazione privilegiata, poi rivelatasi falsa, che la società Infinex “avrebbe acquisito il 50% dei diritti appartenenti a tale Francesco Rodolfo, di estrazione di oro in una grossa miniera in territorio cileno”. Il profitto accumulato dagli indagati e dai loro mandanti, nei quattro anni di manipolazione del titolo “Infinex”, ammonta a circa 15 milioni di euro, veicolati - attraverso l'apertura di conti correnti in Svizzera - nelle casse canadesi dei boss. Tra gli indagati figurano alcuni personaggi già noti alle cronache per avere in passato abusivamente sollecitato il pubblico risparmio su alcuni investimenti rivelatisi in seguito truffaldini. È stato altresì tentato, senza riuscirvi, di acquisire il controllo di una Società di intermediazione mobiliare (Sim) milanese.
De Luca, l'Idv e l'acclamazione barzelletta - Peter Gomez
Il voto per acclamazione con cui i delegati dell'Idv hanno deciso di appoggiare la candidatura di Vincenzo De Luca alla presidenza della regione Campania è un errore politico che costerà molto caro al movimento di Antonio Di Pietro. D'ora in poi, e con piena ragione, chiunque potrà ricordare quanto è avvenuto a Salerno e affermare che l'Italia dei Valori applica il sistema dei due pesi e delle due misure. Se De Luca corre per la poltrona di governatore con due processi in corso, perché non deve poter governare o candidarsi chi è nella sua stessa situazione? Detto in altre parole: qual è la differenza tra De Luca, Berlusconi o Fitto?
Badate bene, qui non si tratta di discutere di etica, di giustizialismo, di selezione delle classi dirigenti demandata (sbagliando) alla magistratura, o di altro. Il problema invece è la coerenza. Anche perché in politica vincono i messaggi semplici. E quello lanciato con la standing ovation al congresso dell'Idv in favore di De Luca, lo è.
Tanto che, questa volta, viene difficile dar torto al vice-capogruppo dei senatori del Pdl, Gaetano Quagliariello, quando parla di decisione "barzelletta".
Dopo la svolta di Salerno, l'Italia dei Valori finirà insomma per pagare pegno. E lo farà persino se De Luca dovesse sconfiggere il suo scialbo (ma formalmente immacolato) avversario. È noto, infatti, che quello Di Pietro è prima di tutto un movimento che raccoglie il voto di opinione. Per questo va generalmente male alle elezioni amministrative, mentre recupera terreno alle politiche o alle europee. Il caso De Luca fa adesso correre seriamente il rischio che il movimento di opinione alle spalle dell'Idv si disperda o finisca per rivolgersi una volta ancora al Partito Democratico o a quello che ne resta. Ne valeva la pena? Pensiamo di no.
È vero, la scelta di sostenere De Luca era quasi ineluttabile. Di altri candidati in Campania non ce n'erano. Anche perché in questi mesi né il Pd, nè l'Idv si sono dati troppo da fare per trovarli. E Luigi De Magistris, l'unica persona che presentandosi all'ultimo momento avrebbe messo in crisi il gioco pro De Luca, non lo ha fatto. Finendo così per caricarsi sulle spalle, a causa dei suoi tatticismi e della sua mancanza di coraggio, una parte rilevante della responsabilità dell'accaduto. Ma, in ogni caso, c'è modo e modo per appoggiare una candidatura del genere.
Un partito lo può fare dimostrando a tutti che sta ingoiando un rospo. Che si sta muovendo solo per dovere di coalizione dopo che con il Pd è stato raggiunto un accordo a livello nazionale. Oppure può evitare, o quasi, il dibattito. Può risolvere tutto in mezza giornata, per poi andare gioiosamente, e tra il tripudio di delegati e dirigenti, verso uno degli errori più clamorosi della sua breve storia.
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