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giovedì 10 febbraio 2022

Sesto San Giovanni, blitz di sindaco e assessori di centrodestra per aumentarsi lo stipendio. La cifra prevista in tre anni dal governo? Tutta, subito e con i soldi del Comune. - Luigi Franco

 

Gli aumenti li ha finanziati il governo stesso, ma dividendoli in tre step da spalmare su tre anni. A meno che i fondi non li metta l'amministrazione stessa. Così la giunta si è riunita il 31 dicembre per deliberare sulla norma nazionale approvata il giorno prima. Il consigliere M5s Tromboni ha presentato una diffida: "L'intervento andava approvato in consiglio". Il collega 5 stelle in Regione De Rosa: "Dimostrano così quali sono le loro priorità".

Si sono aumentati lo stipendio usando i soldi del Comune, per poter avere subito la cifra che il governo avrebbe coperto solo in tre step nel corso di un triennio. A Sesto San Giovanni, la ex Stalingrado d’Italia alle porte di Milano passata 5 anni fa al centrodestra, il sindaco Roberto Di Stefano e i suoi assessori si sono riuniti a mezzogiorno e mezzo del 31 dicembre per fare la delibera. E nella fretta hanno pure sbagliato a citare articoli e commi della legge di bilancio che la Camera aveva definitivamente approvato nemmeno 24 ore prima, consentendo al primo cittadino di intascare 2mila euro lordi in più al mese per i prossimi sei mesi, cioè fino alle nuove elezioni amministrative. E ad assessori e presidente del consiglio comunale quasi 1.300 in più. Poi tutti a festeggiare con spumante e panettone: anno nuovo, busta paga nuova.

La norma l’ha voluta il governo Draghi per riparametrare gli emolumenti degli amministratori locali rapportandoli a quelli dei presidenti di Regione. In modo che il sindaco di una città metropolitana arrivi a guadagnare come un governatore, mentre arrivi al 45% di quella cifra il sindaco di una città della taglia di Sesto, con 80mila abitanti. Gli aumenti li ha finanziati il governo stesso, ma dividendoli in tre fasi: una prima parte nelle buste paga del 2022 (il 45% dell’aumento totale), una seconda nel 2023 (un altro 23%) e l’ultima, il restante 32%, nel 2024. Per l’aumento complessivo, insomma, bisogna aspettare tre anni, a meno che i soldi non ce li metta il comune stesso. E a Sesto San Giovanni hanno voluto tutto subito, a spese dei cittadini sestesi per quanto non coperto dal governo.

Così il sindaco, anziché accontentarsi di passare da 4.130 euro lordi al mese a 4.840, ha voluto tutti i 6.210 euro mensili già da gennaio. E a ruota i sette assessori e il presidente del consiglio, passati da 2.480 lordi a 3.726, anziché a 2.903. Questo hanno stabilito le due determine dirigenziali approvate a metà gennaio per tradurre in soldoni la delibera di giunta che aveva per oggetto l’ “adeguamento” alla legge di bilancio. Quasi come se il “tutto subito” l’avesse deciso l’esecutivo e non la giunta. Cosa che peraltro il sindaco Di Stefano, a lungo legato sentimentalmente alla leghista Silvia Sardone e passato anche lui due anni fa da Forza Italia a Carroccio, sostiene al telefono: “È una cosa tecnica che han fatto gli uffici sulla base delle disponibilità di bilancio. Se cerca la polemica, non l’avrà. Se la prenda col governo”, taglia corto prima di sbattere giù la cornetta. Alcune domande sono però d’obbligo, mandiamole via whatsapp. Come mai vi siete auto assegnati l’intero aumento sin da subito? La delibera contiene rimandi sbagliati alle norme: perché è stato necessario approvarla in tutta fretta l’ultimo dell’anno? Silenzio.

Di domande se ne potrebbero fare anche altre. C’è infatti chi come il consigliere comunale del M5s Daniele Tromboni ritiene che la procedura seguita per approvare gli aumenti non sia lecita. La legge di bilancio dice infatti che se l’intero aumento viene corrisposto nel 2022, ciò deve avvenire “nel rispetto pluriennale dell’equilibrio di bilancio” del comune. Cosa su cui né la delibera né le successive determine dirigenziali entrano nel merito. Per questo Tromboni ha scritto una diffida a sindaco e assessori invitandoli a revocare la loro decisione. L’aumento di stipendio – si legge nel documento – richiede gli “ordinari passaggi amministrativi”, come l’espressione di “un indirizzo in tal senso nel Documento unico di programma 2022-2024, da integrare mediante una delibera consiliare (in quanto documento già approvato)”. Una interpretazione analoga a quella data dall’Anci (Associazione nazionale comuni italiani). In sostanza, secondo Tromboni, visto che in parte non è coperto dal governo, l’aumento avrebbe dovuto essere approvato dal consiglio comunale e non dalla giunta, che per di più si trovava in una posizione di conflitto di interessi. E il rispetto dell’equilibrio di bilancio dovrebbe essere verificato dai revisori dei conti, mai interpellati a riguardo.

Per non parlare dell’opportunità politica di una tale decisione: “Il Comune è uscito da poco dalla procedura di riequilibrio finanziario monitorata dalla Corte dei Conti, che ai cittadini è costata anni di tassazione al massimo e tagli ai servizi e al personale dell’ente. Non possiamo accettare che ora la giunta decida di spendere i soldi del nostro comune per alzarsi gli stipendi negli ultimi sei mesi di mandato. Se proprio avanzano dei soldi, pretendiamo che vengano usati per dare un po’ di sollievo ai cittadini sestesi”. Magari a quelle centinaia di famiglie che sono sotto sfratto, come ricorda il consigliere regionale M5s Massimo De Rosa: “Se avessero messo lo stesso impegno e la stessa velocità nel cercare di risolvere i problemi della città e gli sfratti delle persone in difficoltà, avrebbero almeno fatto un servizio ai loro cittadini. Ma così hanno invece dimostrato quali sono le loro priorità e a che gradino di importanza mettono famiglie e indigenti rispetto ai loro interessi”.

@gigi_gno

https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/02/10/sesto-san-giovanni-blitz-di-sindaco-e-assessori-di-centrodestra-per-aumentarsi-lo-stipendio-la-cifra-prevista-in-tre-anni-dal-governo-tutta-subito-e-con-i-soldi-del-comune/6488353/

lunedì 24 gennaio 2022

Alla Leopolda Renzi candida Faraone sindaco di Palermo. La mossa per lanciare l’asse con Forza Italia in Sicilia. - Manuele Modica

 

21 NOVEMBRE 2021

"Questa candidatura non sarà figlia di un accordicchio con qualche forza politica. Noi stiamo con Davide, non con Micciché. Poi Micciché faccia lui", ha detto l'ex premier chiudendo la kermesse di Firenze. Nonostante non ci sia ancora ufficialmente l’appoggio di Forza Italia, l’annuncio di fatto si muove, secondo i ben informati, sul solco di un rafforzamento del patto coi berlusconiani.

Davide Faraone candidato sindaco a Palermo: è questa la mossa di Matteo Renzi per rinsaldare il patto con Forza Italia. A lanciare la corsa verso lo scranno più alto della quinta città d’Italia che andrà ad elezioni la prossima primavera è l’ex premier in persona nel discorso di chiusura dell’undicesima edizione della Leopolda. “Caro Davide, Palermo ha bisogno di te, noi siamo convinti che la tua candidatura a sindaco di Palermo non sarà figlia di un accordicchio con qualche forza politica, ma sarà una candidatura che parla alla città di Palermo”, ha detto Renzi, mettendo subito le mani avanti. “A Palermo non stiamo con Miccichè, stiamo con Davide Faraone che è una cosa diversa; poi Micciché faccia lui, Provenzano faccia lui, ma noi a Palermo ci candidiamo per guidare una città che negli ultimi anni non è riuscita neanche a seppellire i propri morti”.

Insomma: non è un caso se l’alleanza tra renziani e berlusconiani parta da Palermo. D’altronde alla conferenza stampa di presentazione del neonato gruppo in Sicilia, il percorso tracciato nell’accordo era già chiaro: “Oggi inizia il laboratorio Sicilia, un accordo che porterà Forza Italia e Sicilia Futura-Italia Viva a un grande risultato alle prossime elezioni, amministrative e regionali” aveva detto il capogruppo di Fi all’Ars, Tommaso Calderone. Così, mentre gli altri leader nazionali lanciano scadenze in cui si annuncerà il candidato sindaco di Palermo (Matteo Salvini ha detto entro Natale), l’ex premier lancia il suo luotenente, capogruppo d’Italia viva al Senato. Già nel 2012 Faraone si era candidato alle primarie del centrosinistra per scegliere il candidato sindaco di Palermo, ma era arrivato terzo dietro Fabrizio Ferrandelli e Rita Borsellino. Ora sembra volerci tentare di nuovo. La sua candidatura arriva presto, forse troppo presto: tanto che i ben informati in Sicilia sono pronti a sostenere si tratti di un annuncio strategico, finalizzato a spianare la strada a un altro candidato gradito a Forza Italia: si parla di Francesco Cascio, già presidente dell’Ars.

Di sicuro sono aperti i giochi elettorali sul grande laboratorio politico che la Sicilia si appresta a diventare, per l’ennesima volta, in vista delle Politiche del 2023. Le amministrative ad aprile 2020 nel capoluogo e le Regionali l’autunno successivo sono il terreno sul quale gli schieramenti stanno preparando la corsa alle prossime elezioni. Ad aprire le danze degli annuncia è stato Nello Musumeci, un attimo prima di Renzi. Sabato sera il presidente della Regione in carica ha annunciato la sua ricandidatura sul palco della kermesse del suo movimento politico, Diventerà Bellissima, alle Ciminiere di Catania: “Stasera abbiamo sciolto l’incantesimo, il presidente della regione sta lavorando a preparare le liste delle prossime regionali, vorrò vincere per me e per i partiti della mia coalizione”. Partiti che erano però i grandi assenti alla convention del presidente, i vertici – “tutti invitati”, ha sottolineato la consigliera regionale Giusi Savarino – non erano presenti nella folta platea catanese. La stessa Giorgia Meloni, il giorno prima a Palermo per la presentazione del suo libro, aveva mostrato una certa freddezza nei confronti del presidente: “Non intendo su questo fare fughe in avanti – ha detto venerdì Meloni -. Penso che la coalizione si debba muovere compatta e non voglio dare, in un momento nel quale invece ho come priorità di dimostrare la compattezza del centrodestra, alibi per eventuali discussioni ed eventuali divisioni”.

Come Renzi, anche Musumeci, pare dunque abbia voluto giocare d’anticipo, annunciando la sua candidatura in solitaria. Eppure alla kermesse del presidente mancavano i vertici dei partiti ma la giunta era quasi al completo. A mancare solo l’assessore leghista, Alberto Samonà, e i due vicini a Micciché, Marco Zambuto e Tony Scilla. E non si è fatta attendere, infatti, la reazione del forzista che ha gelato il presidente in carica subito dopo l’annuncio: “Quattro anni fa la sua fuga in avanti fu accettata da un centrodestra che non fu facile rimettere insieme – ha detto a caldo Miccichè -. Oggi insisto nel dire che il candidato sarà scelto dalla coalizione così come affermato anche dai leader nazionale”. Un laboratorio rovente quello siciliano, dove, nonostante le prese di distanza, le voci nel centrodestra danno per certa la ricandidatura di Musumeci, l’unico a potere garantire la compattezza della coalizione del centrodestra. A questo puntano i partiti da Roma, disposti pare anche a perdere la guida della Regione pur di non perdere l’unità alle Politiche. Nonostante le volate in avanti, e gli sconfinamenti nel capoluogo toscano, le candidature nel grande laboratorio siculo saranno decise nella capitale.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/11/21/alla-leopolda-renzi-candida-faraone-sindaco-di-palermo-la-mossa-per-lanciare-lasse-con-forza-italia-in-sicilia/6400116/?fbclid=IwAR05LvbwW1BZxVtRjPUDBwevDHTD2vkBDNlL7qFcbvD4mVyzsrpDSeGXKG0#


Io non lo voterei mai!

venerdì 1 ottobre 2021

Amaro Lucano. - Marco Travaglio

 

Se giudichiamo la sentenza Lucano col senso comune, magari paragonandola alle pene molto inferiori inflitte a grandi corrotti come Formigoni, frodatori come B., bancarottieri come Verdini, complici della mafia come Dell’Utri, per non parlare della Trattativa, possiamo tranquillamente dire che 13 anni e 2 mesi (sia pure in primo grado) sono un’enormità. Se però leggiamo il dispositivo della sentenza del Tribunale di Locri, comprendiamo che quei 13 anni e 2 mesi sono il cumulo delle pene per i singoli reati – quasi tutti molto gravi – per cui è stato condannato l’ex sindaco di Riace. Sgombriamo subito il campo dalle falsità.

1) Lucano non è stato condannato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: per la violazione della legge Turco-Napolitano è stato assolto, come per aver fatto carte false per far entrare illegalmente clandestini in Italia o munirli di documenti farlocchi. La sua battaglia contro le leggi sull’immigrazione – ammesso e non concesso che sia ammissibile da parte di un sindaco – non c’entra nulla. E nemmeno il “modello Riace”, cioè il meritorio ripopolamento di un comune depresso con l’integrazione dei migranti.

2) Difficile immaginare che i tre giudici del Tribunale nutrissero intenti persecutorii, come già si era detto dei pm (ora quasi rimpianti perché hanno chiesto la metà della pena poi inflitta dal Tribunale). Al netto di quelli contestati ai suoi 26 coimputati, Lucano rispondeva di 16 capi di imputazione. È stato assolto per 5, condannato per 10 (in parte alleggeriti di diversi fatti, per cui è stato pure assolto) e prescritto per uno.

3) La condanna riguarda non gli aiuti ai migranti, ma una serie impressionante di pasticci finanziari con denaro pubblico. Il primo è l’associazione a delinquere per commettere “un numero indeterminato di delitti contro la Pa, la fede pubblica e il patrimonio” e “soddisfare gli indebiti e illeciti interessi patrimoniali delle associazioni e cooperative” create e controllate da Lucano e dai suoi amici come “enti gestori dei progetti Sprar, Cas e Msna” (Sistema protezione richiedenti asilo e rifugiati, Centri accoglienza straordinaria, Minori stranieri non accompagnati), con “indebite rendicontazioni delle presenze degli immigrati”, “derrate alimentari falsamente indicate come destinate agli immigrati ma sistematicamente utilizzate per fini privati”, “costi fittizi per spese carburante”, “numerose false fatturazioni”, nessun “controllo delle spese” né “documentazione dei costi sostenuti dalle associazioni”, “prelievi di denaro contante e assegni bancari dai conti correnti senza alcuna giustificazione”, “indebita destinazione di fondi ottenuti per fini diversi” dall’accoglienza.

L’altro – che forse spiega la discrepanza tra pena richiesta e pena inflitta – è la truffa aggravata allo Stato, cioè alla Prefettura e al Viminale (prima era “solo” abuso d’ufficio) per far versare 2,3 milioni indebiti o ingiustificati alle varie associazioni. Poi c’è un’altra truffa allo Stato da 281mila euro per una miriade di “costi fittizi o non giustificati”, “false fatture”, false annotazioni sui registri Inail di ore lavorate, “fittizi acquisti di bombole, materiale di cancelleria, mobili e schede carburante false”. Ne consegue l’accusa di falso ideologico in atto pubblico per ben 56 determine “propedeutiche al rimborso dei costi di gestione dei progetti Cas e Sprar” in cui Lucano “attestava falsamente di aver effettuato controlli sui rendiconti di spese” fantasiosi.

Un altro reato che porta alle stelle la pena è il peculato, per essersi “appropriato in modo sistematico” di “ingenti fondi ottenuti dallo Stato per l’accoglienza dei rifugiati”, “non meno di 2,4 milioni, distraendoli alle predette finalità” per l’“acquisto, arredo e ristrutturazione di tre case e un frantoio non rendicontati”, più “prelievi in contanti per 531.752 euro”, in parte usati “per il viaggio in Argentina di Lucano”, in parte per “i concerti estivi organizzati dal Comune di Riace”. Concerti che poi il sindaco “attestava falsamente” non essersi svolti “al fine di non pagare i diritti Siae”: altro falso.

L’ultimo reato grave è l’abuso per aver “affidato il servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti nel comune di Riace alle cooperative sociali Ecoriace e l’Aquilone, prive dei necessari requisiti richiesti” dalla legge, “dell’iscrizione all’Albo regionale delle cooperative sociali” e “di autorizzazioni alla gestione ambientale”, senza l’ombra di una gara (la turbativa d’asta è prescritta). Infine Lucano rilasciò a Tesfahun Lemlem, sua compagna etiope, un certificato falso: “lo stato civile di nubile anziché di coniugata, a lui noto”.

Fin qui il giudizio penale di primo grado, che potrà essere rivisto in appello. Sul piano politico e morale, a parte qualche spesa privata con soldi pubblici, non si può dire che Lucano sia un corrotto o che agisse per interessi propri, anche se quel sistema di soldi allegri a pioggia drogava certamente i suoi consensi.

È possibile che agisse con le migliori intenzioni. Ma questo incommensurabile pasticcione era pur sempre un sindaco, cioè un pubblico ufficiale tenuto a rispettare e a far rispettare le regole. L’impressione è che la nobile missione del “modello Riace” gli abbia dato alla testa, convincendolo di essere al di sopra, anzi al di fuori della legge. Che si può sempre contestare e persino, per obiezione di coscienza, violare. Ma senza la fascia tricolore a tracolla. E affrontando poi le conseguenze delle proprie azioni.

ILFQ

Mimmo Lucano e la parabola del 'modello Riace'. - Alessandro Sgherri

 

Per Fortune era tra i politici più influenti. Poi l'arresto e la condanna.


Dal quarantesimo posto nella classifica 2016 dei 50 leader più influenti del mondo della rivista americana "Fortune" alla condanna a 13 anni e due mesi di reclusione. E' la parabola che ha travolto e stravolto la vita di Domenico "Mimmo" Lucano e di Riace, borgo che ha guidato come sindaco per anni facendolo diventare famoso nel mondo come modello di accoglienza e integrazione per i migranti giunti nel nostro Paese.

Una storia, quella di Lucano e di Riace, cominciata quasi per caso nel 1998, con lo sbarco di duecento profughi dal Kurdistan a Riace Marina. Lucano e l'associazione Città Futura decisero che dovevano fare qualcosa. E così aprirono le porte delle tante case lasciate vuote da un'emigrazione che stava condannando Riace a diventare un paese fantasma, ai nuovi arrivati. Ma Lucano capì che la semplice accoglienza non era sufficiente. E così anno dopo anno "Mimmo", come tutti lo chiamano, ha orientato l'attività della sua amministrazione all'integrazione dei rifugiati e degli immigrati irregolari. Ha aperto scuole, finanziando micro attività, ha realizzato laboratori, bar, panetterie ed ha messo in piedi anche la raccolta differenziata porta a porta, che era garantita da due ragazzi extracomunitari che la trasportavano sul dorso di asini. Nasce anche una moneta speciale per aiutare gli immigrati nelle spese giornaliere in attesa dell'arrivo dei fondi europei. E nella parte storica del paese nasce quello che era il fiore all'occhiello di Riace, quel "villaggio globale" fortemente voluto da Lucano e diventato famoso nel mondo, dove l'integrazione si toccava con mano. Si calcola che in 17 anni siano passati almeno 6mila richiedenti asilo provenienti da oltre 20 Paesi del mondo. E molti di loro hanno deciso di rimanere in questo piccolo borgo arroccato sulle pendici a 7 chilometri dal mare Ionio.

Il nome di Riace comincia a circolare nel mondo non più o non solo come il luogo dove furono trovati i famosi Bronzi, ma per l'efficacia delle politiche di integrazione messe in atto dal suo sindaco. Nasce il "modello Riace". I riflettori si accendono sul borgo, Lucano viene preso ad esempio di un modo nuovo ed efficace di fare accoglienza. Non mancano, ovviamente, le voci critiche, soprattutto dall'area di centrodestra, ma Lucano va avanti per la sua strada. Che si interrompe improvvisamente la mattina del 2 ottobre 2018, quando la Guardia di finanza gli notifica un'ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari emessa su richiesta della Procura di Locri proprio per la gestione del "Modello Riace". Pesanti le accuse che gli vengono contestate alle quali in tanti non credono. Il paese inizia a svuotarsi dei migranti, le botteghe artigiane tirano giù le serrande. Il turismo, che il "modello Riace" aveva incentivato, viene meno. Che la parabola di Lucano, adesso, sia orientata verso il basso lo si capisce anche alle comunali del maggio 2019, quando l'ex sindaco non riesce a farsi eleggere come consigliere comunale.

Nonostante le vicissitudini giudiziarie e politiche, la fiducia riposta da molti in Lucano non viene meno e tanti sono convinti che il processo, intanto istruito dalla Procura di Locri sulle presunte irregolarità nella gestione dei migranti a Riace, finirà con un'assoluzione. Certezze che si sono infrante alla lettura del dispositivo della sentenza che condanna l'ex sindaco ad un pena che è quasi il doppio di quella chiesta dalla Procura. Una condanna che tuttavia non convince i sostenitori di Lucano, la cui parabola, in ogni caso e in attesa del processo di appello, segna adesso il punto più basso. 

ANSA

giovedì 17 giugno 2021

Un lumino per Fassino. - Marco Travaglio

 

I 5Stelle torinesi erano un po’ abbacchiati: per le due ridicole condanne della Appendino, per la sua decisione di non ricandidarsi, per il rifiuto del Pd locale di appoggiare insieme il rettore del Politecnico Guido Saracco e per la difficoltà di trovare un nome di bandiera che difenda l’eredità dell’ultimo quinquennio. Poi, quando ormai stavano per abbandonarsi ad atti di autolesionismo, ha parlato Fassino. L’ha fatto sul Foglio, come si conviene a chi preferisce darsi alla clandestinità. E, dall’alto del suo beneaugurante passato, ha spiegato al Pd e al M5S cosa devono fare. Il candidato del Pd, tale Stefano Lo Russo, deve stipulare “un patto con gli sfidanti alle primarie”, forti di “un consenso di cui è bene tenere conto” (li hanno votati i parenti stretti). Poi “dovrà cercare di muoversi in più direzioni” (magari a zig-zag, per seminare meglio gli elettori), “rivolgendosi a Italia Viva e Azione”. Giusto: avendo combattuto il Conte-2 e sabotato il Pd alle Regionali, sono gli alleati ideali. Tutto sta a rintracciarli in tempo per ottobre (già allertato il Ris di Parma). E poi? “Dare spazio alla parità di genere”: tipo alle primarie, dove su quattro candidati i maschi erano quattro. E i 5Stelle? “L’invito rimane aperto anche a loro”. 

Quale invito, visto che il Pd torinese – una specie di Pompei post-eruzione, pietrificata da 40 anni in mano ai soliti Fassini&Chiamparini&circoletti vari – candida Lo Russo apposta per tagliarli fuori? “Il punto di partenza è riconoscere che questi cinque anni della giunta non sono stati di buon governo. In eredità non è stato lasciato niente”. L’idea non è male: per avere il privilegio di portare voti al capogruppo Pd che la denunciò in Procura e la fece condannare per un debito contratto da Fassino (lui sì che in eredità lasciò qualcosa), la Appendino dovrebbe ammettere di essere una ciofeca. Sennò i suoi voti il Pd non li vuole. Il fatto che sia stato il suo Pd, in rotta con Letta, a rifiutare Saracco, è un dettaglio. Anzi è tutta colpa dei 5Stelle che l’hanno proposto. Ma meglio così, perché la sua idea di coalizione è la seguente: il Pd candida chi gli pare e il M5S gli porta i voti con le orecchie. Infatti “non capisco la rigidità della sindaca contro un accordo al ballottaggio: così si rischia di favorire la destra” (con cui i Fassini sono sempre andati a braccetto sul Tav e altre ideone). L’ultima volta che Fassino parlò della Appendino, fu per la leggendaria sfida “Se vuol fare il sindaco, si candidi e vediamo”. Il bis del celeberrimo “Se Grillo vuol fare politica fondi un partito e vediamo”. Da allora ogni 5Stelle tiene sul comò un altarino con la sua foto rischiarata da un lumino votivo. Ora ci risiamo. Se lui assicura che o vince Lorusso o vince la destra, è matematico: se si ricandida la Appendino, rivince lei.

ILFQ

sabato 15 maggio 2021

Professione pericolo. - Marco Travaglio

 

Le motivazioni della condanna di Chiara Appendino a 18 mesi per la disgrazia di piazza San Carlo confermano tre impressioni che avevamo avuto a caldo. 

1) L’apprezzamento perché la sindaca non dice una parola contro il giudice (qualunque altro politico tirerebbe in ballo Palamara, che ormai si porta su tutto, e ora pure Amara). 

2) Lo sconcerto per il fatto stesso che sia stata processata, e per giunta condannata per disastro, omicidio e lesioni colpose, pur avendo adottato tutte le misure di sicurezza in un evento organizzato – come sempre in questi casi – da una società ad hoc. 

3) Il timore che, letta una simile sentenza, nessuno in Italia voglia più fare il sindaco o che, se qualcuno lo fa, proibisca qualunque evento di piazza, fosse anche una sagra di paese o una festa rionale. Quella sera del 3 giugno 2017, durante la proiezione in piazza di Juve-Real Madrid, una banda di rapinatori armati di spray al peperoncino scatenò un falso allarme bomba, un’ondata di panico e un fuggifuggi che provocò la morte di due donne e il ferimento di centinaia di tifosi, caduti o calpestati su un tappeto di vetri rotti (le bottiglie di birra che incredibilmente la polizia aveva lasciato vendere nella piazza transennata, dopo aver perquisito a uno a uno i tifosi). Il tipico evento imprevedibile, aggravato dalle colpe di chi gestiva l’ordine pubblico.

Invece il giudice fa di tutta l’erba un fascio: la sindaca fu “frettolosa, imprudente e negligente” (ma il transennamento e il filtraggio della piazza e la proiezione in un altro spazio, il Parco Dora, per alleggerire l’afflusso dicono l’opposto). Motivo? “È prevedibile che in un assembramento di migliaia di persone… possa accadere un qualunque avvenimento, naturalistico o antropico, atto a innescare una prima scintilla di panico”: “petardo, rissa, grido d’allarme per scherzo, infiltrazione di terroristi o squilibrati”. Siccome tutto ciò può accadere anche allo stadio, alle feste di quartiere, alle sagre patronali, ai concerti al palasport o all’aperto, nelle arene estive, nelle discoteche, se la sentenza diventasse definitiva nessun sindaco autorizzerebbe più nulla per non rischiare la galera. Quindi si spera che venga rivista in appello, assegnando a ciascun imputato le sue responsabilità personali, e non vaghe colpe “oggettive”. Nell’attesa, il M5S dovrebbe cogliere l’occasione dell’arrivo di Conte per metter mano al Codice etico. Giusto l’automatismo tra condanne e dimissioni per reati dolosi e gravi. Per il resto, l’ultima parola va a un collegio di probiviri: se i fatti non sono incompatibili con cariche pubbliche, niente dimissioni neppure in caso di condanna definitiva; se invece i fatti sono infamanti, fuori subito anche con un semplice avviso di garanzia.

IlFQ

venerdì 7 maggio 2021

Bertolaso e Albertini mollano Salvini e lui se la prende con FdI: “Troppi no”. - Lorenzo Giarelli

 

Leghista suonato - Matteo scaricato dai suoi candidati a Roma e a Milano: destra spaccata.

La campagna elettorale deve ancora iniziare, ma per Matteo Salvini le Amministrative di ottobre sono già un grosso problema. In barba al solito ottimismo sbandierato a favor di telecamera, il leghista ha impiegato sei mesi per trovare i candidati per Roma e Milano, li ha strombazzati come cavalli vincenti e poi è finito per essere sbugiardato da entrambi.

È successo con Guido Bertolaso per la Capitale ed è successo ieri a Milano con Gabriele Albertini, il cui no alla corsa per sfidare Beppe Sala ha aperto l’ennesima frattura pubblica nel centrodestra. Con tanto di smacco personale a Matteo, che ora se la prende con gli alleati per aver “fatto perdere la pazienza” ai suoi candidati, provocandone la fuga.

Ufficialmente, Albertini decide di farsi da parte per motivi familiari. Scrive una lettera a Libero ringraziando per i tanti messaggi di sostegno, assicura che stava “per cedere e dire sì” ma che poi si è fermato: “Non potevo infliggere un disagio a mia moglie. Preferisco sperare di trascorrere con la mia famiglia, finché ci sarà salute, l’ultimo ottavo di vita media”. E nell’uscire dal pressing, Albertini butta lì pure che se avesse vinto avrebbe chiesto a Sala “di entrare in giunta come vicesindaco”, gesto di rispetto per l’avversario ma anche ecumenico segnale per una Milano pronta “alla primavera” dopo “l’inverno della pandemia”.

Tante belle parole di cui Salvini non sa però che farsene, visto che pochi giorni fa anche Bertolaso si è sfilato da Roma lasciandolo col cerino in mano: “Ringrazio chi mi vuole sindaco nella Capitale – la versione del factotum dell’emergenza lombarda – ma cerchino qualcun altro”. E allora il leader leghista – che peraltro aveva scelto due nomi fuori dal suo partito – fiuta la disfatta e si agita, tirando in mezzo Fratelli d’Italia e Forza Italia: “Sono mesi che cerco di costruire e unire il centrodestra in vista delle amministrative. A Roma e Milano avevamo i candidati giusti, ma altri hanno detto no per settimane e mesi e loro hanno perso la pazienza”.

In effetti i passi indietro di Albertini e Bertolaso sono attribuibili solo in parte a ragioni personali, ma molto più alle crepe interne alla coalizione. Il problema è che FdI, a sua volta, scarica le responsabilità su Salvini, che da tempo rimanda il famoso “tavolo” del centrodestra in cui dovrebbero essere definite tutte le principali candidature alle Amministrative, per paura che la trattativa coinvolga vicende molto più nazionali (su tutte: la presidenza del Copasir contesa proprio da Lega e Fratelli d’Italia).

Ed è questo che Daniela Santanchè, riferimento milanese del partito di Giorgia Meloni, rinfaccia al leghista: “Il fatto che Salvini non abbia ancora convocato il tavolo del centrodestra ha determinato la decisione di Albertini. Quando non si hanno risposte e si vive senza sapere poi succede che un candidato si ritiri”.

Non basta allora il nome di Maurizio Lupi, indicato ora come il favorito per sfidare Sala, a calmare i malumori della destra. La lacerazione è molto più profonda e rischia non solo di ritardare la scelta dei candidati su Milano e Roma, ma persino di compromettere l’intesa altrove. A Napoli, per esempio, Giorgia Meloni potrebbe andare da sola sostenendo l’avvocato Sergio Rastelli (figlio di Antonio, ex governatore della Campania dal 1995 al 1999) e lasciando gli alleati al loro destino con Catello Maresca, sperando poi di arrivare al ballottaggio da una posizione di forza.

Uno sgarbo non da poco che potrebbe replicarsi in altre città dove l’accordo è ancora in alto mare, come Salerno o Bologna. Non c’è da stupirsi allora che di questo quadro fracassato, a taccuini chiusi, un big del centrodestra dia una sintesi simile a un epitaffio: “Non esiste più una coalizione”. Figurarsi se possono esistere i candidati.

ILFQ

martedì 15 dicembre 2020

Matteo Messina Denaro, 13 fermi: c’è anche ex direttore Atm di Trapani. Indagato un sindaco per corruzione elettorale. -

 

Non c'è solo la mafia nell’inchiesta della Dda di Palermo che ha portato all'emissione di misure per persone ritenute legate al boss latitante di Castelvetrano.

Un altro blitz per cercare di stringere il cerchio intorno a Matteo Messina Denaro. Mafiosi, imprenditori incensurati, sindaci e anche un manager ai vertici di una azienda pubblica. Non c’è solo la mafia nell’inchiesta della Dda di Palermo che ha portato al fermo di 13 persone ritenute legate al boss latitante di Castelvetrano. Nell’indagine, condotta dallo Sco della Polizia, c’è anche Salvatore Barone, ex presidente del consiglio di amministrazione ed ex direttore dell’azienda per i trasporti Atm di Trapani. Barone, che è stato fermato con l’accusa di associazione mafiosa, è anche presidente della cantina sociale Kaggera di Calatafimi e secondo gli inquirenti era al servizio del capo della famiglia mafiosa locale, Nicolò Pidone.


Secondo gli inquirenti Pidone, direttamente o attraverso il proprio uomo di fiducia, Gaetano Placenza, allevatore messo ai vertici della società, decideva chi assumere scegliendo il personale in modo da aiutare le famiglie dei detenuti mafiosi e disponeva che ad esponenti di Cosa Nostra venissero dati soldi. Tra le assunzioni più importanti, volte a favorire i clan, figura quelle di Veronica Musso, figlia del boss Calogero Musso, ergastolano, ex capo della “famiglia” di Vita. Barone, inoltre, avrebbe procurato voti al sindaco di Calatafimi Segesta (Trapani), Antonino Accardo, oggi indagato per corruzione elettorale. L’indagine è coordinata dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Paolo Guido e dai pm Francesca Dessì e Piero Padova. Ad Accardo è stato notificato un avviso di garanzia. Dalle intercettazioni, secondo gli investigatori, è emerso che avrebbe pagato 50 euro a voto per le elezioni dell’anno scorso a sindaco del comune di Calatafimi Segesta (Trapani). Insegnante in pensione, 73 anni, Accardo ha alle spalle alcune esperienze da assessore e consigliere comunale a Calatafimi.

In ottale sono 13 i provvedimenti di fermo emessi dai magistrati della Dda, venti gli indagati. Le accuse ipotizzate, a vario titolo, nei confronti degli indagati sono associazione mafiosa, estorsione, incendio, furto, favoreggiamento personale e corruzione elettorale, aggravati dal metodo mafioso. In corso anche una serie di perquisizione nelle campagne del trapanese per la ricerca di armi. Per chi indaga Pidone, già condannato per associazione mafiosa, è il personaggio chiave dell’inchiesta. Ritenuto a capo della cosca di Calatafimi, organizzava i summit in una dependance fatiscente vicina alla sua masseria; lì venivano prese le principali decisioni che riguardavano il clan. Tra gli indagati anche altri condannati per mafia come Rosario Leo, pregiudicato che vive a Marsala, e cugino di Stefano Leo, molto vicino al boss di Mazara del Vallo Vito Gondola, poi morto, e a Sergio Giglio, coinvolto nell’inchiesta sui favoreggiatori del capomafia Matteo Messina Denaro.

Nelle indagini sono finiti però anche insospettabili che, a vario titolo, hanno favorito le comunicazioni tra il capo della famiglia calatafimese, specie nel periodo in cui era sottoposto alla sorveglianza speciale, ed altri mafiosi, tra cui lo stesso Rosario Leo, anch’egli sorvegliato speciale. Tra coloro che favorivano gli incontri e le comunicazioni c’era il 46enne imprenditore agricolo vitese Domenico Simone, secondo quanto hanno ricostruito le indagini. Fermati anche l’imprenditore Leonardo Urso, di origini marsalesi, enologo, accusato di favoreggiamento, e l’imprenditore agricolo Andrea Ingraldo, di origini agrigentine, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, per aver assunto fittiziamente Pidone per far figurare l’esistenza di una regolare posizione lavorativa e attenuare la misura di sicurezza.

Il clan, secondo l’Antimafia, controllava il territorio attraverso l’esecuzione di “inchieste” per ricostruire episodi criminosi avvenuti in zona e non “autorizzati” e interveniva con atti intimidatori nei confronti di chi collaborava con la giustizia. In quest’ultimo ambito si inquadra l’incendio dell’auto dell’imprenditore Antonino Caprarotta, voluto da Pidone e realizzato insieme a Giuseppe Aceste e Antonino e Giuseppe Fanara. Caprarotta aveva denunciato l’imprenditore mafioso Francesco Isca ed altri soggetti implicati nella vicenda della gestione illecita dei parcheggi del parco archeologico di Calatafimi-Segesta. Tra i fermati anche Giuseppe Gennaro, altro esponente della famiglia mafiosa di Calatafimi, accusato, oltre che di associazione mafiosa, anche di aver rubato un trattore agricolo, nell’interesse del clan insieme a Francesco Domingo, Sebastiano Stabile e Salvatore Mercadante. In cella anche il trentasettenne calatafimese Ludovico Chiapponello, indagato per aver favorito l’associazione mafiosa bonificando dalle microspie la dependance di Pidone. Indagato infine un appartenente alla Polizia Penitenziaria, a cui è contestato il reato di rivelazione di segreto d’ufficio commesso per agevolare Cosa Nostra. Dall’inchiesta è emerso che il clan aveva la disponibilità di armi. Il fermo è motivato dall’intenzione di alcuni indagati di darsi alla latitanza e al progetto di pesanti ritorsioni verso uno dei mafiosi che sarebbe entrato in conflitto col capo della famiglia di Calatafimi.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/12/15/matteo-messina-denaro-13-fermi-ce-anche-ex-direttore-atm-di-trapani-indagato-un-sindaco-per-corruzione-elettorale/6037221/

giovedì 15 ottobre 2020

Orgasmi&ganasce. - Marco Travaglio

 

Per la prima volta, ho provato sentimenti di umana pietà per Monica Cirrinnà. È stato quando ho letto sul sito di Repubblica che “Calenda schiaccia gli altri candidati nella corsa per il Campidoglio”. Il pensiero dell’esile deputata pidina che stramazza al suolo esanime sotto il peso del corpulento leader di Azione mi ha fatto riflettere sulle dure e impietose leggi della politica e sull’esigenza di porvi qualche limite di cristiana misericordia o di laica solidarietà. Anche perché le primarie romane del centrosinistra sono talmente affollate che non ci si meraviglierebbe di veder piovere dal cielo pure Mario Adinolfi. E lì sarebbero cavoli amari per tutti, non solo per la Cirinnà. Ma almeno si smetterebbe di chiamarle “le primarie dei sette nani”. Per fortuna, al momento, di schiacciante c’è solo la maggioranza dei giornaloni e dei retrostanti padroni del vapore che fanno il tifo per Calenda ancor prima che si candidi a sindaco. Anzi, più che un tifo, è una serie di orgasmi multipli a mezzo stampa, pari a quelli che si registravano ai tempi del Giubileo, dei Mondiali di Nuoto e delle candidature olimpiche (fortunatamente sventate da Monti e dalla Raggi). Con una particolarità: invece dei tradizionali sospiri e gridolini di piacere, gli orgasmi capitolini hanno come colonna sonora un sinistro rumore di ganasce, che va da Repubblica degli Agnelli-Elkann al Messaggero di Caltagirone. Per la serie: daje che se rimagna.

Repubblica spaccia per “sondaggio” una consultazione fra i lettori del sito su chi preferiscano fra Calenda e nove “potenziali candidati” al Campidoglio: Cirinnà, Fassina, Zevi, Ciani, Caudo, Magi, Ciaccheri, Alfonsi e De Biase. Naturalmente è arrivato primo Calenda col 50%, mentre gli altri nove si dividono il 32 e il restante 18 li detesta tutti. Bella forza: Calenda sta sempre in televisione anziché al Parlamento europeo (dove, secondo i dati ufficiali di Votewatch, è il 72° italiano su 75 per numero di voti e presenze: peggio di lui fanno solo Roberti, Patriciello e B.), mentre gli altri nessuno sa chi siano. Il campione, peraltro, è piuttosto striminzito, visto che in quattro giorni han risposto appena 25mila lettori del sito e 13.100 han votato Calenda. Ma Rep ha già deciso che questo “successo travolgente”, questo “straordinario consenso” basta e avanza a garantirgli “buone chance di arrivare primo”: basterà un emendamento per limitare il diritto di voto ai romani che leggono il sito di Rep. Inutile fare le primarie, un tempo orgoglio e vanto del Pd veltroniano e dunque di Rep, oggi degradate a “concorso di bellezza per sconosciuti” e “coperta di Linus cui aggrapparsi in mancanza di idee migliori”.

Del resto, Carletto è un “city manager più che un politico di professione”, e ciò è bene se lo dice Rep (se lo dicono gli altri, è male, è qualunquismo, peronismo, antipolitica, fascismo). Lui sa “cosa vuol dire amministrare una macchina da 30 mila dipendenti”, anche se non ha amministrato nemmeno un condominio. Lui sa “condurre in porto un appalto senza farsi imbrigliare per mesi o anni da cavilli”: basti pensare alla brillante gestione di dossier come Ilva, Alitalia eccetera. Lui sa “far ritrovare alla parte sana dei dipendenti comunali l’orgoglio delle cose realizzate”, anche grazie alla proverbiale fermezza e alla tetragona continuità: nel 1998 in Ferrari, nel 2003 a Sky, nel 2004 in Confindustria, nel 2008 all’Interporto Campano, nel 2012 in Italia Futura con Montezemolo, nel 2013 candidato trombato nella Lista Monti e viceministro al Mise con Letta, nel 2014 confermato da Renzi, nel 2016 rappresentante permanente dell’Italia presso la Ue per ben due mesi, poi di nuovo al Mise come ministro, nel 2018 nel Pd, nel 2019 fondatore di Siamo Europei, ma candidato ed eletto eurodeputato col Pd, abbandonato tre mesi dopo per fondare Azione, e ora forse candidato a sindaco di Roma confidando nell’appoggio del Pd che ha appena cercato di far perdere alle Regionali, insultandone i dirigenti e persino gli elettori (“indegni”). Sono soddisfazioni.
Ma l’orgasmo repubblichino è niente al confronto delle fregole caltagirine. Il Messaggero titola: “La tentazione dei dem: ‘adottare’ Calenda per fermare la Raggi. L’idea di replicare l’operazione Bonino nel 2010”. Infatti l’operazione Bonino nel 2010 riuscì a consegnare il Lazio alla Polverini. Ma la notiziona è un’altra: dopo aver passato quattro anni a dipingerla come un’incapace che i romani non rivoterebbero neppure sotto tortura, adesso il Messaggero registra orripilato “la paura, non solo di Calenda ma di buona parte della città, che Virginia possa arrivare al secondo turno, per poi avere l’appoggio sicuro del Pd”. Un “timore che rovina il sonno anche al Pd”. Ma come fa la Raggi ad arrivare al ballottaggio e poi a rivincerlo se “buona parte della città” è terrorizzata dalla sola prospettiva? E perché mai l’insonne Pd dovrebbe darle l’“appoggio sicuro” al ballottaggio se non dorme la notte all’idea che rivinca? L’unica spiegazione alternativa al manicomio è che forse non è vero che la Raggi ha sbagliato tutto e tutti i romani la maledicono. E forse non è vero che Roma è piena di sindaci in pectore capacissimi di rifarla più bella e superba che pria: altrimenti qualcuno di questi fenomeni si candiderebbe per farcelo vedere. Cioè: i giornaloni ci han raccontato un sacco di balle. Tanto per cambiare.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/15/orgasmiganasce/5966573/

sabato 10 ottobre 2020

Aglio, oglio e Campidoglio. - Marco Travaglio

 

Se fosse un film, anziché la campagna elettorale per il sindaco della Capitale, sarebbe una strepitosa commedia all’italiana. A episodi.

Primo episodio. Dopo quattro anni passati a spiegare alla Raggi come si governa Roma e poi a scuotere i capini perché non capisce niente e non ne azzecca una, quelli che la sanno lunga da destra a sinistra sono terrorizzati che la Raggi prenda più voti dell’eventuale candidato del Pd, rivada al ballottaggio contro l’eventuale candidato della destra e rivinca le elezioni coi voti del centrosinistra. E, siccome sanno tutti benissimo come si governa Roma, non riescono a trovare un candidato che voglia governare benissimo Roma: se dipendesse da loro, la campagna elettorale andrebbe avanti senza candidati. Infatti attaccano la Raggi perchè osa ricandidarsi. Ma non spiegano il perché di tanto terrore: se la Raggi è l’incapace che dicono, la peggior sciagura per Roma dopo i lanzichenecchi, la sindaca più detestata dai romani, per giunta di un movimento morto e sepolto, basterà un paracarro (c’è solo l’imbarazzo della scelta) per batterla di sicuro.

Secondo episodio. Terrorizzati dalla conferma della peggior sindaca di tutti i tempi, i partiti cadono in preda della frenesia e perdono di lucidità. La destra, sfumate le candidature di Meloni (avanzata da Salvini), Salvini (avanzata dalla Meloni), Bongiorno (avanzata dallo spirito di Andreotti), di Cattaneo (avanzata dai giornaloni a sua insaputa), di Gasparri (avanzata da Gasparri) e di Rampelli (avanzato e basta), pensa a Giletti, cui va tutta la solidarietà per le minacce mafiose e per il giubbotto antiproiettile che indossa sopra la camicia, come l’Avvocato portava l’orologio sopra il polsino e la cravatta sopra il maglione. Intanto il Pd brucia in tre mesi una trentina di candidati: Gualtieri, Sassoli, Letta, Gabrielli (che hanno già un mestiere ben più comodo e pagato), D’Alema (che non è del Pd), Morassut, Bray, Riccardi, la Cirinnà, Tobia Zevi, tali Caudo, Ciaccheri e altri che non nominiamo perchè nessuno sa chi siano (neppure gli interessati). Calenda, molto apprezzato dai conduttori di talk e dai suoi condòmini ai Parioli, sarebbe perfetto: peccato che non sia più del Pd, anche se è stato eletto eurodeputato grazie al Pd, e che per giunta abbia appena tentato di far perdere le regionali al Pd, oltre ad aver insultato tutti i dirigenti del Pd e pure gli elettori del Pd (“Sono senza dignità”: infatti l’hanno eletto al Parlamento europeo). Lui comunque giura che, pur sapendo benissimo come si fa il sindaco, mai si candiderà, perché “il mio impegno è dare vita a un partito, Azione, per popolari, liberali e riformisti” (vasto programma). E poi perchè “non prenderei un voto dall’elettorato 5Stelle, quelli manco crocifissi mi appoggiano”: il che è vero, anche perché li insulta prima e dopo i pasti. Ma questo è il meno: il guaio è che non lo votano neppure i non M5S, vedi le percentuali da albumina nei sondaggi, e pure nelle urne. Dunque propone Carlo Fuortes, sovrintendente dell’Opera, popolarissimo tra i tenori e le soprano, meno nelle periferie.

Terzo episodio. Lo racconta il sempre informatissimo Corriere: “Tutti, l’altra sera, a cena nella casa con vista sugli angioloni di Castel sant’Angelo”. Tutti chi? Boh. Però ci sono “divani rosso pompeiano e una coppia di levrieri afghani annoiati”. Almeno finché, “tra lo sformato di zucchine e caciocavallo podolico (dimenticabile invenzione di Eddie, il cuoco filippino) e le polpette di bollito fritte (squisite), la padrona di casa chiede all’ospite d’onore del Pd: ‘Allora, ministro: ci confermi che sarà Sassoli il nostro futuro sindaco?’”. E il ministro (quale? Boh): “Sassoli fa i capricci. Temo che stia pensando a un colle più alto del Campidoglio”. A beh allora. Ma, “mentre a tavola – direttamente dalla pasticceria preferita da Nanni Moretti – arriva una magnifica Sacher”, colpo di scena: “Sul cellulare di un’amica della padrona di casa entra il whatsapp. È Carlo Calenda”. Fermi tutti, che nessuno si muova: il noto trascinatore di folle annuncia che “sono gli ultimi giorni, sto decidendo se candidarmi a sindaco di Roma” e domanda (a chi? Boh): “Tu cosa ne pensi?”. Tripudio sui divani rosso pompeiano, i levrieri afghani si ridestano, esulta anche Eddie dalle cucine: “È scattato l’applauso”. Finalmente un bel nome, “sulle macerie della Raggi che comunque, sfrontata e imperterrita, si ricandiderà”. Ma ha trovato pane per i suoi denti. Calenda – pensate – “è convinto di strappare tra il 6 e il 7%”: meno di quanto occorre per fare il sindaco del suo ballatoio, ma quanto basta per levare voti all’eventuale candidato del Pd. Che infatti, pur di non aver contro Mister Sei-Sette Per Cento, lo invita a un “tavolo di coalizione per la riscossa politica della capitale” perchè si candidi alle primarie con gli altri sei nani. Evento avvincente, visto che Calenda non è né del Pd né della coalizione di governo: anzi è proprio contro. Così il Pd sposa la linea Di Battista: no preconcetto alle intese sui territori quando si tratta di sostenere il favorito del partito alleato. Per Dibba la Morte Nera era Emiliano: per il Pd è la Raggi.

Finale. L’ha già scritto Carlo Verdone in Compagni di scuola, quando l’amico apostrofa Christian De Sica che molla il tavolo verde: “Ma come? Famo er pokerino, famo er pokerino e poi co tre ganci te cachi sotto? Ma vedi d’annattene, va!”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/10/aglio-oglio-e-campidoglio/5961184/

domenica 16 febbraio 2020

Bibbiano, la Cassazione: “Non c’erano elementi per la misura” per il sindaco Andrea Carletti (Pd).

Bibbiano, la Cassazione: “Non c’erano elementi per la misura” per il sindaco Andrea Carletti (Pd)
I supremi giudici rilevano "l'inesistenza di concreti comportamenti", ammessa anche dai giudici di merito, di inquinamento probatorio e la mancanza di "elementi concreti" di reiterazione dei reati.

La procura di Reggio Emilia ne aveva chiesto l’arresto, oggi la Cassazione afferma che non esistevano i presupposti neanche per quella che viene considerata la più lieve tra le misure cautelari. Non c’erano gli elementi per disporre la misura dell’obbligo di dimora nei confronti del sindaco di Bibbiano Andrea Carletti nell’ambito delle indagini sugli affidi illeciti in Val d’Enza. I giudici lo scrivono nelle motivazioni del verdetto che il 3 dicembre ha annullato senza rinvio la misura cautelare. I supremi giudici rilevano “l’inesistenza di concreti comportamenti“, ammessa anche dai giudici di merito, di inquinamento probatorio e la mancanza di “elementi concreti” di reiterazione dei reati. Il ricorso sottoposto ai giudici di piazza Cavour era stato presentato dagli avvocati difensori Giovanni Tarquini e Vittorio Manes, contro la decisione del Riesame dello scorso 20 settembre che aveva revocato la misura cautelare degli arresti domiciliari per Carletti, ma aveva applicato l’obbligo di dimora nella sua casa di Albinea, sempre nel Reggiano. Il primo cittadino, sospeso dal ruolo su decisione del Prefetto e autosospeso dal Pd, è accusato di abuso di ufficio e falso per l’affidamento di alcuni locali per la cura di minori. Carletti, che si era autosospeso anche dal Partito Democratico, era stato arrestato il 27 giugno. Erano stati disposti i domiciliari che non sussistevano.

Sul rischio di inquinamento probatorio, gli ermellini sottolineano che l’ordinanza del riesame di Bologna – che il 20 settembre ha revocato i domiciliari a Carletti imponendo però l’obbligo di dimora – non si è basata su “una prognosi incentrata sul probabile accadimento di una situazione di paventata compromissione delle esigenze di giustizia”. Anzi, il Riesame – prosegue il verdetto – “pur ammettendo l’inesistenza di concreti comportamenti posti in essere dall’indagato, ne ha contraddittoriamente ravvisato una possibile influenza sulle persone a lui vicine nell’ambito politico amministrativo per poi inferirne, astrattamente e in assenza di specifici elementi di collegamento storico-fattuale con la fase procedimentale in atto, il pericolo di possibili ripercussioni sulle indagini”. Tutto “senza spiegare se vi siano, e come in concreto risultino declinabili, le ragioni dell’ipotizzata interferenza con il regolare svolgimento di attività investigative ormai da tempo avviate”. Di “natura meramente congetturale” anche il rischio di reiterazione.

In proposito la Cassazione rileva che “già in sede di applicazione dell’originaria misura cautelare”, ossia gli arresti domiciliari, i giudici di merito a fondamenta delle loro motivazioni si erano serviti di “elementi” messi “in relazione con altro passaggio motivazionale, di non univoca e quanto meno dubbia interpretazione, direttamente tratto dalle dichiarazioni rese da Carletti al Pm”. Interrogato dal magistrato, il sindaco di Bibbiano, sottolinea la Suprema Corte, “genericamente ed in via del tutto ipotetica, si limitò ad affermare che, qualora fosse tornato a rivestire la carica di sindaco, avrebbe potuto prendere in considerazione la proposta, proveniente da un interlocutore serio ed onesto, di un investimento su un terreno privato per la progettazione di una struttura, parallela a quella gestita dalla Asl, per la tutela di minori ed anziani”. Per gli ‘ermellini’ questa considerazione è “meramente congetturale e di per sé non sintomatica della intenzione di commettere ulteriori condotte delittuose dello stesso tipo di quelle per cui si procede”. Pertanto il riesame “ha illogicamente ricollegato la manifestazione di un atteggiamento volitivo orientato a proseguire l’esercizio delle funzioni di sindaco con un metodo d’azione volto alla mera realizzazione di fini politici, indifferente alle regole e alla normativa sottostante”. Carletti era stato sospeso dal prefetto ed era tornato a fare il sindaco dopo il verdetto della Cassazione.

È un grande risultato – commenta l’avvocato di Carletti, Giovanni Tarquini all’AdnKronos -, perché si riconosce che, fin dall’inizio, non c’erano i presupposti e le motivazioni per la misura cautelare. Le misure cautelari sono uno strumento molto forte e di fatto un’anticipazione del giudizio e, in questo caso, erano una forzatura. È un atto forte da parte della Cassazione – prosegue – perché nell’impostazione dell’accusa si riteneva che Carletti potesse condizionare le indagini e questo viene smentito e viene riconosciuto che non c’era una volontà di collusione con il mascheramento di condotte illecite o di non far arrivare alla verità. Infatti è tutto il contrario da parte del mio assistito”.

Il caso Bibbiano scoppia il 27 giugno, quando i carabinieri eseguono 18 misure cautelari in un’inchiesta della Procura di Reggio Emilia su un presunto giro di affidi illeciti nella Val d’Enza reggiana. Nei guai finiscono assistenti sociali, liberi professionisti, psicologi. Agli atti, secondo i pm, ci sarebbero stati lavaggi del cervello ai bambini per raccontare abusi che non ci sono mai stati, relazioni dei servizi sociali falsate e quindi, questa l’accusa principale, minorenni illegittimamente tolti alle famiglie naturali e riaffidati: un business da migliaia di euro. Nelle carte comparivano anche l’uso di una macchinetta dei ricordi, con impulsi elettromagnetici e elettrodi applicati su mani e piedi dei bimbi: un sistema che serviva per alterare lo stato della memoria in prossimità dei colloqui. Ma anche i regali e le lettere dei genitori naturali nascosti in un magazzino, i disegni dei bambini contraffatti per descrivere molestie mai subite in famiglia.

Si parla subito di caso Bibbiano. Carletti è accusato di abuso d’ufficio e falso e di aver ‘coperto’ i reati. L’inchiesta verte su sei-sette casi e alcune figure, tra cui la dirigente del servizio sociale, Federica Anghinolfi, lo psicoterapeuta Claudio Foti della onlus torinese Hansel & Gretel e la moglie, Nadia Bolognini. Fin da subito pero’ lo scandalo esce dalla Val d’Enza e diventa di rilievo nazionale e terreno di scontro politico. Il ministro Bonafede invia ispettori al tribunale per i minorenni e alla Procura di Reggio. Si annuncia presto l’istituzione di una commissione d’inchiesta sul tema affidi e case famiglie. È in particolare il Movimento 5 Stelle a attaccare il Pd, “il partito di Bibbiano” per il vicepremier Luigi Di Maio. I dem rispondono annunciando querele e chiedendo di non strumentalizzare. Nel paese intanto si tengono manifestazioni e fiaccolate e Giorgia Meloni di FdI è una delle prime a arrivare e a incontrare alcuni genitori, seguita da Matteo Salvini che nei prossimi giorni chiuderà la campagna elettorale delle prossime elezioni regionali in Emilia-Romagna. Intanto il tribunale per i minorenni, “parte lesa” come detto dal suo presidente Giuseppe Spadaro, avvia un’ampia rivalutazione dei casi seguiti dal servizio sociale incriminato, non solo quelli al centro dell’inchiesta. In alcuni casi, nel frattempo i bambini sono stati già riaffidati alle famiglie naturali.