mercoledì 17 aprile 2013

Il PD.



Arrivano in politica per fede comunista, pian piano cominciano ad amare il capitale accumulato e quindi la proprietà privata. Oggi sono diventati tutti ipotetici piccioni viaggiatori, scompaiono e ricompaiono negli archi magici del momento. Pensavo che il passaggio da comunista ad opportunista fosse un viaggio complesso, purtroppo è un modesto logorio..

(Antonio Recanatini)


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Il PD esce allo scoperto e ...



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Milena Gabanelli.

Milena Gabanelli

"Mi rivolgo ai tanti cittadini che hanno visto in me una professionista sopra le parti e quindi adeguata a rappresentare l’inizio di un cambiamento nel Paese. Sono giornalista da 30 anni e ho cercato sempre, in buona fede, di fare il mio mestiere al meglio; il riconoscimento che in questi giorni ho ricevuto mi commuove, e mi imbarazza.

Certamente non mi sono mai trovata in una situazione dove sottrarsi è un tradimento e dichiararsi disponibile un segno di vanità. Forse non si sta parlando di me, ma dell’urgenza di dare un volto a un’aspettativa troppo a lungo tradita.

Che io non avessi le competenze per aspirare alla Presidenza della Repubblica mi era chiaro sin da ieri, ma ho comunque ritenuto che la questione meritasse qualche ora di riflessione. E non è stata una riflessione serena.

Quello che mi ha messo più in difficoltà in questa scelta è stato il timore di sembrare una che volta le spalle, che spinge gli altri a cambiare le cose ma che poi quando tocca a lei se ne lava le mani. Il mio mestiere è quello di presentare i fatti, far riflettere i cittadini e spronarli anche ad agire in prima persona. Ma quell’agire in prima persona è tanto più efficace quanto più si realizza attraverso le cose che ognuno di noi sa fare al meglio.

Io sono una giornalista, e solo attraverso il mio lavoro – che amo profondamente – provo a cambiare le 
cose, ad agire in prima persona, appunto.


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Fatture false, fondi neri, conti all'estero Arrestato l'ex sottosegretario Malinconico.


Monnezza d'oro a Napoli
Arrestato l'ex vice di Monti

Il tecnico di Monti ai domiciliari per una inchiesta di Napoli sull'appalto del sistema di tracciabilità dei rifiuti.


Fatture false per circa 40 milioni di euro, un appalto di 400 milioni di euro in cinque anni per un sistema di tracciabilità dei rifiuti. Ma anche conti correnti cifrati all’estero e società estere in paradisi fiscali del Delaware sono serviti a dare tangenti.C'è anche l'ex sottosegretario Carlo Malinconico tra i 22 destinatari dell'ordinanza di custodia cautelare nell'inchiesta sul sistema Sistri disposta dalla Procura di Napoli. Per lui sono stati disposti gli arresti domiciliari. A Malinconico, agli arresti domiciliari, secondo le indagini dei finanziari, come riporta l'Ansa, sarebbe riconducibile un documento in cui verrebbero indicate una serie di consulenze per un milione di euro che l'imprenditore Francesco Paolo Di Martino (anche lui agli arresti) avrebbe pagato a Malinconico, all'epoca dei fatti presidente di una commissione tecnica sul Sistri del Ministero dell'ambiente. Tra gli arrestati Sabatino Stornelli (ex Ad Selex Management, gruppo Finmeccanica) e il fratello Maurizio Stornelli. Gli altri destinatari delle misure cautelari sono gli amministratori di   società compiacenti che si sarebbero prestati “attraverso le loro aziende a fungere da collettori per il trasferimento dei proventi corruttivi - spiegano in procura - e per l’emissione delle false fatture”. Emesso anche un decreto di sequestro preventivo per oltre 10 milioni di euro in corso perquisizioni. I reati contestati vanno dall’associazione per delinquere finalizzata all’emissione e l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, corruzione di pubblici ufficiali, dichiarazioni fraudolente. 
Per il Pm di Napoli, Selex, in violazione delle previsioni contrattuali e delle esigenze di sicurezza nazionale, legate alla posizione del segreto di Stato sul sistema, ha fatto ricorso a terzi per realizzarne una parte (progettazione, realizzazione e distribuzione dei dispositivi tecnici, formazione del personale, realizzazione dei centri nei quali collocare le infrastrutture tecnologiche e gestione del call-center). Le indagini hanno evidenziato continui ritardi nell’avvio del Sistri, ancora oggi non operativo nonostante l'esborso annuale di denaro pubblico. Scoperto anche un sistema di false fatturazioni e sovrafatturazioni tra Selex e società direttamente o indirettamente riconducibili a un imprenditore campano arrestato, e la creazione di fondi neri utilizzati in parte a beneficio dell’ex amministratore di Selex Service Management, di suo fratello, di persone loro vicine, e nella disponibilità in parte dell’imprenditore. Attraverso falsi contratti forniture creati anche fondi per sponsorizzare con cifre definite "esorbitanti" la squadra di calcio abruzzese. 

Alessandra De Giosa - Copia della lettera che ho inviato alla presidenza della repubblica.


Alessandra De Giosa


Presidente spero legga questa lettera .perchè sono disperata. 

MI chiamo Alessandra De Giosa vivo a Bari e sono invalida all'80% sento da parecchio vociferare che saranno penalizzati gli emolumenti economici per noi disabili...... 

IO posso dire solo una cosa mi sono distrutta la salute per ottenere un laurea a pieni voti e con le mie forze.... ho cercato onestamente lavoro per anni, più di qualcosa di precario e temporaneo non ho trovato.

MI sono adattata tranquillamente a tutto ciò che di onesto ho trovato.... 

Poi sono peggiorata in modo irreversibile e con tutte le certificazione reali ed effettive sono stata dichiarata invalida ..... mi è stato assegnato questo assegno minimo che mi permette di non dovere dipendere totalmente da un padre pensionato di 88 anni ora si minaccia di togliere anche questo miserrimo assegno . 

IO vivo in fitto e le dico molto semplicemente che se mi sarà revocato quel minimo di pensione MI SUICIDO SENZA PENSARCI 2 Volte , la ringrazio e la saluto cordialmente . 

Alessandra De Giosa .

https://www.facebook.com/alessandra.degiosa.1/timeline/story?ut=32&wstart=1364799600&wend=1367391599&hash=10201111450857047&pagefilter=3&ustart=1

Rita Pani - Apolide

Rita Pani

L’urlo di mia madre dalla cucina, mentre tintinnavano le tazze della colazione, e l’odore del caffè si spandeva per tutta casa, arrivava quattro volte ogni mattina. Ogni volta che la porta del bagno si apriva e si richiudeva, figlio dopo figlio: 

“CAMBIATIIIII LE MUTANDEEEE”. 

Poi c’era quella frase che è rimasta nel mio cuore, e che ancora mi fa sorridere ogni volta che indosso un paio delle mie mutande da mercato “6 paia 5 euro”: “Cambiati le mutande, non sia mai, succedesse qualcosa …”


E la mia risposta, sempre uguale: “Che vuoi che succeda? E se mi schiacciasse un pullman, credi che starei a preoccuparmi delle mutande bucate?” 


Già, perché io femminuccia le mutande le cambiavo anche se mamma non avesse urlato, solo che non ne ho mai tenuto troppo all’estetica dell’indumento, e non era bello – diceva mamma – andare in giro con le mutande bucate. 
Ma erano comode.

Vecchiume. Sovrastrutture delle quali, a quanto pare, dobbiamo liberarci istituzionalmente. 


Dati i tempi di follia collettiva nei quali annaspiamo, in realtà mi stupisce il fatto che la gente non abbia ancora invitato alla firma dell’appello per una legge di iniziativa popolare sui tempi legali di cambio di mutande, per un uso consapevole e responsabile delle risorse idriche. 
È il ministro che ce lo chiede!

Sì, una buona idea del ministro Clini per risparmiare l’acqua? Cambiarsi le mutande ogni quattro giorni. E io, avrei voglia di stringergli la mano; complimentarmi con lui per l’impegno profuso durante il suo mandato tecnico e di prorogatio. 


Perché l’ambiente è importante, e noi che ci vantiamo di far parte di quella società civile che tanto si agita e combatte, lo sappiamo benissimo. Noi che veniamo dalla terra di Sardegna, che facciamo i conti ogni estate con la siccità, col fuoco che desertifica la nostra terra, con l’uranio impoverito dei soldati americani o israeliani che uccidono le nostre genti con tumori innovativi e devastanti, l’ambiente lo abbiamo a cuore. 

Come lo hanno a cuore i cittadini di Taranto, per le loro deformità, per i loro record di tumori, per i fumi velenosi. L’ambiente è importante. E la TAV, e il dissesto idrogeologico, e le discariche abusive, e la spazzatura per le strade sono tutte quelle cose che ci fanno imbestialire. E noi ci proviamo a rispettarlo questo ambiente mortificato dalla disumanità dell’uomo d’affari che lo ha reso devastato. Noi lo abbiamo sempre voluto un ministro attento, uno che “sapesse il fatto suo” uno che finalmente riuscisse anche a spiegarmi perché nel 2013 alle sei del pomeriggio i rubinetti di casa mia restano secchi, ed è proibito persino fare la cacca.
Grazie ministro Clini, per la sua genialità. Sia più ardito, si faccia più spavaldo e vada oltre in una sorta di ministero “No Limits”: ce lo dica che oltre che cambiarci le mutande, dovremmo anche lavarci il culo ogni quattro giorni. Vuol mettere la soddisfazione di risparmiare un po’ di più?

Io davvero non so, dove finisca la realtà e inizi la fantasia in questo paese votato alla follia.


Rita Pani (APOLIDE)


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Andrea Scanzi.

Andrea Scanzi

E' del tutto evidente che il Pd sta per tirare un rigore senza portiere. Sbagliarlo sarebbe impossibile, quindi possono sbagliare. Gabanelli rifiuterà, o se non rifiuterà sarà comunque non eletta. Il nome vero del M5S, come da me e (soprattutto) non solo da me sperato, è Rodotà. Il Pd non ha alcun bisogno di "larghe intese": ha i numeri per eleggere, dalla quarta votazione, il suo uomo. Può, in buona sostanza, fare quello che gli pare. Gli bastano una decina di voti da altre formazioni politiche, a partire dalla quarta votazione. E' un treno irripetibile, che - stante l'inedita calma propositiva di Grillo - è divenuto facilissimo da prendere: si votà Rodotà, si elegge un Presidente meraviglioso, si dà una mazzata al centrodestra e vamos. Invece io continuo a leggere che il Pd sta pensando sin dalla prima votazione - congiuntamente col Pdl, che non ha alcun potere contrattuale in questa elezione - ad Amato, o D'Alema (e magari pure a Boccia "perché è bruttino e fa tenerezza" o alla Finocchiaro "perché è donna e siamo tutti femministi con la scorta"). Oppure, nella migliore delle ipotesi, alla "carta coperta by Bersani" che comunque piace anche a Berlusconi (tipo Sabino Cassese). E' davvero sconcertante, e sconfortante, constatare il sistematico obbrobrio di questo partito ora incapace e ora (più spesso) deliberatamente correo. Il solo fatto di pensare a questa ipotesi terrificante dà la misura del peso politico di tali "statisti". Se davvero ciò accadesse, quello che già adesso si confà (da anni) come la "forza" (va be') più imbarazzante e inutilmente supponente tra tutti i centrosinistra d'Europa, si consegnerebbe - e peggio ancora consegnerebbe il Paese - al disastro più totale. E tutti sapranno chi ha ucciso l'"Italia che poteva essere". Per una volta, Pd, non farti e farci male: ne avremmo pieni gli zebedei. E la misura è davvero colma. Buona catastrofe (ma speriamo di no).

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Colle, gli 11 presidenti – Pertini, al Colle il socialista che sapeva resistere. - Marco Travaglio


Sandro Pertini


Antifascista, arriva al Quirinale nel 1978. La questione morale era il suo pallino, anche contro il Psi. Craxi mise il cappello sulla sua elezione che, in realtà, ha osteggiato fino all'ultimo.

“Dicevano che giocavamo a perdere. Invece giocavamo a vincere. E con Pertini abbiamo vinto. Oggi, per la prima volta nella storia, va al Quirinale un socialista”. Bettino Craxi tenterà di mettere il cappello sul Presidente Partigiano. Ma la verità è opposta: nel 1978, quando si è trattato di cercare il successore di Giovanni Leone, lui Pertini l’ha osteggiato finché ha potuto. E vi si è rassegnato soltanto in extremis. Pur di non aprire la strada all’ennesimo democristiano, o all’odiatissimo Ugo La Malfa. La campagna presidenziale di 35 anni fa si apre con sei mesi d’anticipo sulla tabella di marcia. Giovanni Leone se ne dovrebbe andare solo a dicembre, ma si dimette sei mesi prima, per mettere fine alla campagna politico-giornalistica delle sinistre. Il 1978 è forse l’anno più nero della Repubblica italiana: i grandi scandali, il nervosismo atlantico per l’ingresso dei comunisti nell’area di governo, il terrorismo che dilaga nelle strade, la strage di viaFani seguita dal sequestro di Aldo Moro, la spaccatura dei partiti tra il fronte della fermezza e quello della trattativa con le Br, e alla fine quella terribile Renault rossa parcheggiata in viaCaetani, a metà strada fra Botteghe Oscure e piazza del Gesù, con il corpo del presidente della Dc crivellato di colpi e rannicchiato nel bagagliaio.
La morte di Moro, candidato numero uno al Quirinale, con le drammatiche dimissioni del ministro dell’Interno Francesco Cossiga, è del 9 maggio. L’uscita di scena di Leone, del 15 giugno. I papabili per la successione sono il segretario Dc, Benigno Zaccagnini, il segretario repubblicano La Malfa, i socialisti di sinistra Francesco De Martino e Antonio Giolitti. I primi due portati dal fronte della fermezza (segreteria Dc, Pci, Pri), gli altri due da quello della trattativa, che ruota intorno al Psi. Ma nei primi tre scrutini – quelli che richiedono la maggioranza dei due terzi delle Camere – ciascun partito vota il proprio candidato di bandiera. É ormai la fine di giugno e nemmeno nelle successive votazioni l’impasse accenna a sbloccarsi: altre dodici fumate nere.
Il socialista e il compagno Berlinguer
Per ammazzare il tempo fra una tornata e l’altra, alcuni giovani deputati democristiani organizzano partitelle a calcetto in periferia e rientrano a Montecitorio con la sacca sportiva: tra questi, ci sono un tal Clemente Mastella e un certo Antonio Segni. Craxi, a questo punto, fa la voce grossa con Zaccagnini: “O un socialista (Giolittindr) sale al Quirinale, o il Psi scende dal governo Andreotti”. I toni sono quelli perentori e ricattatori del miglior Ghino di Tacco. E gli altri partiti sembrano d’accordo con lui. Tranne la Dc, che tiene duro su Zac, e il Pri, tetragono su La Malfa. Il leader dell’Edera, come poi Pertini, fa finta di non ambire alla poltrona, e per affettare distacco si trasferisce per qualche giorno in Val d’Aosta annunciando: “Mi sono definitivamente allontanato dalla politica”. Salvo poi ripiombare a Roma non appena si comincia a fare sul serio. Enrico Berlinguer, che i socialisti li detesta (chiama Craxi “il gangster”), ha una sola preoccupazione: se socialista dev’essere il nuovo Presidente, che almeno sia il più lontano possibile da Craxi. Ecco così affiorare, a sorpresa, il nome di Sandro Pertini.
È dagli anni ’50, all’indomani della Resistenza, che questo anziano socialista savonese classe 1896 è considerato una vecchia gloria dallo stesso Psi: un monumento da venerare, ma purchè resti sul piedistallo e soprattutto chiuso in una teca, alla larga da incarichi partitici e governativi, al massimo da issare come una bandiera su una poltrona istituzionale di rappresentanza, come la presidenza della Camera dal 1968 al ’76. A quel punto, pare a tutti che il vegliardo possa ritirarsi in buon ordine. Pochi sospettano che la sua vera carriera politica sta appena per cominciare. Pertini piace ai comunisti per le stesse ragioni che lo rendono inviso a Bettino: predica il “ritorno ai rapporti unitari nella sinistra”, suo vecchio pallino, sferza la nuova generazione socialista, avversa la linea molle dei craxiani sul terrorismo ed è un alfiere della “questione morale” berlingueriana. Ne ha dato prova nel 1974, da presidente della Camera, prima respingendo l’aumento dell’indennità dei deputati (“Ma come, dico io, in un momento grave come questo, quando il padre di famiglia torna a casa con la paga decurtata dall’inflazione… voi date quest’esempio d’insensibilità? ‘Io deploro l’iniziativa’, ho detto. ‘Entro un’ora potete eleggere un altro presidente della Camera . Siete 630, ne trovate subito 640 che accettano di venire al mio posto. Ma io, con queste mani, non firmo’…”).
E poi schierandosi dalla parte dei tre giovani pretori della sua Liguria – Mario AlmerighiCarlo Brusco e Adriano Sansa – che avevano scoperchiato il primo scandalo dei petroli: i partiti e quasi l’intero Parlamento a libro paga dell’Unione Petrolifera in cambio di leggi fiscali di favore. Mentre politici e grande stampa attaccavano i “pretori d’assalto”, Pertini li ricevette a Montecitorio (ma nella lavanderia, perchè gli uffici erano infestati di microspie, o almeno così lui pensava) e prometteva loro il suo pieno appoggio. E in effetti li difese pubblicamente, come in una memorabile intervista a Nantas Salvalaggio su “La Domenica del Corriere”: “Non accetterò mai di diventare il complice di coloro che stanno affossando la democrazia e la giustizia in una valanga di corruzione. Non c’è ragione al mondo che giustifichi la copertura di un disonesto, anche se deputato. Lo scandalo più intollerabile sarebbe quello di soffocare lo scandalo. L’opinione pubblica non lo tollererebbe. Io, neppure. Ho già detto alla mia Carla: tieni pronte le valigie, potrei piantare tutto…Io spero che i documenti dei famosi ‘pretori d’assalto’ siano vagliati con rigore. Spero che tutto sarà discusso in aula, e nessuna copertura sarà frettolosamente inventata dai padrini dell’assegno sottobanco… Mi fanno pena i magistrati e i politici che cercano di tagliare le gambe ai pretori dell’inchiesta sullo scandalo del petrolio. Dicono che sono troppo giovani: ma da quando la giovinezza è un reato? Se mai è un sintomo esaltante e meraviglioso: significa che il Paese ha una riserva di coraggio e di onestà nelle nuove generazioni. E poi, mi creda: questi giovani (beati loro!) sono stati esemplari, rapidissimi. In tredici giorni hanno vagliato quintali di documenti. Hanno perduto ciascuno tre o quattro chili, mi dicono. Ma è quel sudore, quella fatica, che possono ora lavare le macchie dei piccoli e grandi corruttori. Nel mio partito mi accusano di non avere souplesse. Dicono che un partito moderno si deve ‘adeguare’. Ma adeguare a che cosa, santa Madonna? Se adeguarsi vuol dire rubare, io non mi adeguo. Meglio allora il partito non adeguato e poco moderno. Meglio il nostro vecchio partito clandestino, senza sedi al neon, senza segretarie dalle gambe lunghe e dalle unghie ultralaccate… Dobbiamo tagliarci il bubbone da soli e subito. Non basta il borotalco a guarire una piaga. Ci sono i ladri, gli imbroglioni? Bene, facciamo i nomi e affidiamoli al magistrato”.
Per questo, quattro anni dopo, non solo Craxi, ma anche la Dc storce il naso su Pertini: a parte l’età (81 anni suonati), il vecchio Sandro puzza di Fronte Popolare distante un miglio (anche se nel 1948 si era opposto all’alleanza Pci-Psi, ritenendola un tragico errore). Così il 2 luglio, nel tentativo di bruciarlo, Craxi lancia Pertini presentandolo come “il candidato di tutta la sinistra”. Il vegliardo però annusa la trappola e l’indomani è lui stesso, furibondo, a chiedere di non essere votato. Mossa geniale. Mentre tutti lo credono fuori gioco, lui – all’insaputa del suo partito – comincia a muoversi in ogni direzione per allacciare i rapporti con i vecchi amici (Alessandro NattaGiorgio Amendola,La Malfa). Giolitti, intanto, tramonta, mentre sembra decollare La Malfa, simbolo vivente del compromesso storico dopo la scomparsa di Moro. Proprio per questo Craxi lo osteggia e, pur di sbarrargli il passo, ripesca Pertini. Anche Andreotti, per evitare che Sandro salga al Quirinale con i voti determinanti dei craxiani, convince la Dc ad appoggiarlo dopo una lunga serie di astensioni. Pertini, con l’aria di quello che non ci tiene, ostenta indifferenza. Ma non si perde un passaggio della partita a scacchi e segue ogni mossa di amici e nemici dalla sua bella casa in piazza Navona. Qui, il 7 luglio, lo raggiunge la notizia che il più è fatto. Non ha mai capito granchè di politicapoliticante, ma stavolta si gioca la partita da maestro. Diffidente, continua a tessere abilmente la sua tela, ma anche a fingersi rassegnato alla sconfitta. E, per rendere più credibile la sceneggiata, prepara i bagagli per le vacanze estive a Nizza che – lo sa benissimo – dovrà rimandare. Dire che l’8 luglio venga colto di sorpresa dall’annuncio dello scrutinio decisivo, sarebbe una bugia. Ma lui lo dice. Affermare che ha già pronto il discorso d’investitura sarebbe la verità. Ma lui lo nega. Mesi dopo rievocherà così quelle ore cruciali, con una dose di sfrontatezza pari soltanto alla simpatia: “Quando mi hanno offerto la presidenza della Repubblica, a 82 anni, io sono diventato pallido come un morto. Questi miei giovani compagni del Psi, invece, quando gli offrono una carica se la prendono senza batter ciglio. Comunque son sicuro che, dei miei 832 elettori, almeno la metà si sono già pentiti”.
L’elezione a sorpresa
Dunque l’8 luglio, al sedicesimo e ultimo scrutinio, Pertini raccoglie 832 voti su 995 (l’83.6%): la maggioranza più ampia mai raccolta fino a quel momento da un presidente della Repubblica italiana. Praticamente l’intero “arco costituzionale”, che taglia fuori soltanto il Msi. Il discorso d’insediamento, l’indomani, è un abile cocktail di antifascismo, resistenzialismo e “partito degli onesti”, con le nobili aggiunte di un ricordo di Moro, un onore delle armi a Leone e un fermo appello contro ogni cedimento al terrorismo. Tutti felici, contenti e plaudenti. Almeno finchè Pertini, uscendo dall’aula, non minaccia sia pure bonariamente: “Chi si illude che io duri poco, se lo levi dalla testa. Mia madre morì a 90 anni, e solo perchè cadde da una sedia. Mio fratello ha felicemente raggiunto quota 94…”.
Indro Montanelli, che abita con la moglie Colette in un attico su Piazza Navona prospiciente le finestre della sua casa, gli invia un telegramma agrodolce di benvenuto sul Colle: “Che Dio le conceda il coraggio, Presidente, di fare le cose che si possono e che si debbono fare; l’umiltà di rinunziare a quelle che si possono ma non si debbono, e a quelle che si debbono ma non si possono fare; e la saggezza di distinguere sempre le une dalle altre”. Non ne farà granchè tesoro, Pertini, accompagnato da cori di giubilo ed esaltazione dei media, che fanno a gara a esaltare la sua biografia di socialista onesto nato a Stella (Savona), educato dai salesiani, eroe della Grande guerra, socialista e fin da subito antifascista tutto d’un pezzo, compagno di fuga di Filippo Turati, esule in Francia dove si guadagnò da vivere facendo il manovale (“ma il muratore lo fece un giorno solo, e quel giorno riuscì a farsi fotografare”, lo corbellava Nenni), arrestato in Italia nel 1929 e sbattuto in carcere con Gramsci e poi al confino fino al 1943, ardimentoso capo della Resistenza. Su altri particolari più controversi, come il ruolo nella fucilazione di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, o le scalmane all’indomani della Liberazione nell’attesa della rivoluzione socialista che per fortuna non venne, o ancora le lodi all’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956, gli agiografi sorvolano. Così come sorvoleranno sui molti strappi alla Costituzione che costelleranno la presidenza Pertini, inaugurando quel presidenzialismo strisciante a base di “esternazioni” a ruota libera, poi ampiamente sviluppato e istituzionalizzato da CossigaScalfaro e – dopo la parentesiCiampi – Napolitano.
La presidenza Pertini è un lungo terremoto durato sette anni. Nel Quirinale un po’ graveolento lasciato da Leone & famiglia, o almeno dalla loro rappresentazione mediatica che vi ha aggiunto del suo, il vecchio Sandro porta odore di bucato: la sua onestà è unanimemente riconosciuta, la sua immagine di bonarietà rigorosa è quel che ci vuole per restituire un po’ di prestigio e di popolarità alle istituzioni. Il suo settennato non sarà mai sfiorato dall’ombra di uno scandalo e registrerà – tra i non pochi pregi – quello di aver rotto il quarantennale monopolio della Dc su Palazzo Chigi con la nomina dei due primi governi a guida laica: prima quello di Giovanni Spadolini (dopo un vano incarico a La Malfa), poi quello di Craxi (che si presenta al Quirinale in blue jeans, e lui lo rispedisce a casa a cambiarsi: “Vai, vai, ne riparliamo più tardi”). In più Pertini, diversamente da Leone, non tiene famiglia: non ha figli, e la moglie Carla Voltolina, donna schiva e bizzarra ai limiti della scontrosità, non metterà mai piede a Palazzo e non poserà mai da first lady, evitando di aggiungere altre dosi di sale e pepe a quelle che l’intemperante marito semina in giro per l’Italia e per il mondo. Perchè lui, Sandro, è un gaffeur da competizione. Gaffes lungamente studiate a tavolino, le sue, come quelle di Mike Bongiorno, per apparire ancor più spontaneo, scomodo e vicino alla gente di quanto già non sia di suo. Il “nonno degli italiani”, assecondato e incoraggiato da una stampa conformista e da una classe politica che tenta di usarlo come foglia di fico (Guido Ceronetti definisce il fenomeno “papagiovannificazione”, e anche Montanelli non perde occasione per canzonare il suo voluttuoso presenzialismo mediatico), bacia migliaia di bambini, abbraccia decine di migliaia di madri e nonne, lacrima copiosamente a migliaia di funerali, intralcia i soccorsi in varie sciagure: dal pozzo di Vermicino al terremoto in Irpinia. E proprio nei giorni del disastro avellinese va in tv ad accusare, in un famoso messaggio alla Nazione, di collusione col sisma il governo da lui stesso nominato e la classe politica di cui ha sempre fatto parte.
Ma è questo anche il bello di “nonno Sandro”: avvicinare un’istituzione fino ad allora lontana e irraggiungibile, il Quirinale, alla gente comune che dei “politici” ha smesso di fidarsi da un pezzo. Anche perchè Pertini, col suo pane al pane e vino al vino, dà l’impressione di credere a quel che dice. E, anche quando piange, di non farlo a comando. Piange nell’agosto 1980 in piazza Maggiore a Bologna, accanto al sindaco Renato Zangheri, per i funerali delle vittime della strage. Piange nel giugno 1984, quando si ritrova a Padova dove Berlinguer s’è appena sentito male nel famoso comizio. Arriva fra i primi in ospedale e, insieme a Tonino Tatò, si fa portare nella stanza dove il leader comunista è intubato alle macchine. Si fa allestire una stanza, ha un lieve malore ma non si muove di lì, ascolta i medici dire che non c’è più niente da fare, piange e conforta i famigliari: “Lo porto a casa io, come un fratello, un amico. Un compagno di lotta”. Si carica la bara del compagno Enrico sull’aereo presidenziale e l’accompagna ai funerali in piazza San Giovanni, il 13 giugno, con un milione di persone, ancora in lacrime.
Diplomazia a stile libero
Per converso, gl’incidenti diplomatici provocati dalle sue esternazioni pesudo-improvvisate non si contano. Confonde il Guatemala col Nicaragua. Imputa la strage di Sabra e Chatila agli israeliani anzichè ai falangisti libanesi. Tira in ballo l’Urss come mandante delle Br senza uno straccio di prova. Fraternizza con papa Wojtyla come se fosse il cappellano del Quirinale. Confida alla stampa di aver saputo da re Hussein di Giordania che il capo druso Jumblatt è un morfinomane. Annuncia il ritiro del contingente italiano dal Libano senza che il governo ne sappia nulla (“me l’ha detto coso”: che, per la cronaca, è il presidente del Consiglio Giovanni Spadolini). Quando muore Berlinguer, trasforma i funerali in un mega-spot elettorale che frutta al Pci il sorpasso sulla Dc alle elezioni europee. Quando defunge il presidente sovietico Cernenko, non proprio un campione di democrazia, interrompe una visita ufficiale in Sudamerica per volare a Mosca a piangere sulla sua bara. E quando i controllori di volo Alitalia – ufficiali dell’Aeronautica – entrano in sciopero, anzichè farli arrestare come comandante delle Forze Armate per violata consegna, li riceve al Quirinale per avviare una mediazione col governo.
Egocentrico, estroverso, collerico, intollerante verso qualunque cenno di dissenso, Pertini si affaccia informale a ogni Capodanno nelle case degli italiani con la pipa e il caminetto accesi, menando fendenti a destra e a manca. Memorabile il discorso di fine 1981, l’anno della scoperta della loggia P2: “Questa P2 ha turbato, inquinato la nostra vita. Non mi interessa per ora se cada o non cada sotto il codice penale. Io guardo a un altro codice, che è il codice morale, il codice che ogni uomo, specialmente di ogni uomo politico, dovrebbe portare scritto nella sua coscienza. Ebbene, la P2 cade sotto questo codice morale. Vi è un proverbio che si usa dire: la moglie di Cesare non dev’essere sospettata, ma prima di tutto è Cesare che non dev’essere sospettato. E allora ogni sospetto devono allontanare dalla loro persona gli uomini politici: non può rimanere al suo posto chi è stato indiziato in questa trappola della P2. La P2 si prefiggeva di compiere atti contro la Costituzione, contro la democrazia e contro la Repubblica. E quindi coloro che ne facevano parte dovranno risponderne prima di tutto dinanzi alla loro coscienza, ai loro partiti e soprattutto dinanzi al Parlamento. Non vi può essere in questo caso alcuna comprensione e alcuna solidarietà. Ripeto quel che ho detto altre volte: qui le solidarietà personali, le solidarietà di partiti diventano complicità”.
Altre volte i fulmini di Pertini si appuntano contro contro i “suoi” stessi governi, costringendo poi il Presidente a precisazioni imbarazzate e a contorsionismi diplomatici “riparatori” con gli esecutivi offesi dalla sua furia fanciullesca. Un giorno il povero Maccanico, spinto dalle segreterie dei partiti dopo una delle dirompenti esternazioni dell’arzillo misirizzi, gli telefona a Selva di Val Gardena dov’è in vacanza: “Forse, Presidente, se mi posso permettere, troppe interviste potrebbero danneggiarla”. E subito viene investito dalla trillante vocetta dall’altro capo del filo: “Io parlo con chi voglio, di cosa voglio, quante volte voglio!”. Epico il burrascoso licenziamento, dopo soli due anni, del suo capufficio stampa Antonio Ghirelli, grande giornalista napoletano: accade nel 1980, quando una nota del Quirinale annuncia la richiesta di dimissioni del ministro dell’Interno Cossiga, accusato di favoreggiamento nei confronti di Marco Donat-Cattin, figlio del leader democristiano Carlo e terrorista di Prima Linea, sfuggito all’arresto grazie a una soffiata. Ghirelli rivelerà anni dopo di aver offerto le proprie dimissioni d’accordo con Pertini, in seguito alla solita sfuriata del Presidente, per tutelare un giovane collaboratore che aveva vergato il comunicato al posto suo. L’ultima catastrofe è la grazia concessa in tutta fretta da Pertini a Flora Pirri Ardizzone, una terrorista rossa condannata per associazione sovversiva, ma molto speciale: è la figlia di Ninni, seconda moglie di Emanuele Macaluso. E molti commentano: cosa non si fa per gli amici. Ne vien fuori un putiferio e il segretario generale del Quirinale, Antonio Maccanico, è costretto ad addossarsene tutta la colpa. Nel 1985, a fine settennato, i partiti esausti respingono al mittente le perentorie avances dell’arzillo ottantottenne per essere riconfermato. E votano in massa per Francesco Cossiga. Il mite, il taciturno, il riservato, il notarile Cossiga. Insomma, l’Antipertini. O almeno così credono. Se ne accorgeranno.
da Il Fatto Quotidiano del 15 aprile 2013

Curioso, vero?



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Come mi sento io.



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