martedì 27 agosto 2019

Rousseau ragionava. - Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 27 Agosto:

L'immagine può contenere: 5 persone, persone che sorridono, persone in piedi

Pare incredibile. Ma, salvo sorprese, la crisi più pazza del mondo sta per concludersi all’insegna del buonsenso. Che purtroppo era mancato un anno fa, quando i 5Stelle proposero il contratto al Pd e, all’ultimo miglio, Renzi lo stracciò. Il fatto che ora Renzi sia stato il primo sponsor del patto giallo-rosa e che tutto il partito si sia convinto nel giro di una settimana aumenta il rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato in questi 14 mesi, che hanno regalato a Salvini una vetrina insperata per gonfiarsi come un tacchino nella sua resistibilissima ascesa.

Non era scontato che M5S e Pd trovassero uno straccio di linguaggio comune in così poco tempo, visto che dal 4 marzo 2018 il fossato fra loro si era vieppiù allargato. Ma alla fine, complice la paura di votare nella data e nelle condizioni imposte dalla Lega, la ragione e il realismo hanno prevalso.

Di Maio è stato abile (e generoso, come Fico) a giocarsi l’unico asso in mano, cioè Conte, che compatta il M5S, garantisce i militanti in una svolta così ardua, allarga la platea degli elettori e accompagna il movimento all’esame di maturità.

Zingaretti è stato onesto (e pure lui generoso) a ritirare l’assurdo veto su Conte, che nessuno (nemmeno tra i suoi) avrebbe capito, per salvare per un altro po’ l’unità del Pd. Ora si spera che i ministri siano all’altezza. E magari che si intraveda un programma, che è – insieme al tasso di litigiosità – il vero banco di prova di un governo che potrebbe rimettere a cuccia Salvini, ma anche resuscitarlo.

Ora i 5Stelle temono il voto degli iscritti su Rousseau (allora forse non è truccato). Ma sarebbe stupefacente se fosse negativo: Rousseau, quello vero, ragionava. Cos’è il Pd lo sappiamo tutti, ma pure cos’è la Lega. Anche un anno fa, nel voto sul contratto con Salvini, si parlò di “rivolta sul web”. E il programma del Pd – per quanto vago e cangiante – è meno distante da quello grillino di quello leghista.

Chi ha il maldipancia va capito, ma deve sapere che il Conte 2 o 2.0 in salsa giallo-rosa è la peggiore soluzione eccettuate tutte le altre. Che sarebbero solo due.

1) Il voto subito, cioè un governo Salvini-Meloni-B. che cancellerebbe le leggi-bandiera del M5S. Anche se il M5S passasse dal 17 al 24%, il Rosatellum regalerebbe il cappotto alla destra, al Nord e nei collegi del Sud. E per il proporzionale puro ci vuole un governo, e un governo che lo voglia.

2) Il ritorno con la Lega, oltre a spaccare i grillini che Di Maio ha riunito sotto le ali di Conte, segnerebbe il loro divorzio dal premier per ora e per sempre; e li esporrebbe all’ennesima fregatura da quel campione di slealtà che è Salvini. Il Cazzaro Verde è come lo scorpione: non è cattivo, è proprio fatto così.


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Cade il tabù su Conte. Il governo è quasi fatto. - Luca De Carolis

Cade il tabù su Conte. Il governo è quasi fatto

Ha vinto l’inerzia della politica, hanno vinto le ragioni di tanti mondi e poteri diversi. Più forti dei dubbi di Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio, sposi obbligati con il mal di pancia celato dietro ai sorrisi da telecamere. Costretti a ignorare anni di insulti incrociati, sospetti che fanno rima con accuse, distanze che su certi temi sono siderali. Ma tutto questo ormai è già un’altra storia, è già un passato da rossori, perché il presente certifica che il governo tra Cinque Stelle e Pd si sta per fare con Giuseppe Conte ancora premier, Di Maio ancora dentro il governo e ministri di peso che dovranno andare ai dem.
La parziale compensazione per quella “discontinuità” che Zingaretti ha invocato per giorni e che ha non avuto, perché avrebbe voluto dire niente Conte a Palazzo Chigi: e invece no, tanti, tantissimi lo volevano ancora lì l’avvocato, come una garanzia per un governo che pareva eresia e di certo sarà un esperimento. Più che complicato anche a vederne i vagiti, perché per tutta la sera Pd e 5Stelle si accusano a vicenda di voracità, di chiedere poltrone su poltrone.
Iniziano a farlo già dalle sei e qualcosa della sera, dopo che Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti si sono incontrati nella pancia di Palazzo Chigi. È lì, nell’ufficio del vicepremier, che i due danno il via alla trattativa, quella vera. Zingaretti fa cadere il veto su Conte, ma in cambio chiede ministeri decisivi come l’Economia, l’Interno e gli Esteri. Di Maio invece vorrebbe lasciare il Tesoro a Tria e soprattutto pretende per sè il Viminale. E pure dentro i 5 Stelle in diversi alzano i sopraccigli: “Ma proprio al posto di Matteo Salvini vuole andare, ma non vede i rischi?”.
La sintesi è che bisogna discuterne tanto e allora il capo del M5S rilancia: “Dei nomi bisogna parlarne anche con Conte, visto che sarà lui il presidente del Consiglio”. Dopo 25 minuti di abboccamento finisce così, con il rinvio della trattativa decisiva alle 21, quando il premier dimissionario sarà tornato dal G7 a Biarritz. Ma prima era già successo quello che serviva a preparare il terreno per il vero tavolo. Con Zingaretti che, in mattinata, prova con parole pubbliche: “Si deve provare ad andare avanti, sto lavorando a una soluzione seria, ma dobbiamo ascoltarci (tradotto: vederci, ndr)”. Dopo, e soprattutto, il segretario dem telefona a Conte, ancora in Francia per il G7. Pochi minuti di colloquio in cui il segretario dem ribadisce la richiesta che è il suo mantra: “Presidente, voglio un governo di svolta, con discontinuità”. Non gli dice direttamente che il no al suo nome è saltato, ma il segnale è chiarissimo. Ma Zingaretti chiama anche per sondare il premier. Teme i sommovimenti dentro il Movimento, ha paura che le sirene della Lega siano ancora un problema concreto. Ne parla, di nuovo, con i big riuniti al Nazareno in attesa della svolta. Perché i dem aspettano il vertice dei 5Stelle, previsto nel pomeriggio. E ascoltano i sussurri che arrivano dall’altro fronte. “Luigi sta soffrendo molto, questo accordo gli pesa”, raccontano due big del Movimento. Il vicepremier, bermuda e camicia, si palesa sotto casa con la fidanzata per andare a pranzo immortalato dai fotografi. E mentre passeggia sotto i flash il Carroccio gli fa arrivare ancora offerte tramite intermediari vari: “Ti diamo la presidenza del Consiglio e sui temi ci metteremo d’accordo”.
Alle 15 Di Maio riunisce tutto il gotha del Movimento per prendere la decisione definitiva. Sa che ormai il sì a Conte c’è, le varie anime e cariche del Pd gli hanno dato ampie rassicurazioni. Però in silenzio spera che nella riunione più d’uno protesti, chiedendo una via per ricucire con la Lega. Ma dentro la casa sul Lungotevere del suo strettissimo collaboratore Pietro Dettori gli rispondono con l’evidenza dei numeri. Non si può tornare con il Carroccio, i gruppi parlamentari esploderebbero.
Protesta solo Alessandro Di Battista. Non può bastare. Così Di Maio sale su un taxi e se ne va a Chigi per incontrare Zingaretti.
Ma è l’antipasto per l’incontro chiave, quello con Conte. Il governatore del Lazio gli ritelefona alle 19, appena il premier atterra a Ciampino di ritorno da Biarritz. “Il nodo sulla premiership non è ancora sciolto, sarà solo un incontro tra due delegazioni”, dissimula nel frattempo il Pd. Come a dire che l’accordo su Conte premier ancora non c’è, perché bisogna prima chiarire tutta la mappa del governo giallo-rosso. Così, poco dopo le 21, inizia il vertice a quattro con Di Maio, Conte, Zingaretti e il vicesegretario dem Andrea Orlando. E si va avanti per ore, a discutere di nomi ed equilibri. Per costruire quello che pareva impossibile.

Il ribaltato.- Tommaso Merlo



Salvini si è ribaltato da solo. Altro che ribaltone. Affermare che ci fosse un accordo col Pd dietro le quinte, è una vigliaccata degna del personaggio. La solita mossa per buttarla in cagnara. Si dà il caso che mentre lui cazzeggiava in giro per raccattar voti, il Movimento lavorasse seriamente e col Pd ci ha fatto a botte per anni. È Salvini che aveva in testa il tradimento da tempo. Lo hanno ammesso molti gerarchi leghisti che volevano rompere già dopo le europee per incassare poltrone. Ma Salvini ha temporeggiato. Probabilmente per colpa dell’ingordigia. Voleva essere sicuro di vincere con largo margine. Voleva continuare a sfruttare il Viminale per fare campagna elettorale. E così ha fatto, dopando i sondaggi a livelli inauditi a furia di girare in auto blu e aerei di stato da un comizio all’altro e trattando il governo del paese come se fosse roba sua. Ubriaco fradicio di onnipotenza, Salvini si è deciso a sferrare la pugnalata nella schiena di Conte sotto il solleone. Improvvisa. Secca. Poi il finimondo. Salvini era certo che Conte si sarebbe congedato dalla porta di servizio in silenzio e con la testa bassa. Ed invece Conte ha reagito con veemenza costringendo Salvini a risponderne in aula. Una figuraccia immonda davanti al mondo intero. Lui che veniva considerato anche all’estero il cavallo di razza del populismo nero al punto da convincere addirittura i russi a puntarci sopra rubli. Lui che sembrava lanciato in un galoppo inarrestabile verso la vetta, si è ritrovato con la coda tra le gambe come un brocco qualunque. Comunque vada a finire la crisi, Salvini ne esce male. Altro che purosangue invincibile, il solito vecchio politicante spregiudicato e sleale con in testa solo consensi e poltrone. Il solito vecchio politicante che al di là delle panzane che va a raccontare in giro, pensa solo al proprio tornaconto e a comandare per imporre le proprie idee retrograde e liberticide. Altro che balle populiste, altro che fare l’interesse del popolo, altro che ‘uno di noi”. Il solito cialtrone all’italiana che per troppa smania di gloria, si è ribaltato da solo. Ed oggi, da ipocrita che è, dà la colpa agli altri. Ad aver tradito è lui. Tradito Conte, tradito il Movimento, tradito il contratto, tradito il cambiamento che diceva di volere, tradito i cittadini che contavano su una svolta, tradito le riforme in itinere. Spergiuro. È da pochi giorni che il ronzino meneghino nitrisce in disparte e già si respira aria più fresca. Era dal 4 marzo che Salvini era diventato una persistente ed ossessiva flatulenza nazionale. Un interminabile rutto sullo scibile. E affinché non torni ad echeggiare più nauseabondo di prima, se il nascituro vedrà la luce, dovrà avere in serbo dei buoni colpi. Provvedimenti che fiacchino l’avanzata del populismo nero e che abbiano una portata tale da far passare la sbornia salviniana alle italiche genti. Salvini si è ribaltato da solo, ma nella vita non ha fatto altro e non sa far altro che campagna elettorale. Il suo rutto non si placherà mai.

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Il meschino veto su Conte. - Tommaso Merlo



Zingaretti non vuole Conte. Davvero sfacciato. Erano decenni che non compariva sulla scena politica italiana un alieno come Conte. Una persona stimata in Italia e all’estero che ha raggiunto un consenso da capogiro. Un vero presidente perché capace di rappresentare sensibilità diverse con umiltà e competenza. Eppure Zingaretti lo vuole far fuori. Il perché è ovvio. Zingaretti non vuole ombra, non vuole un presidente del consiglio che ridurrebbe lui ed i suoi amichetti del Pd a misere comparse. Zingaretti vuole la strada spianata per ritrovare brandelli di sole. Vuole un governo di “svolta” ma nel senso di un governo che si metta a sfasciare il più possibile quanto fatto dai gialloverdi. Un governo che costringa il Movimento a rimangiarsi i suoi stessi provvedimenti perdendo così altri pezzi per strada. Un’operazione che può riuscire solo senza Conte tra i piedi. L’avvocato del popolo è troppo amato e soprattutto è una persona troppo preparata e seria per cancellare leggi che portano la sua firma solo da qualche mese. L’avvocato del popolo è difficile da prendere per i fondelli e soprattutto è impossibile da ricattare. Per Zingaretti è molto meglio qualche anonimo parruccone. Qualche manipolabile trombone. Altro che “cose da fare”, altro che sacrificio per il bene del paese. Nomi e poltrone e veti sul migliore presidente del consiglio degli ultimi decenni. A conferma di come Zingaretti voglia il voto subito e ancora ci speri. Ha urgenza di ripulire il Pd dai renziani prima che finisca male e si aggiunga all’infinita lista di segretari impallinati da fuoco amico. Questa trattativa Zingaretti l’ha dovuta subire controvoglia e quindi alza la posta impuntandosi addirittura sul nome di Giuseppe Conte. Roba che dovrebbe sciacquarsi la bocca prima di nominarlo. Il Pd come premier e ministri vari ha sfornato solo frotte di megalomani e ciarlatani. Orde di dinosauri riciclati fino allo sfibramento. E adesso Zingaretti fa lo schizzinoso con quell’arroganza tipica che è stata la rovina del mondo ex comunista. Vedremo se Zingaretti si rimangerà tutto di nuovo. Del resto a comandare davvero è Renzi che invece è disposto anche a vendere l’anima al diavolo pur di evitare le urne e tornare a contare qualcosa. Ma la trattativa è partita molto male. Il meschino veto di Zingaretti su Conte conferma le lacerazioni interne al Pd che lo rendono un partito del tutto inaffidabile per farci un governo assieme. E dimostrano la malafede di Zingaretti. Pretendere che Conte si faccia da parte vuole dire avere intenzioni distruttive e non costruttive. Vuol dire fregarsene dell’opinione dei cittadini che hanno apprezzato la persona e l’operato del premier. Vuol dire avere un’agenda nascosta che è quella di colpire i dannati nemici a cinque stelle. La solita vecchia politica che si riempie la bocca di parolone altosonanti, ma poi si riduce ad una mera questione di teste e di poltrone al servizio di miseri interessi personali e di clan.

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