di Pietro Orsatti - 21 giugno 2010
Una vecchia inchiesta aggiornata. Per non dimenticare.
Primo giorno di estate, e come ogni anno ci si aspetta la folla di turisti. La villa comunale si affaccia su uno dei tratti più spettacolari della costa della Sicilia occidentale, Castellammare del Golfo. Antico porto di Segesta e poi primo emporio arabo in questo tratto di costa. Oggi motore dello sviluppo turistico dell’area. Dalla terrazza della villa la vista è di quelle che mozza il fiato. Il porticciolo pieno di barche da diporto, le scogliere, il mare una tavola. Un paradiso. Non solo per la folla di tedeschi arrossati dal sole di Sicilia. Non solo.
Per decenni questo porto, e la sua flotta di pescherecci, rappresentò il centro del traffico mondiale di droga. Subito dopo la seconda guerra mondiale Castellammare del Golfo divenne, con un accordo fra iboss palermitani e trapanesi e i cugini negli Stati Uniti, uno dei centri potenti della nuova mafia emergente. Luogo di coincidenza di interessi tra mafiosi siciliani e boss siculo-americani. In una riunione del 1957 al Grand hotel des palmes, uno dei più prestigiosi di Palermo, e a cui partecipò anche Lucky Luciano, venne sancito il patto di investitura di Castellammare come porta verso l’esterno dei clan, strappando di fatto il controllo del traffico degli stupefacenti ai clan marsigliesi fino ad allora “leader” incontrastati in questo businnes. Il summit, storicamente documentato in vari processi e sentenze, avvia quel processo di trasformazione della mafia tradizionale in quella dei corleonesi. E dimostra i legami mai troncati fra clan siciliani e cugini d’oltre Atlantico. Da quel momento Castellammare del Golfo è la base delle attività criminali legate al traffico dell’eroina. Viene scelto come quartier generale dei clan il Motel beach della vicina spiaggia di Alcamo Marina, di proprietà del boss Vincenzo Rimi. Nel 1985, la scoperta della grande raffineria di eroina di contrada Virgini, nelle vicine campagne di Alcamo, conferma la solidità e stabilità dell’attività criminale. La gestione del traffico internazionale è affidata a siculo-americani oriundi proprio della zona. La configurazione di questo tratto di costa, compresa tra Punta Raisi e Punta San Vito Lo Capo, favorisce il contrabbando e ogni altra attività clandestina: per questo l’area è nota da sempre agli inquirenti come centro di attività illecite. E Castellammare del Golfo è il centro, è il porto dei feroci clan vincenti dei corleonesi, immune da ogni indagine o ingerenza dello Stato nella quotidianità mafiosa fino a diventare addirittura luogo di vacanza di latitanti con a seguito l’intera famiglia. Tutto alla luce del sole. A due passi da qui hanno preso i Lo Piccolo. Corleone e Montagna dei Cavalli, luogo dove ha trascorso in libertà gli ultimi mesi Bernardo Provenzano, è a mezz’ora di macchina. Questo territorio è uno dei luoghi di dorata latitanza del boss viveur Matteo Messina Denaro. Perché qui i boss fanno i latitanti in casa propria, nel proprio paese, mantenendo inalterata la propria rete di affari e protezioni.
È qui che nasce anche il mito di Francesco Messina Denaro, il ministro degli esteri di Totò Riina e padre dell’attuale super ricercato Matteo. Sconosciuto alla giustizia per quasi vent’anni, nonostante il suo ruolo di raccordo con gli Stati Uiti e “formatore” alle tradizioni di Cosa nostra dei picciotti nati all’estero. Francesco muore in casa propria nonostante siano stati spiccati per lui diversi mandati di cattura; i parenti fanno trovare il cadavere pulito e composto su un vialetto di campagna. Il figlio Matteo, già latitante come il padre, acquisterà annunci sui giornali locali che puntualmente li pubblicheranno.
Un’eredità pesante per questa zona. Che oggi si fa sentire ancora di più. La folla di turisti ignari si disseterà all’ombra degli alberi secolari. La stagione turistica anche quest’anno andrà bene nonostante la crisi. Zona prestigiosa, ma con una storia controversa, sembra reggere alla flessione nazionale e isolano del settore. E poi anche altri tipo di affari, a quanto sembra.
L’eroina e i centri di raffinazione, secondo dati rilasciati dalla direzione distrettuale Antimafia di Palermo, sono stati subappaltati ai clan calabresi, mentre «a 50 anni dall’incontro fra i boss siciliani e i cugini americani al Grand hotel et des palmes, il legame fra i boss d’oltreoceano e quelli dell’isola fa registrare una nuova fase di sviluppo. E il ruolo di Castellammare del Golfo nei traffici marittimi della droga, saldamente sotto il controllo del boss Matteo Messina Denaro, è ancora centrale». Questa la ricostruzione che fa il sostituto procuratore Sergio Barbiera dell’attuale situazione criminale. Qui si gioca la continuità della vecchia mafia corleonese, l’eredità dei rampolli dei Riina e dei Vitale, dei Bagarella e dei Messina Denaro. Qui, oggi, si gioca la riorganizzazione di Cosa nostra. E non è un caso che in questo triangolo di territorio (Partinico-Borgetto, Corleone, Castellammare del Golfo) si sia continuato ad ammazzare per anni. Oggi, dopo la cattura a Calatafimi lo scorso novembre del boss Domenico Raccuglia, in questa fase di riorganizzazione, gli inquirenti segnalano un ritorno dei contatti diretti fra mafia della Sicilia occidentale ed esponenti dei clan americani tornati in libertà dopo le condanne dei processi di Pizza connection e Iron tower. Non più eroina al centro dei traffici, ma cocaina prodotta in Sudamerica. I boss americani acquistano quintali e quintali di coca, che poi viene spedita in Italia a bordo di navi dirette nei porti siciliani e non solo: segnalazioni e sequestri si sono succeduti anche a Genova, Livorno, Civitavecchia, Salerno e Gioia Tauro. Le indagini degli ultimi infatti, infatti, indicano che a Palermo Salvatore Lo Piccolo e la famiglia delboss Nino Rotolo gestivano la distribuzione della cocaina tra alcuni grandi fornitori italiani, dividendo poi i proventi del traffico con i cugini americani. L’arresto dei Lo Piccolo ha solo rallentato la riorganizzazione del traffico, che oggi in molti indicano come “fiorente”. E si inserisce anche una novità organizzativa non da poco conto: la manovalanza dei clan non si ricerca solo fra i picciotti iniziati a Cosa nostra, ma entrano in gioco anche “stranieri” (immigrati a basso costo) e persone esterne all’organizzazione. Anche per il narcotraffico, a quanto sembra, iniziano a valere le regole della globalizzazione e delle “esternalizzazioni”.
Come confermano anche i pentiti. La provincia trapanese di Cosa nostra rimane al centro di intrecci che ne fanno un modello criminale unico. Il pentito di mafia Antonino Giuffrè, fino al 2002 componente della “cupola” di Bernardo Provenzano, ha dichiarato ai magistrati: «Allo stato attuale Trapani e in particolare il paese di Castellammare del Golfo rappresentano una delle zone più forti della mafia, non solo perché la meno colpita dalle forze dell’ordine, ma soprattutto perché punto di riferimento non solo di traffici normali, come droga e armi, ma anche luogo dove si incontrano alcune componenti che girano attorno alla mafia. È un punto di incontro della massoneria, ma anche per i servizi segreti deviati».
E come sempre avviene, anche la politica e gli affari apparentemente leciti entrano a pieno titolo nelle vicende di Cosa nostra. «Una caratteristica di Cosa nostra trapanese – ha scritto il prefetto Giovanni Finazzo in occasione di una visita della commissione parlamentare Antimafia nella scosa legislatura – è stata l’aver preferito nell’ultimo decennio ai canali di riciclaggio proprio, e cioè scaturente da attività illecite, l’infiltrazione massiccia nelle medie e grandi attività produttive e il mantenimento di canali diretti e indiretti con gli ambienti della politica locale e delle pubbliche istituzioni». E da Castellammare a Trapani è un attimo. Il territorio è permeabile e accogliente. È facile poi reinvestire “legalmente” il denaro accumulato illecitamente con l’estorsione, gli appalti e la droga. Trapani è una provincia che ha un numero di sportelli bancari impressionante, ben 177, una media di 0,4 ogni mille abitanti. Non a caso: è qui che Messina Denaro e Provenzano avviarono investimenti nel settore dell’ambiente (anche l’eolico) e della gestione dei rifiuti. Ed è qui che si intreccia il potere dei corleonesi e dei loro rampolli con la massoneria.
«L’associazione massonica, con riferimento a quella deviata – ha scritto ancora il prefetto di Trapani – per la sua struttura organizzativa, ha rappresentato talvolta uno dei momenti privilegiati di incontro, dialogo e integrazione tra la criminalità mafiosa e gli ambienti politico-istituzionali in grado di favorire Cosa nostra nel raggiungimento dei suoi obiettivi». Attirando anche altri “fratelli” da altre regioni, in particolare dalla Calabria. Che per la Santa, l’evoluzione moderna della ‘ndrangheta, Trapani e le sue logge coperte e i suoi affari siano un punto di riferimento da anni non è un mistero per nessuno. E’ nelle carte processuali, è nei racconti dei pochissimi pentiti di ‘ndrangheta. Non è più un’ipotesi. Così è e così si va avanti.
In questo quadro, non stupisce che il 23 marzo 2004 il consiglio dei ministri abbia deciso lo scioglimento del consiglio comunale di Castellammare del Golfo, dove sono state accertate forme di condizionamento da parte della criminalità organizzata. Lo scioglimento del consiglio comunale di Castellammare del Golfo nel Trapanese arriva dopo l’azione ispettiva del ministero dell’Interno decisa a seguito dell’operazione “Tempesta”, coordinata dalla direzione distrettuale Antimafia di Palermo e condotta dalla squadra mobile di Trapani. Un’inchiesta che ha portato, oltre che all’arresto di 23 presunti affiliati a Cosa nostra, alla scoperta di connivenze tra mafia e politica. Nell’inchiesta sono rimasti coinvolti, tra gli altri, il dirigente e un funzionario dell’ufficio tecnico comunale, Antonio Palmeri e Vincenzo Bonventre. Entrambi accusati di abuso d’ufficio con l’aggravante di aver favorito Cosa nostra, si sarebbero prodigati, secondo i magistrati, per concedere, in maniera illegittima, autorizzazioni edilizie al presunto capomafia locale, Francesco Domingo, che aveva interessi nella ristrutturazione di un immobile, destinato a diventare struttura turistica. Dalle intercettazioni ambientali e telefoniche è emerso un quadro inquietante: i burocrati del Comune erano preoccupati non tanto di essere scoperti dalle forze dell’ordine, ma di non riuscire ad assecondare le pressanti richieste che provenivano dalla “famiglia” mafiosa. Tre anni di commissariamento, l’intero quadro politico locale azzerato. Poi nuove elezioni.
«Io non so quante persone erano coinvolte. So solo che la giunta precedente è stata sciolta per mafia». A parlare è un giovante consigliere comunale poche settimane dopo la sua elezione, dopo tre anni di commissariamento, a Castellammare del Golfo. Anche lui a prendere il fresco sotto gli alberi della villa comunale, sembra un turista appena risalito dalla spiaggia. Un granita, un caffè. E qualche domanda scomoda a cui è difficile rispondere. «Non sto a dirti quanti e chi erano. Anche perché non lo so». Tutti sanno, ma non in pubblico. È una storia da lasciarsi dietro alle spalle, soprattutto durante la stagione turistica, soprattutto con l’avvicinarsi dell’approvazione del bilancio della neo eletta assemblea regionale siciliana: un’incognita dopo il cambio di guardia fra Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo. Ma le “voci” continuano a circolare, e non si tratta solo di “memorie” di un periodo ormai superato.
Le “voci” parlavano della presunta ineleggibilità di alcuni (quattro) candidati poi puntualmente eletti: persone elette in un consiglio comunale con il quale avevano alcuni contenziosi legati a sanatorie e concessioni edilizie. Dalle voci non si è passati ad altro: la commissione elettorale ha sancito l’eleggibilità e quindi stop. Al limite si può parlare di “inopportunità” politica, ma null’altro. Ma per quanto riguarda il neo eletto sindaco Marzio Bresciani la questione è un po’ più complicata. E più difficilmente superabile. Parliamo di un sindaco eletto con più del 60 per cento dei consensi, che doveva rappresentare la rinascita democratica e il ritorno della legalità dopo gli anni del commissariamento. E qui non si tratta più solo di “voci”.
Marzio Bresciani è un noto imprenditore della zona e in passato consigliere delegato della Sicilgesso, forse la più importante industria dell’area. Il 13 febbraio del 2003 è stata depositata presso il tribunale di Trapani una sentenza che, anche se non lo condanna, lo riguarda molto da vicino. Emerge dall’atto, infatti, come la Sicilgesso avesse pagato per anni a due clan il pizzo (20 milioni di lire l’anno a ciascuno), vista anche la sua posizione geografica, ovvero al confine fra il territorio di Alcamo e di Calatafimi. A confermarlo le testimonianze dei pentiti Vincenzo Ferro, Giuseppe Ferro e Vincenzo Sinacori. Convocati in tribunale, Marzio Bresciano e il presidente della Sicilgesso Antonino Cascio «hanno negato di aver mai ricevuto richieste né di aver mai pagato». E si legge ancora nella sentenza del tribunale di Trapani: «Ancora una volta, a fronte dell’assenza di contributo conoscitivo da parte delle persone offese, importanza fondamentale riveste la mappa delle estorsioni trovata nelle mani di Melodia Ignazio nella quale si legge testualmente “sicilgesso per Alcamo e Calatafimi a metà”».
Ora la domanda è: come è possibile che venga eletto a sindaco “post commissariamento”, e con percentuale bulgara, un imprenditore che, stando agli atti processuali, per anni avrebbe pagato il pizzo a ben due clan mafiosi, rifiutandosi sia di denunciarli che di testimoniare al processo? Certe domande, sotto il sole di Sicilia, e con il paese che si sta per riempire di turisti, non si fanno.