La mappa che esce dal voto del 5 novembre crea le condizioni perfette per attuare il Project 2025, il piano sulla concentrazione di poteri nell’esecutivo. Anzi, lo mette sin da subito in atto.
L’elezione di Trump alla Casa Bianca ci annuncia l’avvento di un modello di “populismo autoritario”, i cui contorni sono stati già descritti nel “Project 2025”, il piano scritto dai conservatori USA per rimodellare il ramo esecutivo del governo federale degli USA in caso di vittoria repubblicana alle elezioni presidenziali statunitensi del 2024. Concepito nel 2022, il Progetto mira a reclutare decine di migliaia di “patrioti” a Washington per sostituire lo “stato profondo” (gli attuali addetti ai lavori del servizio civile federale), in modo che siano fidi esecutori del prossimo presidente repubblicano. Fin dal momento dell’insediamento Trump avrebbe il potere assoluto sull’esecutivo. Il Progetto propone di tagliare i finanziamenti del Dipartimento di Giustizia, di smantellare l’FBI e il Dipartimento per la Sicurezza Nazionale e di eliminare i dipartimenti gabinetti dell’Istruzione e del Commercio. Secondo il Washington Post il Progetto prevede perfino l’immediato ricorso all’Insurrection Act per dispiegare l’esercito per l’applicazione della legge nazionale e ordinare al Dipartimento di Giustizia di perseguire gli avversari. Fra i punti qualificanti del Progetto c’è la concentrazione dei poteri nelle mani del Presidente: l’intero ramo esecutivo del governo USA sarebbe posto sotto il diretto controllo presidenziale, eliminando l’indipendenza del Dipartimento di Giustizia, della Federal Communications Commission, della Federal Trade Commission e di altre agenzie;
Il Progetto 2025 ha creato un database modellato su un questionario per selezionare 20.000 dipendenti in base alla loro aderenza all’agenda del Progetto, da distribuire in tutti i 4.000 posti chiave del governo e delle agenzie federali per i quali la Casa Bianca ha poteri di nomina e nei posti lasciati liberi dal previsto licenziamento di 50.000 funzionari con incarichi amministrativi di rilievo.
In armonia col Progetto, Trump ha dichiarato che licenzierebbe «i pubblici ministeri marxisti radicali che stanno distruggendo l’America», che «cancellerà totalmente il Deep State» e che nominerà «un vero procuratore speciale per perseguire il presidente più corrotto nella storia degli Stati Uniti d’America, Joe Biden, e l’intera famiglia criminale Biden». Trump interpreta l’articolo 2 della Costituzione degli Stati Uniti come autorizzazione ad attribuire il potere esecutivo esclusivamente al Presidente, per cui si ritiene in diritto «di fare qualunque cosa come Presidente». Coloro che lavorano nel Dipartimento di Giustizia, dell’EPA e dell’USAID (agenzia governativa, fondata da John Kennedy, al fine di combattere la povertà globale) sono descritti come «ideologi della sinistra radicale» e «attivisti» che sono «incorporati» nei loro dipartimenti; l’uso dell’esercito servirebbe anche alla caccia agli immigrati senza documenti (anche se richiedenti asilo), da deportare in massa.
Se questo progetto venisse attuato, come Trump sembra intenzionato a fare, sarebbe sostanzialmente abrogato il principio organizzatore della democrazia: checks and balances, non ci sarebbe più alcun contro-potere capace di mantenere l’esercizio del potere politico nei binari della Costituzione. I poteri selvaggi che guidano l’economia e la politica si sbarazzerebbero definitivamente dei lacci e lacciuoli dello Stato di diritto.
Magistrato, giudice della Corte di Cassazione. Eletto senatore nel 1994, ha svolto le funzioni di Segretario della Commissione Difesa nell’arco della XII legislatura, interessandosi anche di affari esteri, in particolare del conflitto nella ex Jugoslavia.
Non è fantascienza. Trump vince nei podcast e in tutte le contee, cresce tra i ricchi e si proietta sui satelliti dell’amico Musk. Che partecipa ai vertici tra potenti. E non solo adesso. Per i Dem di tutto il mondo è urgente un’agenda. E una strategia per comunicarla.
La mappa per contee è più definitiva di quella degli Stati: la valanga rossa, dove per rossa s’intende trumpiana, è ancora più estesa e permeata di quanto non si sia già capito. Quanto profonda? I numeri dicono tanto, anche se bisognerà aspettare settimane per avere i dati del Census Bureau per un’accurata analisi demografica dei flussi. I numeri dicono che il muro blu non c’è stato e invece il successo di Donald Trump ha investito ogni strato sociale, ogni territorio, andando a prendersi Stati che sembravano in bilico, e non lo erano, e persino strappando consensi là dove alberga e si nutre il sentiment Dem, la città di New York. Nella Grande Mela, per esempio, Trump ha ottenuto il sostegno del 43% degli elettori sotto i 30 anni contro il 32% del 2020. E ha anche raddoppiato il suo sostegno tra gli elettori neri: dal 7% di quattro anni fa è passato al 16%. In tutto il paese la generazione Z è andata meno a votare – si stima un meno 16% – ma il 10% si è spostato su di lui. E non solo maschi. Tra le giovani donne, Harris si è distaccata da Trump di 24 punti, mentre Biden quattro anni fa era sopra di 35.
Un esito elettorale che ha ribaltato l’istituto dei sondaggi e che ora mette in crisi anche la sociologia urbana, pervasa dal dubbio che la distinzione in metropoli-aree rurali non spieghi più lo spirito che scorre nelle vene del corpo elettorale. Ci sono tanti fattori che hanno trasformato la società in una moltitudine di pixel da saper leggere: c’è la demografia dei singoli territori, il peso delle minoranze nelle grandi città come appunto New York, c’è un successo crescente dello stile trumpiano tra i ricchi come tra i poveri. Ci sono contraddizioni per cui non si trova una necessaria spiegazione. In Missouri ha vinto Trump ma è passato il referendum sull’aborto. In California ha vinto Harris ma sono stati sconfitti una serie di referendum su temi sociali come la riduzione della maggioranza necessaria per approvare interventi di edilizia popolare; l’abolizione dell’impiego non retribuito (nel testo si parlava proprio di schiavitù) dei detenuti; l’aumento del salario minimo.
Alle 5 di mattina del 6 novembre, quando lo sgomento per i dati che arrivavano sempre più netti e nitidi, Francesco Memoli, ingegnere italiano che vive a Pittsburgh da 20 anni, spiegava, nella lunga diretta di Radio Popolare, che da quelle parti – «dove ci sono ancora tanti operai» – Trump era arrivato con la promessa di detassare gli straordinari, che sono una componente importante del sistema produttivo locale e su questo si è preso lo Stato più importante (il suo intervento qui al minuto 17).
Di contro, il tema dell’aborto e quello del voto delle donne per una donna cavalcati da Harris non hanno fatto presa né sulle più giovani né sulle over 45. Tra le prime il voto per la candidata Dem è diminuito di sei punti percentuali rispetto a quattro anni fa, mentre è aumentato esattamente del 6% il consenso di Trump in quella fascia d’età; tra le più adulte invece il calo è stato solo di un punto percentuale.
Sono gli Stati Uniti un paese bigotto e misogino? Si è trattato di un errore di proposte politiche e di contenuti per Kamala Harris mentre Donald Trump li avrebbe azzeccati?
La campagna di Trump è stata indirizzata agli uomini, aggressiva e nerboruta, perfino volgare come quando a un comizio in North Carolina la sua reazione a una voce che dal pubblico si era alzata per insinuare che la vicepresidente e candidata fosse una prostituta, lui ha risposto sorridendo: «Questo posto è fantastico». Come hanno potuto le donne, e ancor di più le più giovani, ignorare questo e altri fatti detti, urlati, scritti, agiti?
Per forza c’è altro. La sfiducia, il risentimento, la rabbia. Roger Cohen ha scritto ieri sul NYT un editoriale che parte proprio da qui, da un avvertimento di Mikhail Gorbachev all’Ovest in giubilo per la fine della guerra fredda: «Stiamo facendo la cosa peggiore per voi: vi stiamo privando di un nemico».
Non da ultimo, su questi e su altri sentimenti c’è la strategia comunicativa. Capillare, quella di Trump e dei suoi. Martellante e pervasiva, occupando ogni canale di trasmissione di informazioni vere, false, distorte o parziali. Non solo bot dell’internet. Cartacei foraggiati da gruppi di interessi di stampo conservatore, se non proprio di destra, e scritti da algoritmi, da anni vengono adagiati con cura sullo zerbino di ogni casa. Controllo della narrativa senza lasciare spazio vuoto. Non da adesso, ma da quando è comparso sulla scena politica e forse prima, senza far passare giorno senza una qualche sparata, un qualche segno, un graffio ma anche un buffetto. Lui e i suoi sostenitori, grandi influencer e piccoli uomini, e donne, uniti in un modo di fare, e forse di essere, imprevedibile e sempre sopra le righe. Si direbbe spontaneo. Il cambio in corsa Biden-Harris lo aveva visto rallentare: per qualche settimana, Trump e il suo vice JD Vance erano fuori tempo, colpivano nel vuoto con un campionario di attacchi ormai superati e Harris appariva in vantaggio, più fresca, con un consenso crescente tra i big del partito e del jet set, sui media tradizionali. Adeguato il registro linguistico, la campagna Trump ha ripreso a sferrare i colpi sotto la cinta, usando gli stereotipi sessuali e razziali e abusando del politicamente scorretto che, come a scuola, conquista risate e spallucce. Nei discorsi di Trump l’obiettivo era attaccare Harris che invece è andata meno a testa d’ariete contro di lui e anzi lo ha nominato davvero poco. La spesa totale in spot tv, radio, digitali per i Democratici è stata di 5 miliardi di dollari, per i Repubblicani di 4,1. E lo Stato in cui si è concentrata una quota consistente è proprio la Pennsylvania: poco più di 1 miliardo di dollari in totale. Che è stata importante nel successo del Presidente, ma non da sola. Uno degli spot più diffusi in Tv da Harris provava a parlare alla classe media, promettendo interventi per abbassare i prezzi degli affitti e dei generi alimentari, ricordando la manifesta intenzione di Trump di tagliare le tasse alle imprese. La campagna del Tycoon invece ha investito la cifra maggiore per una pubblicità sui mezzi digitali in cui dice di voler eliminare le tasse sui sussidi e sulle mance della previdenza sociale.
Secondo l’analisi di AdImpact, i repubblicani hanno poi speso quasi 215 milioni di dollari in spot televisivi che diffamavano le persone transgender. Harris è stata accusata più volte di essere loro sostenitrice.
Ma il martellamento di Trump, soprattutto negli ultimi giorni, è stato minuzioso e mirato al target di elettori che voleva coinvolgere: a luglio il profilo di Trump era stato riattivato su Twitch, piattaforma di Amazon, ossia di Jeff Bezos, proprietario del Washington Post che quest’anno per la prima volta da decenni non ha fatto l’endorsement (che naturalmente sarebbe andato a Harris): era stato bannato a seguito dei fatti di Capitol Hill, il 6 gennaio 2021 dopo la vittoria di Joe Biden. Ai tempi, la stessa decisione l’aveva presa Meta, che sempre a luglio ha consentito a Trump di ricomparire su Facebook e Instagram. Piccoli segnali di un consenso – o almeno di non ostilità – da parte dei proprietari delle principali piattaforme social, che così in qualche modo hanno rafforzato i mezzi di propagazione del verbo trumpiano. A parte X, quello chiaramente schierato con Trump per dichiarazione e azione del suo dominus, Elon Musk.
Mentre i Dem diffondevano i video con la candidata che andava a bussare alle porte degli americani per invitarli al voto, Trump intanto entrava nella vita degli elettori dalle cuffiette dei videogiochi e dei podcast, anche di quelli meno famosi, più locali, purché con un significativo numero di followers. Alcuni di loro – Nelk Boys, Adin Ross, Theo Von, Bussin’ With The Boys – sono stati nominati a titolo di ringraziamento durante il discorso di vittoria di mercoledì mattina. L’ultimo dell’elenco era Joe Rogan, comico, il podcaster più famoso di tutti, una potenza di ascolti e visualizzazioni: una volta fervente democratico. Solo su Youtube, la sua intervista di fine ottobre a Trump ha totalizzato quasi 50 milioni di visualizzazioni. Con questi signori, seguiti prevalentemente da un pubblico maschile giovane, l’obiettivo era assicurato. Ore e ore di chiacchiere seduto davanti a un microfono, in un ecosistema amico e confortevole, riverberante, senza filtri, senza regole, senza limiti, pieno di cospirazionisti, dubbiosi, arrabbiati, soli. Come i manovali che, spiegava la radio pubblica NPR, alla fine di una giornata di polvere e fango, in autobus tornano a casa fuori dalle città, in mezzo al niente, con pochissimi soldi, tutto diventato insensatamente caro e si attaccano ai video giochi on line, dai quali spunta The Donald che promette l’America della leggenda, la terra feconda di opportunità e intanto scatena la guerra civile contro gli immigrati irregolari arrivando al cuore degli immigrati che intanto si sono regolarizzati e quindi votano per lui: semplicemente sbagliava, chi pensava che le battute sugli haitiani che mangiano i gatti o sui portoricani che sono pattumiera fossero troppo pure per i trumpiani. Una cacofonia in cui si perdono i sensi e il senso.
La strategia democratica non ha potuto nulla. Ci si interroga ora se le primarie avrebbero potuto individuare un candidato migliore di Biden e di Harris. Se il passo indietro di Biden sia arrivato troppo tardi e ormai troppo male. Ci si chiede perché gli influencer di Trump abbiano portato voti, mentre lo star system schierato con Harris no.
Sarada Peri senior speechwriter di Barack Obama ha detto a Politico.com che «anche il modo in cui ascoltiamo e rispondiamo agli elettori è rifratto attraverso Trump […] Timorosi di alcuni elettori e sprezzanti di altri, non convinciamo quasi nessuno […] Le idee stantie su cui si è basato il partito sono state una reazione alla sua agenda». Will Stancil avvocato per i diritti civili mette in evidenza il successo della «macchina della rabbia nazionale» trumpiana e invita i democratici, di cui fa parte, a «trovare un modo per fare progressi nei media moderni e strappare un maggiore controllo dell’ambiente informativo nazionale a Trump». Perché è un errore, non attribuire il reale peso della pluralità di fonti virtuali di [mala]informazione. Donna Brazile, ex presidente del Democratic National Committee, colpita dall’esito di questa campagna ha suggerito come unica strada sia la convocazione del comitato esecutivo democratico e la condivisione di una «nuova strada da seguire». Ed è una strada che non può non passare anche da un aggiornamento di linguaggi e strumenti, una presenza sulla terra ma anche nelle reti virtuali che con i loro algoritmi segreti non sono neutrali e anzi campi di battaglia culturale su cui installare le strategie di futuro, una riconnnotazione dei confini del mondo e una redistribuzione dei pesi.
E non è fantascienza, Elon Musk e il suo Starlink che vegliano su di noi – a ottobre 2020 il segretario alla difesa, Colin Kahl, si appellò al miliardario perché le forze armate ucraine stavano perdendo la connessione internet nei territori contesi dalla Russia e ora Musk ha preso parte alla telefonata tra Trump e Zelensky – sono lì a dirlo. Forte e chiaro.
Sblocco dei crediti e ripristino del Superbonus edilizio al 110% delle origini. Salario minino legale. Difesa del reddito di cittadinanza. E naturalmente transizione ecologica dura e pura, senza cedimenti su rigassificatori o termovalorizzatori. Altro che Agenda Draghi. Per il M5s di Giuseppe Conte, piuttosto, ci vorrebbe l’Agenda Parisi (Giorgio, il premio nobel per la fisica impegnatissimo sul fronte della lotta al climate change). L’ex premier si ritrova alla fine da solo, senza più l’alleanza con il Pd che ha caratterizzato la stagione del suo secondo governo, il Conte 2, e senza neanche la sinistra di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli che, nonostante le polemiche furiose di questi giorni, sigleranno oggi l’intesa con il segretario dem Enrico Letta per stare nella coalizione democratica e progressista. Dunque Cinque Stelle soli, duri e puri come alle origini.
Un po’ difficile, per la verità, convincere gli elettori storici del movimento con la narrazione di un improbabile ritorno alle origini dopo aver guidato due governi di segno diversissimo (il Conte 1 con la Lega e il Conte 2 con il Pd) e aver sostenuto il governo Draghi delle larghissime intese. Ma il motivo fondamentale che ha portato Conte a “defenestrare” Mario Draghi è stato il declinare inarrestabile del M5s nei sondaggi: ora la sfida è mantenerlo sopra il 10% puntando appunto sulla corsa solitaria e su un’agenda alternativa a quella tanto evocata di Draghi. Non a caso Conte non perde occasione per criticare il suo successore. Ieri è stata la volta della misura sui docenti contenuta nel decreto Aiuti bis: «Ieri il governo Draghi ha deciso che l’1% degli insegnanti, dopo un percorso di formazione, fra 10 anni potrà essere definito esperto e ricevere un assegno di 5.650 euro. Non è questa la nostra idea di Paese: in Italia abbiamo gli insegnanti con gli stipendi più bassi d’Europa».
Temi programmatici a parte, Conte ha ora da compilare le liste elettorali senza poter contare sulla classe dirigente del movimento, a parte il ministro Stefano Patuanelli, a causa del niet posto dal Garante Beppe Grillo alla ricandidatura di chi ha già fatto due mandati. A selezionare i futuri eletti saranno le parlamentarie on line che si terranno il 16 agosto, appena cinque giorni dal termine per la presentazione delle liste, mentre Conte dovrebbe scegliere i capilista. Anche se il ricorso da parte del solito avvocato Lorenzo Borrè è già pronto: «Leggendo e rileggendo lo statuto non trovo la previsione del potere del presidente di scegliere i capilista». Intanto Alessandro Di Battista, con cui Conte si è sentito molto nelle ultime ore, è sulla via del rientro nel movimento: il volto giusto per la narrazione del ritorno alle origini.
Una rincorsa di fatto al Terzo polo, quella di Conte, che tuttavia trova sul campo un altro concorrente agguerrito: l’ex premier Matteo Renzi, colui che ha fatto cadere il Conte 2 spianando la strada a Draghi. E proprio all’insegna dell’Agenda Draghi si giocherà la campagna elettorale di Italia Viva, in opposizione a tutti i punti programmatici di Conte: dal reddito di cittadinanza che per Renzi andrebbe addirittura abolito al superamento del Superbonus al 110% fino all’apertura al nucleare. L’obiettivo è il 5%, per essere ancora ago della bilancia nella prossima legislatura. Più prosaicamente Renzi spera, con la corsa solitaria, di superare la soglia del 3% per rientrare in Parlamento con una piccola pattuglia di fedelissimi. Ma c’è tempo fino al 21 agosto, e le porte del Pd restano aperte per il segretario che portò i dem al 40%: soprattutto se dovesse saltare l’accordo tra Letta e la sinistra di Fratoianni e Bonelli, Renzi potrebbe rientrare in corner. Ma intanto prosegue nella costruzione del Terzo polo: in queste ore sono in corso contatti con l’ex sindaco di Parma Federico Pizzarotti e con altri primi cittadini “liberali e moderati”. Sarebbe un bel colpo per Renzi scippare al campo largo il “civico” Pizzarotti, nelle scorse settimane corteggiato anche da Luigi di Maio per la sua lista Impegno civico.
“È la somma che fa il totale”, diceva Totò. Quindi non c’è nulla di originale nell’osservare che il nuovo centrosinistra giallorosa vince solo se è unito: a Napoli con Manfredi è un po’ più contiano e dimaiano, a Bologna con Lepore è molto più pidino. A Milano i 5Stelle sono irrilevanti, come sempre, e quello di Sala (mai iscritto al Pd e proveniente dal centrodestra morattiano) è un trionfo personale e trasversale. Il vecchio centrodestra a tre punte, a trazione meloniana e non più salviniana, va male dappertutto: per ora porta a casa solo la Calabria, e più per i demeriti del centrosinistra (ben tre candidati) che per meriti propri. È secondo persino a Torino, dove il moderato Damilano era strafavorito sul pd Lo Russo. Il quale però ora deve sperare nella scarsa memoria dei 5Stelle, dopo gli insulti alla buona esperienza Appendino e il rifiuto tracotante di qualsiasi dialogo col M5S. Roma fa storia a sé. La Raggi s’è rivelata un osso molto più duro di quel che diceva la black propaganda, ma non abbastanza per qualificarsi alla finale. Lì però può succedere di tutto: la Meloni farà pesare tutto il suo consenso personale e, anche se Conte facesse l’endorsement a Gualtieri e molti elettori raggiani lo seguissero, Michetti avrebbe un ottimo serbatoio di riserva tra gli elettori di Calenda, l’altro candidato di destra (l’altra destra: quella borghese, confindustriale e tecnocratica), allergico ai giallorosa.
Tutto ciò premesso, sarebbe ridicolo confondere questa tornata amministrativa con le prossime Politiche. Chi lo fa, seguendo i soliti esperti del nulla, si condanna al suicidio. Il centrosinistra che ha appena stravinto il primo turno delle Comunali, su scala nazionale resta 10 punti sotto il pur malconcio centrodestra. Il che rende semplicemente comico il pressing dei giornaloni perché il Pd molli l’asse col M5S contiano per allearsi con non si sa bene chi. Se il Pd vince è proprio grazie alla linea Zinga-Letta sull’alleanza col M5S: la linea Renzi, alle Comunali del 2016, portò il partito alla débâcle. Anche chi vaneggia di “sconfitta dei populisti”, con Lega e FdI al 40% e gli astenuti al 46%, racconta barzellette. I non votanti – il primo partito d’Italia – sono soprattutto ex elettori 5Stelle in attesa di un’offerta credibile. È un monito soprattutto per Conte, che dovrà trovare linguaggi e contenuti di populismo gentile e competente per recuperare almeno una parte delle periferie sociali ed elettorali che non si sentono rappresentate da nessuno. Specie nel deserto del Nord. Dalla sua, ha la fortuna di essere la soluzione migliore alla penuria generale di classe dirigente: fra i vari ex premier in circolazione, è di gran lunga il più apprezzato dal “popolo”. Ma quel ricordo non dura in eterno.
Da quando han cominciato a votare contro le élite politiche, finanziarie ed editoriali, gli elettori godono di pessima fama. Sono populisti, giustizialisti, poco riformisti, scarsamente moderati, insufficientemente europeisti, non abbastanza atlantisti e affetti da una preoccupante cultura anti-impresa. I padroni del vapore e i loro pennivendoli li avevano avvertiti: votate come vi diciamo noi, cioè i soliti B. o Renzi, che poi fa lo stesso. Ma quelli niente: non ne han voluto sapere. E sono stati puniti: il solito banchiere al governo. Eravate contro l’establishment e gli inciuci? E noi vi piazziamo la quintessenza dell’establishment sostenuto da un inciucione. Così imparate. Ora però abbiamo un problema: prima o poi si vota, al più tardi nel 2023. E quei rompicoglioni degli elettori hanno financo la pretesa di decidere da chi farsi governare. Con l’aggravante, sondaggi alla mano, di non essere guariti dalla grave patologia chiamata democrazia. Infatti i politici più popolari sono Conte e la Meloni. Come si fa? Semplice: si decide nelle segrete stanze chi deve governare gli italiani, così quelli si adeguano e votano bene oppure se ne stanno a casa e lasciano votare chi vota bene. Lo spiegava ieri, nel 40° anniversario de La voce del padrone di Franco Battiato, il sincero democratico Stefano Folli su Repubblica (un ossimoro: dovrebbe chiamarsi almeno Monarchia): siccome Conte riporta su il M5S nei sondaggi e riempie le piazze, “assistiamo al rapido tramonto di Conte”, un “declino veloce e forse inarrestabile” (l’ha deciso lui).
Quindi “il centrosinistra deve chiedere a Draghi di proseguire la sua opera a Palazzo Chigi”. E – tenetevi forte – “dovrebbe farlo il centrodestra non meno del centrosinistra”. Destra e sinistra con lo stesso premier. Qualcuno domanderà: ma gli elettori che ci stanno a fare? E in quale Paese, a parte Cuba, la Russia e qualche repubblichetta delle banane, tutti i partiti indicano lo stesso capo del governo? Beata ingenuità: è proprio questo che sognano lorsignori e i loro manutengoli a mezzo stampa. Anzi, non si limitano a sognarlo: lo confessano nero su bianco. Sentite il seguito del piano Folli, che delizia: “Offrire una base politica a Draghi, magari senza bisogno che egli si candidi formalmente alle elezioni”. Ecco, Draghi “formalmente” non si candida, se no poi la gente capisce: si candidano tutti gli altri per poi re-issare SuperMario sul trono regale. I programmi, le idee, le diverse visioni dell’Italia e del mondo, naturalmente la sovranità popolare, cioè la Politica e la Democrazia, possiamo scordarcele: “Tra un anno (cioè subito prima delle elezioni, ndr) occorrerà fare delle scelte in vista del dopo”. Prima si decide, poi si vota: non è meraviglioso?
Dentro l’attuale congiuntura critica, non è buona norma farsi guidare dalla paura che vinca la destra. Meglio essere pronti a una sfida alta. Da come si sono messe le cose, sarebbe auspicabile che si seguisse una via trasparente e lineare. Quella già prefigurata da Conte nel caso quasi certo che venga meno la maggioranza: un passaggio parlamentare in cui ciascun soggetto, singolo o partito, si assuma la propria responsabilità agli occhi del Paese. Come fu per i governi Prodi, tra i pochi che, in conformità alla Costituzione, furono sfiduciati in Parlamento.
Conte consideri che se Prodi, dopo la caduta del suo primo governo, ha avuto una seconda chance nel 2006 è perché la nitida parlamentarizzazione della crisi, ne preservò la credibilità. Ogni altra soluzione – “responsabili”, rimpastone, cambi di premier – incappa in una doppia obiezione: avrebbe il sapore antico e sgradevole dei giochi trasformistici di palazzo che gettano ulteriore discredito su politica e istituzioni, ma soprattutto non risolverebbe il problema, reitererebbe una condizione di asfissia e precarietà. Chi può scommettere che, per questa via, ci si possa mettere al riparo dai ricatti quotidiani dell’ultimo “responsabile” e tanto più di Renzi, mosso dalla pervicace, cinica e disperata convinzione che la sua strategia dell’ostruzionismo di maggioranza possa assicurargli visibilità e (improbabile) consenso? Certo, parlamentarizzare la crisi e rifiutare opache manovre di palazzo comunque non risolutive presuppone di mettere nel conto elezioni anticipate. Davvero, non solo evocandole tatticamente senza convinzione. Conosciamo l’obiezione: elezioni dentro l’emergenza sanitaria ed economica, nel vivo del piano vaccinale e di quello per il Recovery sono un serio problema (e chi le ha causate ne risponderà). Ma l’obiezione può essere rovesciata: si possono affrontare quelle sfide con un esecutivo fragile quanto o più di questo?
Alle elezioni la destra parte favorita. Ma, se ben impostata da subito, proprio a partire da un limpido dibattito parlamentare in cui – come quello dell’agosto 2019 tra Conte e Salvini – siano squadernati problemi e responsabilità, la partita sarebbe apertissima. Anche col Rosatellum, una brutta legge elettorale, che tuttavia costringe ad alleanze prima delle elezioni. Che si configurerebbero come una sorta di referendum a due: tra uno schieramento europeista Pd-M5S-LeU guidato da Conte e uno sovranista capeggiato da Salvini. Non sarebbe una passeggiata per quest’ultimo portare tutto il centrodestra a una battaglia antieuropeista nella stretta del negoziato con la Ue per il Recovery. Nel fronte antagonista sarebbe l’occasione per un chiarimento identitario e strategico per Pd e M5S. Con nuovi gruppi parlamentari finalmente organici a tale prospettiva. La precarietà politica e la debolezza di qualunque governo dipende anche dalle contraddizioni irrisolte degli attori politici. Un vallo arduo che va attraversato. Non possiamo permetterci di condannare il Paese a governi senza respiro.
Non credo che le elezioni siano la scelta migliore, allo stato attuale. Abbiamo una pessima legge elettorale e tanti soldoni nel carniere alla cui spartizione vorrebbero partecipare in tanti.
È vero, qualcuno ha offeso i calabresi e li ha offesi in modo indegno, reputandoli incapaci di intendere e volere e non è stato sicuramente Morra a farlo, ma chi si è stracciato le vesti per le sue parole…è offendere qualcuno dire: "...Se però ai calabresi questo è piaciuto, è la democrazia, ognuno dev’essere responsabile delle proprie scelte…." Sapete cosa è offensivo? Cosa è veramente vergognoso? Far passare il messaggio che i calabresi non sappiano cosa votano, chi votano e perché lo votano…oppure i calabresi sono obbligati a votare certi soggetti? Perché se lo fossero veramente, la cosa sarebbe ancor più grave, ma grave veramente…in Calabria non c'è democrazia? In Calabria le persone votano, anzi più correttamente "sono costrette a votare" qualcuno in particolare? L'autodeterminazione dei popoli, vale per tutti, ma non per i calabresi? Ci sono dubbi sulla veridicità delle elezioni calabresi? Perché chi dice che Morra offende fa passare questo messaggio. Ognuno è responsabile delle proprie scelte…o lo sono tutti tranne i calabresi? Se io fossi calabrese, mi sentirei offeso, umiliato e denigrato, da chi afferma il contrario, significherebbe che non sono in grado di scegliere i miei rappresentanti… C'è poi chi per portare avanti la tesi dell'incapacita di intendere e volere dei calabresi è andato dalle parole ai fatti ed è il caso di RAI 3, che ha pensato bene di non mandare in onda, l'intervista a Morra, motivandola cosi: "Lo abbiamo invitato tre giorni fa, poi le sue parole hanno stravolto lo scenario. Parole offensive nei confronti della memoria di Jole Santelli e nei confronti dei calabresi"... Anche in questo caso, qualcuno si erge a paladino dei calabresi perché loro non hanno la capacità di farlo? Ma non finisce qui : "La direzione della Rai ha deciso che il senatore Nicola Morra questa sera non doveva essere qui"....la direzione ha deciso? La direzione? A quale titolo? Per quale assurdo potere? E potere conferito da chi?...Si chiama "servizio pubblico", non dittatura pubblica. E poi l'apoteosi: "Sono molto in imbarazzo" afferma la conduttrice "ma probabilmente questa è la scelta giusta"...scelta giusta per chi? Per cosa?... Scelta giusta per i calabresi che non sono in grado di decidere qualcosa da soli, che non sanno cosa e chi votano…e hanno bisogno di un tutore? Di qualcuno che indirizzi le loro scelte?...Si è proprio vero qualcuno ha vergognosamente offeso i calabresi…ed è stato chi li ha fatti passare per un popolo incapace di intendere e volere.
Tutto è relativo. Infatti è bastata la sola esistenza in vita di Donald Trump per trasformare Joe Biden nel nuovo Abramo Lincoln e la vice Kamala Harris (vedi pagina 14) nella versione femminile di Martin Luther King. Ma, per evitare sorprese in futuro, è bene conservare un pizzico di memoria sul passato. Tre anni fa La Stampa ancora diretta dallo yankee Molinari era impegnatissima a dimostrare che Putin truccava le elezioni in tutto il mondo, convincendo a colpi di hacker, troll e fake news centinaia di milioni di abitanti del pianeta a votare i cattivi sovranisti al posto dei soliti buoni. E titolò tutta giuliva: “Biden: ‘Così il Cremlino interferì nel referendum italiano. Mosca sostiene Lega e M5S’”. Ecco perchè l’Innominabile aveva perso il referendum e Palazzo Chigi: non perché la sua riforma e il suo governo facessero pena ai più, ma perchè l’aveva deciso Vladimir. Che aveva già telecomandato l’elezione di Trump, il voto sulla Brexit e non solo. L’articolo di Biden sulla rivista Foreign Affairs, anticipato da La Stampa, svelava il fallito tentativo di pilotare le elezioni francesi del 2017 e “passi simili per influenzare le campagne politiche in vari Paesi Ue: i referendum in Olanda (integrazione dell’Ucraina in Europa), in Italia e in Spagna (secessione catalana)”.
Il fatto che Referenzum si fosse tenuto sei mesi prima delle Presidenziali francesi, era solo un dettaglio. Del resto all’epoca il vecchio Joe era considerato in patria un buontempone specializzato in gaffe: appena apriva bocca perdeva una preziosa occasione per tacere. Tipo quando aveva definito Obama “un nero pulito in grado di parlare in modo articolato” e sostenuto che in America “il 47% dei poveri sono scansafatiche”. Infatti lo presero sul serio giusto l’Innominabile e La Stampa, nella speranza che gli italiani abboccassero al suo allarme sullo “sforzo russo per sostenere il movimento nazionalista della Lega Nord e quello populista dei 5 Stelle alle prossime elezioni”. A colpi di fake news e persino di “corruzione” (il cazzaro non specificava di chi). Nessuno spiegò perché mai lo zio Vlady avrebbe dovuto scaricare i suoi amici italiani, cioè B. (che gli aveva appena regalato un copripiumone per il compleanno) e l’Innominabile (che si era opposto alle nuove sanzioni anti-Russia chieste da mezza Ue). Poi si sa come andò: Putin convinse 10,7 milioni di italiani che era ora di rottamare il renzismo votando 5Stelle e altri 5,7 a pensionare B. votando Salvini, come se non ci fossero già arrivati da soli. Ora si attendono lumi da Biden e dalle sue cheerleader italiote sulle ultime presidenziali: com’è che ha vinto lui ed è il presidente più votato di sempre? S’è alleato coi russi o, niente niente, Putin s’è distratto un attimo?
Per la prima volta, ho provato sentimenti di umana pietà per Monica Cirrinnà. È stato quando ho letto sul sito di Repubblica che “Calenda schiaccia gli altri candidati nella corsa per il Campidoglio”. Il pensiero dell’esile deputata pidina che stramazza al suolo esanime sotto il peso del corpulento leader di Azione mi ha fatto riflettere sulle dure e impietose leggi della politica e sull’esigenza di porvi qualche limite di cristiana misericordia o di laica solidarietà. Anche perché le primarie romane del centrosinistra sono talmente affollate che non ci si meraviglierebbe di veder piovere dal cielo pure Mario Adinolfi. E lì sarebbero cavoli amari per tutti, non solo per la Cirinnà. Ma almeno si smetterebbe di chiamarle “le primarie dei sette nani”. Per fortuna, al momento, di schiacciante c’è solo la maggioranza dei giornaloni e dei retrostanti padroni del vapore che fanno il tifo per Calenda ancor prima che si candidi a sindaco. Anzi, più che un tifo, è una serie di orgasmi multipli a mezzo stampa, pari a quelli che si registravano ai tempi del Giubileo, dei Mondiali di Nuoto e delle candidature olimpiche (fortunatamente sventate da Monti e dalla Raggi). Con una particolarità: invece dei tradizionali sospiri e gridolini di piacere, gli orgasmi capitolini hanno come colonna sonora un sinistro rumore di ganasce, che va da Repubblica degli Agnelli-Elkann al Messaggero di Caltagirone. Per la serie: daje che se rimagna.
Repubblica spaccia per “sondaggio” una consultazione fra i lettori del sito su chi preferiscano fra Calenda e nove “potenziali candidati” al Campidoglio: Cirinnà, Fassina, Zevi, Ciani, Caudo, Magi, Ciaccheri, Alfonsi e De Biase. Naturalmente è arrivato primo Calenda col 50%, mentre gli altri nove si dividono il 32 e il restante 18 li detesta tutti. Bella forza: Calenda sta sempre in televisione anziché al Parlamento europeo (dove, secondo i dati ufficiali di Votewatch, è il 72° italiano su 75 per numero di voti e presenze: peggio di lui fanno solo Roberti, Patriciello e B.), mentre gli altri nessuno sa chi siano. Il campione, peraltro, è piuttosto striminzito, visto che in quattro giorni han risposto appena 25mila lettori del sito e 13.100 han votato Calenda. Ma Rep ha già deciso che questo “successo travolgente”, questo “straordinario consenso” basta e avanza a garantirgli “buone chance di arrivare primo”: basterà un emendamento per limitare il diritto di voto ai romani che leggono il sito di Rep. Inutile fare le primarie, un tempo orgoglio e vanto del Pd veltroniano e dunque di Rep, oggi degradate a “concorso di bellezza per sconosciuti” e “coperta di Linus cui aggrapparsi in mancanza di idee migliori”.
Del resto, Carletto è un “city manager più che un politico di professione”, e ciò è bene se lo dice Rep (se lo dicono gli altri, è male, è qualunquismo, peronismo, antipolitica, fascismo). Lui sa “cosa vuol dire amministrare una macchina da 30 mila dipendenti”, anche se non ha amministrato nemmeno un condominio. Lui sa “condurre in porto un appalto senza farsi imbrigliare per mesi o anni da cavilli”: basti pensare alla brillante gestione di dossier come Ilva, Alitalia eccetera. Lui sa “far ritrovare alla parte sana dei dipendenti comunali l’orgoglio delle cose realizzate”, anche grazie alla proverbiale fermezza e alla tetragona continuità: nel 1998 in Ferrari, nel 2003 a Sky, nel 2004 in Confindustria, nel 2008 all’Interporto Campano, nel 2012 in Italia Futura con Montezemolo, nel 2013 candidato trombato nella Lista Monti e viceministro al Mise con Letta, nel 2014 confermato da Renzi, nel 2016 rappresentante permanente dell’Italia presso la Ue per ben due mesi, poi di nuovo al Mise come ministro, nel 2018 nel Pd, nel 2019 fondatore di Siamo Europei, ma candidato ed eletto eurodeputato col Pd, abbandonato tre mesi dopo per fondare Azione, e ora forse candidato a sindaco di Roma confidando nell’appoggio del Pd che ha appena cercato di far perdere alle Regionali, insultandone i dirigenti e persino gli elettori (“indegni”). Sono soddisfazioni. Ma l’orgasmo repubblichino è niente al confronto delle fregole caltagirine. Il Messaggero titola: “La tentazione dei dem: ‘adottare’ Calenda per fermare la Raggi. L’idea di replicare l’operazione Bonino nel 2010”. Infatti l’operazione Bonino nel 2010 riuscì a consegnare il Lazio alla Polverini. Ma la notiziona è un’altra: dopo aver passato quattro anni a dipingerla come un’incapace che i romani non rivoterebbero neppure sotto tortura, adesso il Messaggero registra orripilato “la paura, non solo di Calenda ma di buona parte della città, che Virginia possa arrivare al secondo turno, per poi avere l’appoggio sicuro del Pd”. Un “timore che rovina il sonno anche al Pd”. Ma come fa la Raggi ad arrivare al ballottaggio e poi a rivincerlo se “buona parte della città” è terrorizzata dalla sola prospettiva? E perché mai l’insonne Pd dovrebbe darle l’“appoggio sicuro” al ballottaggio se non dorme la notte all’idea che rivinca? L’unica spiegazione alternativa al manicomio è che forse non è vero che la Raggi ha sbagliato tutto e tutti i romani la maledicono. E forse non è vero che Roma è piena di sindaci in pectore capacissimi di rifarla più bella e superba che pria: altrimenti qualcuno di questi fenomeni si candiderebbe per farcelo vedere. Cioè: i giornaloni ci han raccontato un sacco di balle. Tanto per cambiare.
Nella classifica dei contagi primeggiano la solita Lombardia, ormai fuori concorso, e le Regioni che hanno appena plebiscitato i loro presidenti: Campania, Veneto e Liguria. I contagi, ovviamente, non sono colpa dei cosiddetti “governatori”: ma De Luca, Zaia e Toti hanno stravinto le regionali proprio perché visti come i salvatori delle rispettive regioni dal Covid. Zaia in un certo senso lo è stato, avendo avuto la fortuna e l’umiltà di affiancarsi Crisanti, con cui poi ha litigato (e da allora il Veneto se la passa maluccio). Toti invece ha mal gestito la prima ondata. Ma, siccome Lombardia e Piemonte han fatto peggio, è passato per uno bravo. E si è pure preso il merito del nuovo ponte, i cui fondi statali sono finiti non spesi o regalati a chi non ne aveva diritto con una distribuzione a dir poco clientelare. Poi, anche grazie alla scandalosa propaganda a suo favore del Giornalone Unico, è riuscito a nascondere la seconda ondata fino alle elezioni. La Campania è stata risparmiata dalla prima ondata per puro culo, non certo per merito di De Luca, il satrapo tutto chiacchiere e distintivo che non ha risolto nessuno degli annosi problemi della sanità campana, anzi li ha aggravati. Ma li ha mascherati dietro la solita raffica di comizietti e siparietti demagogici: molto più comodo evocare lanciafiamme o minacciare lockdown che creare posti letto o assumere medici e infermieri. Intanto un suo fedelissimo, il sindaco di Eboli Massimo Cariello, appena rieletto col record dei voti (80%), ha avuto il tempo di formare la giunta poi è finito in manette per corruzione e abuso: le intercettazioni lo immortalano mentre pilota due concorsi per far assumere una dozzina di amici. Il gip lo descrive come “completamente immerso in una logica privatistica di gestione del potere, tutta votata alla salvaguardia degli interessi propri o delle persone a lui vicine”. Infatti l’hanno votato 4 concittadini su 5. Che presto torneranno alle urne in base alla legge Severino.
In democrazia, è vero, gli elettori hanno sempre ragione. Ma bisogna intendersi. Chi vince ha il diritto-dovere di governare, sempreché non lo arrestino. E chi perde deve chiedersi il perché: ma non sempre la risposta è che ha vinto il migliore. In Liguria, in Campania e a Eboli, pochi giorni dopo le elezioni, è già evidente che han vinto i più bugiardi, o i più demagogici, o i più clientelari, mentre chi li contrastava senza bugie né voti di scambio, ma solo col voto di opinione (Sansa in Liguria, i 5Stelle in Campania) non aveva speranze. Risposta terribile: significa che continueranno a vincere i peggiori finché non troveranno qualcuno ancor peggio di loro. O elettori più informati e meno ricattabili di oggi.
Mentre i vertici grillini erano impegnatissimi a spararsi l’un l’altro, cioè sui piedi, infischiandosene dei ballottaggi di cui probabilmente ignoravano financo l’esistenza, gli elettori di Matera e Pomigliano d’Arco hanno eletto sindaci due 5Stelle. Il che ovviamente non risolve nessuno dei problemi pentastellati: l’emorragia di voti, la guerra per la leadership, la desertificazione sui territori, il caso Rousseau. Ma indica una strada che né Di Maio, convertitosi troppo tardi alle alleanze, né Di Battista, che ancora insegue velleitarie equidistanze e improbabili terzi poli, possono ignorare. Gli elettori hanno ripetuto ciò che avevano già detto alle Regionali: finché la destra sarà così impresentabile e il Pd non tornerà a somigliarle, la priorità è batterla. Meglio se con un candidato M5S, ma anche – turandosi il naso – con uno di centrosinistra. Sempreché non sia impresentabile come o peggio di quello di destra (tipo De Luca): nel qual caso va bene anche la “testimonianza” in una partita persa in partenza. Quindi le alleanze non sono obbligatorie, ma vanno tentate. Anche perché il Pd, sapendo di perdere senza i 5Stelle, è disposto a concedere molto. E lì si vede se restano un movimento o sono diventati un partito, se sono ancora il M5S o sono già l’Udeur.
Il problema non sono le poltrone, ma l’uso che se ne fa. Se per allearsi pretendono liste pulite, candidati eccellenti, cronoprogrammi vincolanti su ambiente, welfare e beni comuni, rimangono se stessi e gli elettori li premiano. Se mettono al primo posto le cadreghe, tradiscono la propria missione e vengono puniti. Di qui dovrebbero partire i loro fatidici stati generali: facendo parlare per primi Domenico Bennardi e Gianluca Del Mastro, nuovi sindaci di Matera e di Pomigliano. Il primo, 45 anni, si è laureato a Firenze in Scienze della formazione e specializzato in nuove tecnologie di restauro e beni culturali. Il secondo, 46 anni, è docente universitario di Papirologia, manager culturale e presidente delle Ville Vesuviane. Due esponenti della seconda generazione dei 5Stelle: quella che nel 2018 ha portato in Parlamento il gruppo col più alto tasso di laureati, lontanissima dalla leggenda nera degli scappati da casa incompetenti e terrapiattisti. Bennardi ha vinto da solo, strappando Matera alla destra coi voti del Pd escluso dal ballottaggio. Del Mastro – frutto del patto Di Maio-Zinga premiato pure a Caivano, Giugliano e Faenza – ha sottratto Pomigliano alla destra dopo 10 anni. Noi non li conosciamo, ma sospettiamo che abbiano priorità più concrete e contemporanee di tutte le pippe mentali su identità, terzo polo, alleanze, partito, movimento e Rousseau. Perchè non fare gli stati generali a Matera?
Tutti i principali media e i loro commentatori riconoscono, alcuni obtorto collo, che l’unico, vero vincitore di questa doppia tornata elettorale (referendum più Regionali e Comunali) è, per la disperazione della Trimurti (Giornale, Verità, Libero), il disprezzatissimo “Giuseppi”, vale a dire il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e con lui il suo governo giallorosa che, a dispetto di tutti gli aruspici malauguranti, finirà regolarmente la legislatura.
Ma c’è un altro partito, che esiste da decenni in Italia, ma di cui prudentemente si parla poco o preferibilmente nulla, che esce vincitore da queste elezioni ed è il più forte di tutti: il partito degli astenuti. Prendiamo il referendum. Il quesito era semplice e tale da attizzare l’attenzione dei cittadini: mandare a casa, per la prossima legislatura, un bel numero di deputati e senatori. L’affluenza è stata del 53,84%, 12 punti in meno rispetto al referendum del 2016 (65,47%) che pur poneva questioni molto più complesse. L’affluenza alle Regionali di quest’anno (57,19%) è superiore a quella delle Regionali del 2015 (53,15%), ma si avvale del balzo dell’affluenza in Toscana (quasi 3 milioni aventi diritto al voto) dove quest’anno si giocava la partita decisiva per la tenuta del governo del Paese. Nel 2015 quando questo problema non esisteva andò a votare solo il 48,3% mentre questa volta si è arrivati al 62,6%. Interessante è l’alta affluenza, sia pur sempre in termini relativi, alle elezioni comunali dove ci si attesta al 66,19% confermando, con un lieve margine di aumento, il dato del 2015. E si capisce il perché. Il voto nei Comuni e soprattutto nei piccoli Comuni è l’unico autenticamente democratico perché il sindaco è permanentemente sotto il controllo dei concittadini, poiché vive fianco a fianco con loro. Come esce di casa c’è sempre qualcuno che gli può contestare ciò che ha fatto o piuttosto non ha fatto.
Il partito degli astensionisti è contro la politica in generale? Non credo. È contro la democrazia parlamentare? Forse. Sicuramente è contro una democrazia trasformatasi da decenni in partitocrazia, cioè in strapotere del tutto illegittimo di queste lobby di cui la nostra Costituzione si occupa in un solo articolo, il 49 (“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”) e che invece ha finito per occupare abusivamente gli altri 138, infiltrandosi nel Csm, nella Magistratura ordinaria, nella burocrazia, nelle Forze Armate, nell’industria pubblica e anche privata, negli enti di Stato e di parastato (la Rai-tv è solo l’esempio più noto e clamoroso), nei giornali, negli enti culturali, nei teatri, nei conservatori, nelle mostre, nelle banche, nelle grandi compagnie di assicurazione, nelle università, giù giù fino ai vigili urbani e agli spazzini.
Questa avversione nei confronti dei partiti è confermata anche da chi in questa tornata a votare ci è andato turandosi montanellianamente il naso. Tutti i partiti, dal Pd alla Lega ai Cinque Stelle a Forza Italia, hanno perso, solo il partito di Giorgia Meloni ha guadagnato in consensi. Prendiamo la Toscana: il Pd ha perso 12 punti, è stato salvato dalle cosiddette liste civiche cioè da cittadini che al Pd non credono più affatto, ma non si sentivano di consegnare quella regione e forse il Paese a Matteo Salvini. Non è stato quindi un voto a favore, ma un voto contro.
Mai come in questa occasione si è potuto osservare come la democrazia partitocratica sia fatta di accordi e accordicchi in funzione del proprio potere personale o di lobby senza alcuno sguardo all’interesse nazionale. L’esecutivo Conte, che ha governato bene, si è salvato perché i partiti si sono paralizzati a vicenda. Poi ci sono naturalmente le eccezioni, il governatore del Veneto Zaia è stato riconfermato perché evidentemente ha governato bene soprattutto durante l’emergenza Covid e quello della Liguria Toti per lo stesso motivo e anche perché, coadiuvato dal sindaco di Genova Marco Bucci, ha affrontato con efficacia le conseguenze del crollo del ponte Morandi che noi “stranieri” abbiamo sempre chiamato il “ponte sul Polcevera” e i genovesi “ponte Saragat” perché fu inaugurato dall’allora presidente della Repubblica e che ora si chiamerà ponte San Giorgio. E questo apre uno spiraglio di speranza per il nostro futuro che però dipende molto, almeno nell’immediato, da come verranno utilizzati i 209 miliardi che l’Europa, l’inutile Europa secondo i cretini “sovranisti”, ci ha generosamente concesso: se cioè finiranno nelle fauci dei soliti noti che le hanno già aperte o verranno distribuiti con intelligenza e soprattutto equità sociale.