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mercoledì 17 aprile 2013

Andrea Scanzi.

Andrea Scanzi

E' del tutto evidente che il Pd sta per tirare un rigore senza portiere. Sbagliarlo sarebbe impossibile, quindi possono sbagliare. Gabanelli rifiuterà, o se non rifiuterà sarà comunque non eletta. Il nome vero del M5S, come da me e (soprattutto) non solo da me sperato, è Rodotà. Il Pd non ha alcun bisogno di "larghe intese": ha i numeri per eleggere, dalla quarta votazione, il suo uomo. Può, in buona sostanza, fare quello che gli pare. Gli bastano una decina di voti da altre formazioni politiche, a partire dalla quarta votazione. E' un treno irripetibile, che - stante l'inedita calma propositiva di Grillo - è divenuto facilissimo da prendere: si votà Rodotà, si elegge un Presidente meraviglioso, si dà una mazzata al centrodestra e vamos. Invece io continuo a leggere che il Pd sta pensando sin dalla prima votazione - congiuntamente col Pdl, che non ha alcun potere contrattuale in questa elezione - ad Amato, o D'Alema (e magari pure a Boccia "perché è bruttino e fa tenerezza" o alla Finocchiaro "perché è donna e siamo tutti femministi con la scorta"). Oppure, nella migliore delle ipotesi, alla "carta coperta by Bersani" che comunque piace anche a Berlusconi (tipo Sabino Cassese). E' davvero sconcertante, e sconfortante, constatare il sistematico obbrobrio di questo partito ora incapace e ora (più spesso) deliberatamente correo. Il solo fatto di pensare a questa ipotesi terrificante dà la misura del peso politico di tali "statisti". Se davvero ciò accadesse, quello che già adesso si confà (da anni) come la "forza" (va be') più imbarazzante e inutilmente supponente tra tutti i centrosinistra d'Europa, si consegnerebbe - e peggio ancora consegnerebbe il Paese - al disastro più totale. E tutti sapranno chi ha ucciso l'"Italia che poteva essere". Per una volta, Pd, non farti e farci male: ne avremmo pieni gli zebedei. E la misura è davvero colma. Buona catastrofe (ma speriamo di no).

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Colle, gli 11 presidenti – Pertini, al Colle il socialista che sapeva resistere. - Marco Travaglio


Sandro Pertini


Antifascista, arriva al Quirinale nel 1978. La questione morale era il suo pallino, anche contro il Psi. Craxi mise il cappello sulla sua elezione che, in realtà, ha osteggiato fino all'ultimo.

“Dicevano che giocavamo a perdere. Invece giocavamo a vincere. E con Pertini abbiamo vinto. Oggi, per la prima volta nella storia, va al Quirinale un socialista”. Bettino Craxi tenterà di mettere il cappello sul Presidente Partigiano. Ma la verità è opposta: nel 1978, quando si è trattato di cercare il successore di Giovanni Leone, lui Pertini l’ha osteggiato finché ha potuto. E vi si è rassegnato soltanto in extremis. Pur di non aprire la strada all’ennesimo democristiano, o all’odiatissimo Ugo La Malfa. La campagna presidenziale di 35 anni fa si apre con sei mesi d’anticipo sulla tabella di marcia. Giovanni Leone se ne dovrebbe andare solo a dicembre, ma si dimette sei mesi prima, per mettere fine alla campagna politico-giornalistica delle sinistre. Il 1978 è forse l’anno più nero della Repubblica italiana: i grandi scandali, il nervosismo atlantico per l’ingresso dei comunisti nell’area di governo, il terrorismo che dilaga nelle strade, la strage di viaFani seguita dal sequestro di Aldo Moro, la spaccatura dei partiti tra il fronte della fermezza e quello della trattativa con le Br, e alla fine quella terribile Renault rossa parcheggiata in viaCaetani, a metà strada fra Botteghe Oscure e piazza del Gesù, con il corpo del presidente della Dc crivellato di colpi e rannicchiato nel bagagliaio.
La morte di Moro, candidato numero uno al Quirinale, con le drammatiche dimissioni del ministro dell’Interno Francesco Cossiga, è del 9 maggio. L’uscita di scena di Leone, del 15 giugno. I papabili per la successione sono il segretario Dc, Benigno Zaccagnini, il segretario repubblicano La Malfa, i socialisti di sinistra Francesco De Martino e Antonio Giolitti. I primi due portati dal fronte della fermezza (segreteria Dc, Pci, Pri), gli altri due da quello della trattativa, che ruota intorno al Psi. Ma nei primi tre scrutini – quelli che richiedono la maggioranza dei due terzi delle Camere – ciascun partito vota il proprio candidato di bandiera. É ormai la fine di giugno e nemmeno nelle successive votazioni l’impasse accenna a sbloccarsi: altre dodici fumate nere.
Il socialista e il compagno Berlinguer
Per ammazzare il tempo fra una tornata e l’altra, alcuni giovani deputati democristiani organizzano partitelle a calcetto in periferia e rientrano a Montecitorio con la sacca sportiva: tra questi, ci sono un tal Clemente Mastella e un certo Antonio Segni. Craxi, a questo punto, fa la voce grossa con Zaccagnini: “O un socialista (Giolittindr) sale al Quirinale, o il Psi scende dal governo Andreotti”. I toni sono quelli perentori e ricattatori del miglior Ghino di Tacco. E gli altri partiti sembrano d’accordo con lui. Tranne la Dc, che tiene duro su Zac, e il Pri, tetragono su La Malfa. Il leader dell’Edera, come poi Pertini, fa finta di non ambire alla poltrona, e per affettare distacco si trasferisce per qualche giorno in Val d’Aosta annunciando: “Mi sono definitivamente allontanato dalla politica”. Salvo poi ripiombare a Roma non appena si comincia a fare sul serio. Enrico Berlinguer, che i socialisti li detesta (chiama Craxi “il gangster”), ha una sola preoccupazione: se socialista dev’essere il nuovo Presidente, che almeno sia il più lontano possibile da Craxi. Ecco così affiorare, a sorpresa, il nome di Sandro Pertini.
È dagli anni ’50, all’indomani della Resistenza, che questo anziano socialista savonese classe 1896 è considerato una vecchia gloria dallo stesso Psi: un monumento da venerare, ma purchè resti sul piedistallo e soprattutto chiuso in una teca, alla larga da incarichi partitici e governativi, al massimo da issare come una bandiera su una poltrona istituzionale di rappresentanza, come la presidenza della Camera dal 1968 al ’76. A quel punto, pare a tutti che il vegliardo possa ritirarsi in buon ordine. Pochi sospettano che la sua vera carriera politica sta appena per cominciare. Pertini piace ai comunisti per le stesse ragioni che lo rendono inviso a Bettino: predica il “ritorno ai rapporti unitari nella sinistra”, suo vecchio pallino, sferza la nuova generazione socialista, avversa la linea molle dei craxiani sul terrorismo ed è un alfiere della “questione morale” berlingueriana. Ne ha dato prova nel 1974, da presidente della Camera, prima respingendo l’aumento dell’indennità dei deputati (“Ma come, dico io, in un momento grave come questo, quando il padre di famiglia torna a casa con la paga decurtata dall’inflazione… voi date quest’esempio d’insensibilità? ‘Io deploro l’iniziativa’, ho detto. ‘Entro un’ora potete eleggere un altro presidente della Camera . Siete 630, ne trovate subito 640 che accettano di venire al mio posto. Ma io, con queste mani, non firmo’…”).
E poi schierandosi dalla parte dei tre giovani pretori della sua Liguria – Mario AlmerighiCarlo Brusco e Adriano Sansa – che avevano scoperchiato il primo scandalo dei petroli: i partiti e quasi l’intero Parlamento a libro paga dell’Unione Petrolifera in cambio di leggi fiscali di favore. Mentre politici e grande stampa attaccavano i “pretori d’assalto”, Pertini li ricevette a Montecitorio (ma nella lavanderia, perchè gli uffici erano infestati di microspie, o almeno così lui pensava) e prometteva loro il suo pieno appoggio. E in effetti li difese pubblicamente, come in una memorabile intervista a Nantas Salvalaggio su “La Domenica del Corriere”: “Non accetterò mai di diventare il complice di coloro che stanno affossando la democrazia e la giustizia in una valanga di corruzione. Non c’è ragione al mondo che giustifichi la copertura di un disonesto, anche se deputato. Lo scandalo più intollerabile sarebbe quello di soffocare lo scandalo. L’opinione pubblica non lo tollererebbe. Io, neppure. Ho già detto alla mia Carla: tieni pronte le valigie, potrei piantare tutto…Io spero che i documenti dei famosi ‘pretori d’assalto’ siano vagliati con rigore. Spero che tutto sarà discusso in aula, e nessuna copertura sarà frettolosamente inventata dai padrini dell’assegno sottobanco… Mi fanno pena i magistrati e i politici che cercano di tagliare le gambe ai pretori dell’inchiesta sullo scandalo del petrolio. Dicono che sono troppo giovani: ma da quando la giovinezza è un reato? Se mai è un sintomo esaltante e meraviglioso: significa che il Paese ha una riserva di coraggio e di onestà nelle nuove generazioni. E poi, mi creda: questi giovani (beati loro!) sono stati esemplari, rapidissimi. In tredici giorni hanno vagliato quintali di documenti. Hanno perduto ciascuno tre o quattro chili, mi dicono. Ma è quel sudore, quella fatica, che possono ora lavare le macchie dei piccoli e grandi corruttori. Nel mio partito mi accusano di non avere souplesse. Dicono che un partito moderno si deve ‘adeguare’. Ma adeguare a che cosa, santa Madonna? Se adeguarsi vuol dire rubare, io non mi adeguo. Meglio allora il partito non adeguato e poco moderno. Meglio il nostro vecchio partito clandestino, senza sedi al neon, senza segretarie dalle gambe lunghe e dalle unghie ultralaccate… Dobbiamo tagliarci il bubbone da soli e subito. Non basta il borotalco a guarire una piaga. Ci sono i ladri, gli imbroglioni? Bene, facciamo i nomi e affidiamoli al magistrato”.
Per questo, quattro anni dopo, non solo Craxi, ma anche la Dc storce il naso su Pertini: a parte l’età (81 anni suonati), il vecchio Sandro puzza di Fronte Popolare distante un miglio (anche se nel 1948 si era opposto all’alleanza Pci-Psi, ritenendola un tragico errore). Così il 2 luglio, nel tentativo di bruciarlo, Craxi lancia Pertini presentandolo come “il candidato di tutta la sinistra”. Il vegliardo però annusa la trappola e l’indomani è lui stesso, furibondo, a chiedere di non essere votato. Mossa geniale. Mentre tutti lo credono fuori gioco, lui – all’insaputa del suo partito – comincia a muoversi in ogni direzione per allacciare i rapporti con i vecchi amici (Alessandro NattaGiorgio Amendola,La Malfa). Giolitti, intanto, tramonta, mentre sembra decollare La Malfa, simbolo vivente del compromesso storico dopo la scomparsa di Moro. Proprio per questo Craxi lo osteggia e, pur di sbarrargli il passo, ripesca Pertini. Anche Andreotti, per evitare che Sandro salga al Quirinale con i voti determinanti dei craxiani, convince la Dc ad appoggiarlo dopo una lunga serie di astensioni. Pertini, con l’aria di quello che non ci tiene, ostenta indifferenza. Ma non si perde un passaggio della partita a scacchi e segue ogni mossa di amici e nemici dalla sua bella casa in piazza Navona. Qui, il 7 luglio, lo raggiunge la notizia che il più è fatto. Non ha mai capito granchè di politicapoliticante, ma stavolta si gioca la partita da maestro. Diffidente, continua a tessere abilmente la sua tela, ma anche a fingersi rassegnato alla sconfitta. E, per rendere più credibile la sceneggiata, prepara i bagagli per le vacanze estive a Nizza che – lo sa benissimo – dovrà rimandare. Dire che l’8 luglio venga colto di sorpresa dall’annuncio dello scrutinio decisivo, sarebbe una bugia. Ma lui lo dice. Affermare che ha già pronto il discorso d’investitura sarebbe la verità. Ma lui lo nega. Mesi dopo rievocherà così quelle ore cruciali, con una dose di sfrontatezza pari soltanto alla simpatia: “Quando mi hanno offerto la presidenza della Repubblica, a 82 anni, io sono diventato pallido come un morto. Questi miei giovani compagni del Psi, invece, quando gli offrono una carica se la prendono senza batter ciglio. Comunque son sicuro che, dei miei 832 elettori, almeno la metà si sono già pentiti”.
L’elezione a sorpresa
Dunque l’8 luglio, al sedicesimo e ultimo scrutinio, Pertini raccoglie 832 voti su 995 (l’83.6%): la maggioranza più ampia mai raccolta fino a quel momento da un presidente della Repubblica italiana. Praticamente l’intero “arco costituzionale”, che taglia fuori soltanto il Msi. Il discorso d’insediamento, l’indomani, è un abile cocktail di antifascismo, resistenzialismo e “partito degli onesti”, con le nobili aggiunte di un ricordo di Moro, un onore delle armi a Leone e un fermo appello contro ogni cedimento al terrorismo. Tutti felici, contenti e plaudenti. Almeno finchè Pertini, uscendo dall’aula, non minaccia sia pure bonariamente: “Chi si illude che io duri poco, se lo levi dalla testa. Mia madre morì a 90 anni, e solo perchè cadde da una sedia. Mio fratello ha felicemente raggiunto quota 94…”.
Indro Montanelli, che abita con la moglie Colette in un attico su Piazza Navona prospiciente le finestre della sua casa, gli invia un telegramma agrodolce di benvenuto sul Colle: “Che Dio le conceda il coraggio, Presidente, di fare le cose che si possono e che si debbono fare; l’umiltà di rinunziare a quelle che si possono ma non si debbono, e a quelle che si debbono ma non si possono fare; e la saggezza di distinguere sempre le une dalle altre”. Non ne farà granchè tesoro, Pertini, accompagnato da cori di giubilo ed esaltazione dei media, che fanno a gara a esaltare la sua biografia di socialista onesto nato a Stella (Savona), educato dai salesiani, eroe della Grande guerra, socialista e fin da subito antifascista tutto d’un pezzo, compagno di fuga di Filippo Turati, esule in Francia dove si guadagnò da vivere facendo il manovale (“ma il muratore lo fece un giorno solo, e quel giorno riuscì a farsi fotografare”, lo corbellava Nenni), arrestato in Italia nel 1929 e sbattuto in carcere con Gramsci e poi al confino fino al 1943, ardimentoso capo della Resistenza. Su altri particolari più controversi, come il ruolo nella fucilazione di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, o le scalmane all’indomani della Liberazione nell’attesa della rivoluzione socialista che per fortuna non venne, o ancora le lodi all’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956, gli agiografi sorvolano. Così come sorvoleranno sui molti strappi alla Costituzione che costelleranno la presidenza Pertini, inaugurando quel presidenzialismo strisciante a base di “esternazioni” a ruota libera, poi ampiamente sviluppato e istituzionalizzato da CossigaScalfaro e – dopo la parentesiCiampi – Napolitano.
La presidenza Pertini è un lungo terremoto durato sette anni. Nel Quirinale un po’ graveolento lasciato da Leone & famiglia, o almeno dalla loro rappresentazione mediatica che vi ha aggiunto del suo, il vecchio Sandro porta odore di bucato: la sua onestà è unanimemente riconosciuta, la sua immagine di bonarietà rigorosa è quel che ci vuole per restituire un po’ di prestigio e di popolarità alle istituzioni. Il suo settennato non sarà mai sfiorato dall’ombra di uno scandalo e registrerà – tra i non pochi pregi – quello di aver rotto il quarantennale monopolio della Dc su Palazzo Chigi con la nomina dei due primi governi a guida laica: prima quello di Giovanni Spadolini (dopo un vano incarico a La Malfa), poi quello di Craxi (che si presenta al Quirinale in blue jeans, e lui lo rispedisce a casa a cambiarsi: “Vai, vai, ne riparliamo più tardi”). In più Pertini, diversamente da Leone, non tiene famiglia: non ha figli, e la moglie Carla Voltolina, donna schiva e bizzarra ai limiti della scontrosità, non metterà mai piede a Palazzo e non poserà mai da first lady, evitando di aggiungere altre dosi di sale e pepe a quelle che l’intemperante marito semina in giro per l’Italia e per il mondo. Perchè lui, Sandro, è un gaffeur da competizione. Gaffes lungamente studiate a tavolino, le sue, come quelle di Mike Bongiorno, per apparire ancor più spontaneo, scomodo e vicino alla gente di quanto già non sia di suo. Il “nonno degli italiani”, assecondato e incoraggiato da una stampa conformista e da una classe politica che tenta di usarlo come foglia di fico (Guido Ceronetti definisce il fenomeno “papagiovannificazione”, e anche Montanelli non perde occasione per canzonare il suo voluttuoso presenzialismo mediatico), bacia migliaia di bambini, abbraccia decine di migliaia di madri e nonne, lacrima copiosamente a migliaia di funerali, intralcia i soccorsi in varie sciagure: dal pozzo di Vermicino al terremoto in Irpinia. E proprio nei giorni del disastro avellinese va in tv ad accusare, in un famoso messaggio alla Nazione, di collusione col sisma il governo da lui stesso nominato e la classe politica di cui ha sempre fatto parte.
Ma è questo anche il bello di “nonno Sandro”: avvicinare un’istituzione fino ad allora lontana e irraggiungibile, il Quirinale, alla gente comune che dei “politici” ha smesso di fidarsi da un pezzo. Anche perchè Pertini, col suo pane al pane e vino al vino, dà l’impressione di credere a quel che dice. E, anche quando piange, di non farlo a comando. Piange nell’agosto 1980 in piazza Maggiore a Bologna, accanto al sindaco Renato Zangheri, per i funerali delle vittime della strage. Piange nel giugno 1984, quando si ritrova a Padova dove Berlinguer s’è appena sentito male nel famoso comizio. Arriva fra i primi in ospedale e, insieme a Tonino Tatò, si fa portare nella stanza dove il leader comunista è intubato alle macchine. Si fa allestire una stanza, ha un lieve malore ma non si muove di lì, ascolta i medici dire che non c’è più niente da fare, piange e conforta i famigliari: “Lo porto a casa io, come un fratello, un amico. Un compagno di lotta”. Si carica la bara del compagno Enrico sull’aereo presidenziale e l’accompagna ai funerali in piazza San Giovanni, il 13 giugno, con un milione di persone, ancora in lacrime.
Diplomazia a stile libero
Per converso, gl’incidenti diplomatici provocati dalle sue esternazioni pesudo-improvvisate non si contano. Confonde il Guatemala col Nicaragua. Imputa la strage di Sabra e Chatila agli israeliani anzichè ai falangisti libanesi. Tira in ballo l’Urss come mandante delle Br senza uno straccio di prova. Fraternizza con papa Wojtyla come se fosse il cappellano del Quirinale. Confida alla stampa di aver saputo da re Hussein di Giordania che il capo druso Jumblatt è un morfinomane. Annuncia il ritiro del contingente italiano dal Libano senza che il governo ne sappia nulla (“me l’ha detto coso”: che, per la cronaca, è il presidente del Consiglio Giovanni Spadolini). Quando muore Berlinguer, trasforma i funerali in un mega-spot elettorale che frutta al Pci il sorpasso sulla Dc alle elezioni europee. Quando defunge il presidente sovietico Cernenko, non proprio un campione di democrazia, interrompe una visita ufficiale in Sudamerica per volare a Mosca a piangere sulla sua bara. E quando i controllori di volo Alitalia – ufficiali dell’Aeronautica – entrano in sciopero, anzichè farli arrestare come comandante delle Forze Armate per violata consegna, li riceve al Quirinale per avviare una mediazione col governo.
Egocentrico, estroverso, collerico, intollerante verso qualunque cenno di dissenso, Pertini si affaccia informale a ogni Capodanno nelle case degli italiani con la pipa e il caminetto accesi, menando fendenti a destra e a manca. Memorabile il discorso di fine 1981, l’anno della scoperta della loggia P2: “Questa P2 ha turbato, inquinato la nostra vita. Non mi interessa per ora se cada o non cada sotto il codice penale. Io guardo a un altro codice, che è il codice morale, il codice che ogni uomo, specialmente di ogni uomo politico, dovrebbe portare scritto nella sua coscienza. Ebbene, la P2 cade sotto questo codice morale. Vi è un proverbio che si usa dire: la moglie di Cesare non dev’essere sospettata, ma prima di tutto è Cesare che non dev’essere sospettato. E allora ogni sospetto devono allontanare dalla loro persona gli uomini politici: non può rimanere al suo posto chi è stato indiziato in questa trappola della P2. La P2 si prefiggeva di compiere atti contro la Costituzione, contro la democrazia e contro la Repubblica. E quindi coloro che ne facevano parte dovranno risponderne prima di tutto dinanzi alla loro coscienza, ai loro partiti e soprattutto dinanzi al Parlamento. Non vi può essere in questo caso alcuna comprensione e alcuna solidarietà. Ripeto quel che ho detto altre volte: qui le solidarietà personali, le solidarietà di partiti diventano complicità”.
Altre volte i fulmini di Pertini si appuntano contro contro i “suoi” stessi governi, costringendo poi il Presidente a precisazioni imbarazzate e a contorsionismi diplomatici “riparatori” con gli esecutivi offesi dalla sua furia fanciullesca. Un giorno il povero Maccanico, spinto dalle segreterie dei partiti dopo una delle dirompenti esternazioni dell’arzillo misirizzi, gli telefona a Selva di Val Gardena dov’è in vacanza: “Forse, Presidente, se mi posso permettere, troppe interviste potrebbero danneggiarla”. E subito viene investito dalla trillante vocetta dall’altro capo del filo: “Io parlo con chi voglio, di cosa voglio, quante volte voglio!”. Epico il burrascoso licenziamento, dopo soli due anni, del suo capufficio stampa Antonio Ghirelli, grande giornalista napoletano: accade nel 1980, quando una nota del Quirinale annuncia la richiesta di dimissioni del ministro dell’Interno Cossiga, accusato di favoreggiamento nei confronti di Marco Donat-Cattin, figlio del leader democristiano Carlo e terrorista di Prima Linea, sfuggito all’arresto grazie a una soffiata. Ghirelli rivelerà anni dopo di aver offerto le proprie dimissioni d’accordo con Pertini, in seguito alla solita sfuriata del Presidente, per tutelare un giovane collaboratore che aveva vergato il comunicato al posto suo. L’ultima catastrofe è la grazia concessa in tutta fretta da Pertini a Flora Pirri Ardizzone, una terrorista rossa condannata per associazione sovversiva, ma molto speciale: è la figlia di Ninni, seconda moglie di Emanuele Macaluso. E molti commentano: cosa non si fa per gli amici. Ne vien fuori un putiferio e il segretario generale del Quirinale, Antonio Maccanico, è costretto ad addossarsene tutta la colpa. Nel 1985, a fine settennato, i partiti esausti respingono al mittente le perentorie avances dell’arzillo ottantottenne per essere riconfermato. E votano in massa per Francesco Cossiga. Il mite, il taciturno, il riservato, il notarile Cossiga. Insomma, l’Antipertini. O almeno così credono. Se ne accorgeranno.
da Il Fatto Quotidiano del 15 aprile 2013

domenica 14 aprile 2013

M5S, poche chiacchiere e Rodotà (il treno non ripasserà). - Andrea Scanzi


Sondaggi e cali. Sento da settimane la litania che il M5S è in forte calo “perché non si è accordato con il Pd”. E’ una riflessione – non certo un’analisi – fatta puntualmente da chi ha votato Pd o, al massimo, ha scelto M5S in mancanza di meglio (e magari solo al Senato). Capita spesso, in Italia, che si confonda il desiderio personale con la realtà delle cose. Pensate a Repubblica: ogni volta son convinti che il centrosinistra vincerà le elezioni. Perché? Perché lo spera Scalfari, perché lo spera Mauro, perché lo spera Maltese. Poi, ogni volta, il mondo sta da tutt’altra parte (e loro, ogni volta, si stupiscono: “Toh, non l’avrei mai detto”). Qua sta più o meno accadendo la stessa cosa. Il M5S non è in (forte) calo. Lo è se si prende come riferimento il 27-29 che mai ha preso e di cui era accreditato subito dopo il voto. Per alcuni sondaggisti è al 25 (quanto ha preso alla Camera), per altri al 23 (quanto ha preso al Senato). E i sondaggi, sin qui, hanno sempre sottovalutato il M5S. Al raduno agrituristico, Grillo ha esordito dicendo: “Pazienza se perderemo 2-3 punti”.
Probabilmente, se scendesse attorno al 18-20 percento (comunque una cifra altissima), Grillo e Casaleggio sarebbero anche più contenti. Potrebbero restare all’opposizione permanentementee fungere da pungolo democratico: ciò che sanno fare meglio. La percezione del “calo” è in realtà un sogno di quella sinistra che detesta il Movimento, o di quei grillini-loro-malgrado che credevano di appoggiare una Democrazia Proletaria 2.0. Il M5S non sta subendo nessuna erosione paurosa, al massimo un calo effettivo ma non così gigantesco. (Se poi mi chiedete un parere sulla tattica post-elezioni, ribadisco quanto più volte detto e scritto. Era giustissimo dire “no” a Bersani, che deve abbandonare la politica perché ha sbagliato tutto. Mentre è stato sbagliato restare all’angolo alla seconda consultazione con Napolitano, quando era giusto fare un nome e stanare il centrosinistra).
Lombardi-Troll. Se si impegnasse, non ci riuscirebbe. Non così bene. Se Simpatia Lombardi operasse deliberatamente per non beccarne mezza, non arriverebbe a una tale autoparodia sistematica (e ovviamente involontaria). Il fascismo buono, i portafogli rubati. “Noi non parliamo con le parti sociali, noi siamo le parti sociali” (se Bersani le avesse mollato seduta stante uno schiaffone, o anche solo si fosse alzato lasciandola ai propri deliri, avrei aperto subito il Fan Club “Daje Smacchiatore”). Il “nonno” Napolitano, la sala da dedicare ad “Angelo Siani” (si chiamava Giancarlo, e comunque è già tanto che la Sora Roberta non lo abbia chiamato “Alessandro”). Le pose civettuole mentre la fotografavano con il “capo” Beppe, appena uscita dal Quirinale. Perfino l’accusa di aggressione da parte di un avvocato e militante 5 Stelle, Luigi Picarozzi, che mercoledì scorso aL’aria che tira l’ha tratteggiata come una che nel Lazio conta persino più di Grillo (se il vero guru del M5S è lei, non c’è speranza). Sora Roberta è un mix strepitoso di arroganza, supponenza, dilettantismo e talento da gaffeur. Scegliere una Capogruppo più inadatta era arduo. Forse la Lombardi non è una militante: è un troll. Un fake creato dal Pd per minare la credibilità del Movimento.
Quirinarie (Parte Uno: la Figuraccia). Prima di tutto: la parola “Quirinarie” è orrenda. E le parole sono importanti. Poi: l’annullamento del primo giorno di voto non cela nessun complotto (per cosa? Per scegliere 10 nomi che erano in larga parte già noti? E via, su) ma è stata una figuraccia mediamente titanica. Se insisti col mito della Rete, e poi non riesci a gestire una votazione neanche troppo complicata, non ne esci benissimo.
Quirinarie (Parte Due: l’Occasionissima). Al tempo stesso, le “Quirinarie” (soffro molto a usare questa parola, sappiatelo) hanno portato alla selezione di 10 nomi stimabili. E largamente migliori di quelli che girano dalle parti del Pd-Pdl (cioè, spesso, dalle stesse parti). La modalità è stata un po’ fantozziana, ma il risultato encomiabile. E qua arriviamo al punto fondamentale, che non ammette chiacchiere, distinguo e voli pindarici da duropuristi. E’ un’occasione storica e il treno non ripasserà. Il prossimo governo, se nascerà, durerà pochi mesi: è importante ma non fondamentale.
Il Presidente della Repubblica, al contrario, è fondamentale. Deciderà buona parte della politica dei prossimi 7 anni. E di un altro Napolitano – con tutto il rispetto – ne faremmo a meno (non siamo tutti Ignazio La Russa o Giulia Innocenzi: ho citato a caso due delle persone “trasversali” che ne vorrebbero il bis). Quindi, cari 5 Stelle e cari centrosinistri: fateci vedere cosa volete. Non è più tempo di nascondersi. Nella decina del M5S ci sono nomi belli, ma (alcuni) senza chance di elezione:StradaGabanelliFoGrillo (quest’ultimo nemmeno candidabile perché con precedenti penali). Se vincesse uno di loro, si rischierebbe di morire per troppa purezza, votando “il proprio candidato” non solo nelle prime tre votazioni (probabilmente inutili) ma anche dalla quarta (probabilmente decisiva). Ci sono poi nomi che stanno nel limbo, come Caselli o Imposimato, belli ma che il centrosinistra difficilmente voterebbe (soprattutto il primo, “troppo” giustizialista e percepito come “anti-Grasso”, il nuovo santo intoccabile della quasi-sinistra italiana). Emma Bonino, di colpo, sembra piacere a tutti, perché “è donna e pure laica” (sì, ma è anche stata berlusconiana, contro l’arresto di Cosentino, non troppo critica col diktat bulgaro: eccetera). Sarebbe ovviamente meglio di un D’Alema, ma tutti o quasi sarebbero meglio di un D’Alema. La vedo solo come una meno-peggio.
La presenza di Prodi ha fatto arrabbiare molti grillini, compreso il bizzarramente mazziniano Becchi, che però vivevano sinora su Marte: Prodi è amico di Casaleggio, si stimano, e lo stesso Grillo – prima di chiamarlo “Valium” e “Alzheimer” – nel 2006 votò la sua coalizione. E continua tuttora a stimarlo (nonostante tutto). Non sarebbe un nome nuovo, ma sarebbe pur sempre una persona capace, nonché l’unico che ha sconfitto due volte Berlusconi: eleggerlo significherebbe colpire al cuore Berlusconi (che, da Bari, lancia i soliti segnali di forza malsana e populismo caciottaro: non sottovalutatelo, non ancora). Zagrebelsky è forse il mio nome preferito, ma – temo – troppo “giustizialista” pure lui per un centrosinistra che non vede l’ora di inciuciare (altra parola orribile, ma me la perdonerete).
Quindi? Quindi provate con Rodotà. Persona autorevole, libera, inflessibile. Ai giovanilisti che gli rinfacciano l’anagrafe, ricordo che essere giovani non è in sè un vanto, altrimenti dovremmo asserire che la Lombardi è meglio di Ingrao: di un Renzi sgarzolino faccio a meno, di un Monicelli eterno sento una mancanza fottuta. Domani ci sarà la seconda votazione delle “Quirinarie” (eddai). Verrà scelto il nome vero. Puntate su Rodotà (o, personalmente in quest’ordine: Zagrebelsky, Caselli, Prodi, Imposimato, Bonino). Costringete il Pd a dimostrare chi è e cosa vuole. Stanateli e imponetegli – come in Sicilia – una cosa veramente buona. Cerchiamo di capire finalmente se il Pd è quello dell’ultimo Bersani (tanto condivisibile quanto fuori tempo massimo) e di Civati, o (come credo e temo) dei Letta e dei Franceschini. Scegliete un nome (concreto, non pindarico) che non possa non essere appoggiato. Se voterete Rodotà o Zagrebelsy, e il Pd non vi seguirà, avrete perso (e con voi il paese), ma se non altro avranno tutti ben chiaro la realtà delle cose. Chi paralizza il paese e chi no. Chi vuole il cambiamento e chi no. Chi tiene politicamente in vita Berlusconi e chi no.
E’ un treno che non ripassa, ragazzi. E per i giochetti non c’è più tempo.

mercoledì 10 aprile 2013

Quirinale, gli 11 presidenti – Enrico De Nicola, il monarchico col paltò rivoltato - Marco Travaglio

Quirinale, gli 11 presidenti – Enrico De Nicola, il monarchico col paltò rivoltato


Bizzarro e bizzoso, arriva da Napoli a Roma sull'auto privata e rifiuta l'assegno e l'alloggio al Quirinale. Fra 10 giorni le camere si riuniranno per eleggere il nuovo presidente della Repubblica, il 12esimo. Finora ne abbiamo avuti 11 in 67 anni. Il Fatto Quotidiano li racconta a puntate.

Il primo presidente della neonata Repubblica Italiana è un monarchico e ha 69 anni: Enrico De Nicola, napoletano, politico liberale, avvocato penalista e insigne giurista, che eccezionalmente detesta la retorica (“è il cloroformio delle Corti d’Assise”), ma bada molto alle forme. Ed è proprio per una questione di forme che, il 28 giugno 1946, viene eletto capo provvisorio dello Stato. All’indomani del referendum istituzionale del 2 giugno, che ha sancito per un soffio e tra mille polemiche di brogli la vittoria della Repubblica sulla Monarchia, le massime cariche dello Stato sono occupate da due settentrionali fieramente repubblicani: il trentino Alcide De Gasperi al governo, il piemontese Giuseppe Saragat alla Costituente. Bisogna dare un contentino al Sud, che ha votato in massa per Casa Savoia e si sente più che mai estraneo alla vita politica, tutta dominata dal “vento del Nord” resistenziale. I candidati alla presidenza sono tutti “revenants” (fantasmi, come li chiamava in dialetto piemontese Vittorio Emanuele III, memore dei loro trascorsi nell’Italietta prefascista): la Dc tifa per Vittorio Emanuele Orlando, i socialisti per Benedetto Croce. Ma tra i papabili c’è pure De Nicola, ex deputato liberale e ministro giolittiano, anche se nessuno è disposto a scommettere su di lui, per via del suo pedigree non proprio antifascista.
RITARDO DI 1 ORA E MEZZA AL GIURAMENTO IL 1° LUGLIO ’46. Qualcuno lo rammenta ancora presidente della Camera nel 1922, quando non fece una piega di fronte ai pesanti insulti del cavalier Mussolini a quell’“aula sorda e grigia”, e anzi zittì bruscamente il socialista Modigliani che tentava di protestare e votò la fiducia al primo governo del Cavalier Benito. Qualcun altro giura che don Enrico rifiuterà la candidatura, essendo noto più per le sue rinunce che per le sue investiture: quattro volte ha rifiutato la presidenza del Consiglio, una la nomina a senatore, una l’elezione a deputato, una la poltrona a sindaco di Napoli. Ma alla fine è proprio il gioco dei veti incrociati a catapultarlo sul Colle più alto. La Dc impallina Croce: troppo “laico”, il filosofo partenopeo, che comunque declina l’invito “per evitare lo scandalo e il chiasso”. Fuori uno. Il Pci boccia pure Orlando: ha sponsorizzato un po’ troppo i Savoia nella recente campagna referendaria. Fuori due. Sulle prime, Togliatti pensa ad Arturo Toscanini, poi ripiega su De Nicola. Gli altri si adeguano. Don Enrico viene eletto il 27 giugno, al primo scrutinio, con il 73,7 per cento dei suffragi: 397 voti su 501. Contrari soltanto i repubblicani, il Partito d’azione e la Concentrazione democratica di Ferruccio Parri, che danno 40 voti a Cipriano Facchinetti (Pri), candidato di bandiera. Anche l’Uomo Qualunque non ci sta e sostiene bizzarramente la baronessa catanese Ottavia Penna da Caltagirone nata Buscemi, antifascista, anticomunista e monarchica, candidata apposta – spiega Guglielmo Giannini – come “condanna di un mondo politico incancrenito”, (32 voti). Orlando non lo votano che in 10. Un monarchico sfegatato scrive sulla scheda “Umberto II di Savoia”.
Ma accetterà l’incarico, don Enrico? È noto che adora farsi pregare. Manlio Lupinacci lo canzona sul Giornale d’Italia: “Onorevole De Nicola, decida di decidere se accetta di accettare”. Lui infatti, alle prime avvisaglie della sua elezione, è subito fuggito da Roma rintanandosi nella sua casa di Torre del Greco. Saragat tenta di avvertirlo che sta cominciando la votazione decisiva, ma trova il telefono staccato. Qualche ora dopo ci riprova De Gasperi, per comunicargli l’esito finale. E finalmente il bizzarro e bizzoso neoeletto risponde: “M’inchino alla volontà popolare”. Neppure un cenno di ringraziamento ai deputati che l’hanno issato alla più alta carica dello Stato. L’Alcide ci rimane male, ma prosegue con una punta di ironia: “Auguri, presidente. Se lei è d’accordo, il 1° luglio alle ore 12 dovrebbe giurare fedeltà alla Repubblica…”. “Presidente provvisorio, prego”, lo tronca scontroso l’interlocutore. E il 1° luglio, tanto per non smentirsi, si fa attendere non poco. Fa un caldo africano, quel giorno, a Roma. Davanti al palazzo di Montecitorio una folla di parlamentari, giornalisti e semplici curiosi aspetta con ansia il suo arrivo. Rintanati nell’atrio per ripararsi dalla canicola opprimente, Saragat, presidente dell’assemblea, Orlando, decano del Parlamento, e il conte Carlo Sforza, ex-presidente della Consulta (l’assemblea che dalla liberazione di Roma ha svolto funzioni di organo non elettivo dei governi del Cln) si asciugano il sudore e guardano nervosamente l’orologio. Lo stesso fanno il resto dei parlamentari, assiepati nella Sala della Lupa e, nell’attigua Sala Gialla, De Gasperi, con il governo al gran completo.
Davanti al portone, un picchetto d’onore di vigili urbani a cavallo e un duplice schieramento di carabinieri in alta uniforme si sciolgono sotto il sole che picchia. Ma don Enrico non arriva. Qualcuno, in avanscoperta in piazza Colonna, lancia falsi allarmi: “Arriva, è lui… no, non è lui”. “Doveva esser qui a mezzogiorno ed è già la mezza. La Repubblica è già in ritardo”, sghignazzano i monarchici. Ritardo imbarazzante: un’ora e mezza. Solo alle 13.30 il corteo presidenziale sbuca finalmente dall’ultima curva e avanza lentamente verso la piazza. Un corteo piuttosto scarno, formato da una sola automobile nera, quella privata di De Nicola, senza scorta: i sei poliziotti in motocicletta che l’hanno accompagnato da Napoli li ha licenziati lui personalmente alle porte diRoma. Al suo fianco, oltre all’autista, lo accompagna un nipote (il neopresidente è scapolo). Ma la valigia di cuoio, suo unico bagaglio, pretende di portarsela da solo. Quella che segue, più che una cerimonia ufficiale, è una bicchierata fra vecchi amici. Dopo il giuramento, un telegrafico discorso di presa d’atto dell’incarico. Poi tante pacche sulle spalle, abbracci e salutoni da fiera paesana. A un certo punto gli si fa incontro la democristiana Angela Maria Cingolani Guidi, una sorta di Paola Binetti ante litteram. E gli stampa un bacio sulla guancia: “A nome di tutte le donneitaliane”. Lui, imperturbabile, ringrazia. E restituisce uno smack sulla guancia della timorata signora.
I CONTRASTI CON IL DETESTATO DE GASPERI. Quando gli descrivono gli appartamenti presidenziali approntati per lui al Quirinale, non li visita neppure: essendo “provvisorio”, non può risiedere nella dimora dei Re. Dunque si fa condurre a Palazzo Giustiniani, uno dei luoghi più bassi e più bui di Roma (“ogni mattina al primo visitatore devo chiedere se fuori piove o c’è il sole…”). Nei due anni scarsi del suo mandato, farà in tempo ad apporre la sua firma sulla Carta costituzionale. Scostante, umorale e sempre più stizzoso, arriva a dimettersi “per ragioni di salute” nel maggio del 1947, terrorizzato dalle possibili conseguenze della rottura fra De Gasperi e le sinistre dopo lo storico viaggio a Washington. La Costituente, non potendo respingere le sue dimissioni, lo rielegge il giorno dopo. Un’altra volta minaccia di andarsene perché il procuratore generale della Cassazione, inaugurando l’anno giudiziario, non gli ha rivolto un saluto sufficientemente ampolloso. Epici i suoi scontri con De Gasperi, che detesta cordialmente: nel maggio del ’47, pur di non ridargli l’incarico, convoca Francesco Saverio Nitti e financo l’ottantottenne Orlando. Quattro mesi dopo l’Alcide va a fargli firmare il trattato di pace, ma lui non ne vuole sapere: monta su tutte le furie, afferra le carte diplomatiche e le scaraventa sul pavimento, tra lo sgomento di funzionari e ministri presenti. Solo dopo lunghe insistenze riusciranno a strappargli la firma di ratifica.
Per mesi, poi, De Gasperi e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giulio Andreotti tenteranno di convincerlo a firmare il decreto che gli attribuisce la “lista civile”, cioè l’appannaggio presidenziale (12,5 milioni di lire). Ma invano. De Nicola è quasi povero (ha perduto tutti i suoi risparmi professionali investendoli in buoni del Tesoro all’inizio della guerra), ma rifiuta l’appannaggio presidenziale. Celeberrimo il suo cappotto rivoltato, sempre lo stesso, con cui partecipa alle cerimonie ufficiali: un giorno, su insistenza degli imbarazzati collaboratori, lo manda al suo sarto di Napoli per la riparazione, ma quello gli fa il lavoro gratis e rifiuta i soldi, allora lui gli leva il saluto. Maniaco delle dimissioni e allergico al denaro e al potere: il più antitaliano dei presidenti. Infatti non sarà riconfermato. Due anni di De Nicola possono bastare.
(1. Continua)
Altri tempi, altri Uomini.