lunedì 24 febbraio 2014

Da “Ambizione” a “Zero”, tutto Renzi dalla A alla Z. - Andrea Scanzi

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Ogni statista, vero o presunto, ha la sua narrazione. Ce l’ha Vendola e ce l’ha Renzi. Entrambi sono accomunati da un aspetto decisivo: non essere di sinistra, cosa che riguarda solo Vendola, ma il rifugiarsi nella supercazzola. Ipercolta in Nichi, ipercool in Matteo. Dalla A alla Z, ecco tutto il mondo di Matteo. 
A come “auto”, semplice e comune per suscitare empatia con l’elettore: dunque Smart, o al limite Giulietta. “A” come “ambizione”, dichiaratamente “smisurata”. E “A” come “alibi”, che non esiste più: “Questo governo risponde solo a me. Se sbagliamo è colpa mia, solo mia. Se c’è una responsabilità è mia, punto. Non ci sono più alibi”. 
B come “baldanza”, parola che non si sentiva dai tempi di Badoglio, ma che Renzi ha sfoderato presentando la lista di ministri. B come “bolle”, l’effetto che suscitava in Renzi il sentir parlare di rimpasto (poi ha cambiato idea: ogni tanto gli capita). E “B” come “bomba”, il soprannome con cui lo chiamavano i compagni di classe per la propensione a spararle grosse. Almeno in questo non è cambiato: coerente in niente, se non nella bugia. 
C come “cazzaro”. “Resta il numero uno, è in forma strepitosa, un cazzaro insuperabile”. Renzi parlava del suo maestro Berlusconi, ma forse recensiva anche se stesso.
D come “discontinuità”, che Renzi voleva sottolineare con la scelta di Gratteri alla Giustizia: “È il segnale più importante della discontinuità che intendo dare al mio esecutivo”. Quel segnale non c’è stato. E “D” come “De Gasperi”, l’unico che ha guidato un governo con meno ministri (“Ma non è una competizione, nessuno gli si può paragonare”).
F come “fareeeee”, pronunciato rigorosamente alla Crozza. “Ce la faremo. Un impegno: rimanere noi stessi, liberi e semplici”. E un altro impegno, quello sì mai disatteso: non dire niente, ma dirlo bene.
G come “Gratteri” e “Giustizia”. Era la sfida più grande di Renzi a Napolitano: è andata male. Respinto con perdite, e un misero gol della bandiera chiamato Mogherini.
H come hashtag. Twitter è per Renzi il regno supremo della supercazzola del cambiamento. Qualche esempio: #cambiareverso, #proviamoci, #cominciamoildomani, #lavoltabuona. E soprattutto #comefosseantani.
I come “Italia”. “Un paese semplice e coraggioso”. Che sia coraggioso, è acclarato. Che sia semplice, lo pensa solo Renzi.
J come “Jovanotti”, amico e guru di Renzi, e la sua grande chiesa che come noto “parte da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa”. E magari, già che c’è, passa anche da Rignano sull’Arno. 
K come “Keating”, il professore de L’Attimo fuggente. Una delle citazioni preferite di Renzi, insieme (quando vuole darsi un tono) a Righeira e Moncler.
L come Letta. Molto gioioso il passaggio di consegne di ieri, non si vedeva un tale affetto reciproco dai tempi di Caino e Abele. Per quanto disastroso, l’ex Premier non ha però tutti i torti a non “stare sereno”. I voltafaccia di Renzi non si contano più: “Mai al governo senza il voto”, “Non farò le scarpe a Letta”, “Mai più ricatti dai piccoli partiti”, “Basta Alfano nella squadra”, “Dureremo fino al 2018”. Eccetera.
M come “Movimento 5 Stelle”. Il vero nemico di Renzi. Dopo lo streaming ha twittato: “Mi spiace tanto per chi ha votato 5Stelle. Meritate di più, amici. Ma vi prometto che cambieremo l’Italia, anche per voi”. Metà Italia lo ha applaudito, l’altra metà ha contattato un avvocato per sporgere querela per diffamazione (l’insulto risiederebbe nella parola “amici”).
N come “Napolitano”, che Renzi vorrebbe in cuor suo rottamare ma al momento pare il contrario. E dunque “N” come “nuovo”, cioè come “niente”.
O come Orlando. Il neo-ministro della Giustizia. L’ennesimo inchino a Re Giorgio. L’ennesimo regalo a Berlusconi. 
P come “palude”, espressione democristiana per una narrazione 2.0 che non disdegna stilemi dorotei. E “P” come “Peppa Pig”, una delle fondamenta intellettuali di alcuni renziani. Così Marianna Madia, subito dopo la nomina a Ministro della Pubblica Amministrazione: “Non ho seguito i commenti politici, stavo guardando Peppa Pig”. Parole forti. 
Q come “quota rosa”. Renzi, attentissimo alla pagliuzza affinché essa ridimensioni la trave, ha abbassato come nessuno l’età media di un governo e portato al 50% la presenza di donne. È un aspetto su cui fa leva anche quando si rivolge agli elettori. Prima le donne, poi gli uomini: “Italiane e italiani”, “Cittadine e cittadini” (“Compagne e compagni” è già più desueto). 
R come “rifiuti”, che Renzi ha collezionato prima di scegliere i titolari: da Farinetti a Baricco, da Prodi ad Andrea Guerra. Anche per questo, fatti salvi rari casi, ha dovuto schierare panchina e tribuna. E “R” come “rivoluzione”. “Renzi mi è sempre piaciuto perché è un rivoluzionario come me e non nascondo che Berlusconi si rivede in lui”. Chi lo ha detto? Micaela Biancofiore. Auguri.
S come “speranza”, intesa sia come continua sottolineatura renziana di un lieto fine di là da venire (contrapposto al “cupismo pessimistico” dei 5 Stelle), sia come “Roberto Speranza”: in uno squadrone simile, un fenomeno di quella portata non avrebbe sfigurato.
T come “tapioca”, ovviamente prematurata e con scappellamento a destra. 
U come “ultimi”, riferito non ai vinti e ai dimenticati ma “agli ultimi trent’anni”. Secondo Renzi, il suo è infatti il governo “più di sinistra” dall’84 a oggi. E in effetti, tra lobby di Cl, Coop e Confindustria, sembra davvero di essere circondati da Gramsci, Gobetti e Berlinguer.
V come “vento”, evocato per spiegare la pugnalata a Letta: “Se il rischio lo dobbiamo correre anche noi, la disponibilità a correre il rischio deve essere presa con il vento in faccia“.
W come “Walt Whitman”, sparato per rimarcare il proprio coraggio: “Due strade trovai nel bosco e io, io scelsi quella meno battuta”. Pare però improbabile che il poeta si riferisse qui alla conferma di Lupi e Franceschini. Va poi aggiunto come quei versi, scoperti ne L’attimo fuggente e pure mal citati, non siano di Whitman ma di Robert Frost. Renzi ha detto che sono i suoi versi preferiti: figuriamoci gli altri.
Z come “zero”. L’attuale livello di coerenza e novità denotato da Renzi dopo l’elezione a segretario Pd. Più che stare sereno, forse è il caso che cambi rotta: #matteocambiaverso.

Fusione Fredda, gli americani acquistano l'E-cat di Rossi. - Alessandro Martorana

E-Cat 1MW


La società statunitense Industrial Heat ha annunciato di aver acquisito i diritti relativi alla tecnologia LENR (Low-Energy Nuclear Reaction, reazioni nucleari a bassa energia) di Andrea Rossi, ossia l'Energy Catalyzer o E-Cat. Nel comunicato stampa la società non ha parlato di cifre, limitandosi a spiegare che l'obiettivo dell'operazione è quello di rendere questa tecnologia disponibile, considerato il suo impatto sull'inquinamento dell'aria e le emissioni di anidride carbonica derivanti dai combustibili fossili.

"Il mondo ha bisogno di una nuova fonte di energia che sia pulita ed efficiente. Una tecnologia di questo tipo alzerà gli standard di vita nei paesi in via di sviluppo e ridurrà l'impatto ambientale della produzione di energia", ha spiegato il portavoce JT Vaughn, che ha aggiunto che Industrial Heat ha acquisito la proprietà intellettuale e i diritti di licenza del dispositivo LENR di Rossi, dopo che "una commissione indipendente di scienziati europei ha condotto due test di più giorni presso le strutture di Rossi in Italia".
La tecnologia E-Cat sviluppata da Rossi ha fatto molto discutere a causa dell'alone di segretezza che l'ha avvolta sin dalla sua nascita. Sul sito di E-Cat viene spiegato che, "in attesa di una forte protezione della proprietà intellettuale attraverso dei brevetti, Rossi non desidera pubblicare tutti i dettagli conosciuti del processo". Una motivazione assolutamente plausibile, che però potrebbe essere stata rimossa dall'accordo con Industrial Heat.
La decisione dell'azienda statunitense di investire in questa tecnologia non rappresenta in alcun modo una validazione dal punto di vista scientifico, ma è innegabile che affrontando la cosa sotto l'aspetto concettuale, trovare una società disposta a mettere dei soldi su questa tecnologia sia un punto a favore di Rossi.

Generali, indagati Giovanni Perissinotto e Raffaele Agrusti,


   


L’ex amministratore delegato e l’ex direttore generale nel mirino per presunte irregolarità nei confronti della governance interna rispetto ad alcuni investimenti in private equity e fondi alternativi.

Un avviso di garanzia è stato emesso dalla Procura di Trieste nei confronti di Giovanni Perissinotto e Raffaele Agrusti, rispettivamente ex amministratore delegato ed ex direttore generale di Generali. Il provvedimento, emesso in dicembre, contesterebbe loro l’aver ostacolato l’esercizio delle autorità pubbliche di vigilanza.  

L’indagine è conseguenza delle segnalazioni di Consob e Ivass su presunte irregolarità nei confronti della governance interna rispetto ad alcuni investimenti in private equity e fondi alternativi, decisi o gestiti direttamente da Perissinotto e Agrusti, senza le necessarie deleghe, o senza perizie o strumenti di monitoraggio e di protezione. 

Generali aveva dichiarato di aver iscritto a bilancio su sette investimenti 234 milioni di perdite. Ma da un’analisi interna condotta da Kpmg a suo tempo, le operazioni controverse avrebbero però avuto un valore per 660 milioni. Tutte erano accomunate dal fatto di essere collegabili alla merchant bank Finint di Enrico Marchi e Andrea De Vido, a Palladio Finanziaria di Roberto Meneguzzo e al gruppo Valbruna della famiglia Amenduni, soci veneti in Generali tramite Ferak ed Effeti. Da qui la segnalazione all’autorità giudiziaria sul versante penale. 

Sulla vicenda il Cda di Generali si era espresso una prima volta, dopo un parere legale, decidendo di non procedere contro Perissinotto. L’Ivass aveva però chiesto alla compagnia di sottoporre nuovamente la decisione al comitato Controllo e rischi e quindi al Cda. In quella sede, la compagnia aveva escluso «qualsiasi profilo di rilevanza penale» nei comportamenti emersi. 
Il 19 febbraio scorso il consiglio di amministrazione del leone aveva quindi dato mandato al Group Ceo Mario Greco di ricorrere in sede giuslavoristica contro gli accordi risolutivi dei rapporti di lavoro di Perissinotto e Agrusti, ed eventualmente di intraprendere «ogni altra iniziativa volta al ristoro di tutti i danni subiti». 


Urb-e: lo scooter elettrico più piccolo di un bagaglio a mano.

scooter urbe

Uno scooter grande meno di un bagaglio a mano che potrebbe migliorare la vita dei pendolari. Trenta km con una sola carica, senza usare combustibili inquinanti e in soli 13 kg. Il nuovo scooter elettrico pieghevole è Urbe-E, progettato per muoversi comodamente nelle città, senza emettere emissioni nocive.
Non è una scheggia, è in grado di raggiungere una velocità di circa 24 kmh, ma è comunque adatto a coprire i brevi tratti tra la fermata del tram e l'ufficio. Basta portare con sé Urb-e aprendolo all'occorrenza. Ingombrante? Poco. Le sue dimensioni sono più piccole di quelle di un bagaglio a mano. Un piccolo carrello, che con una sola mossa diventa un mezzo di trasporto ecologico.
Urb-e è disponibile in due differenti versioni, un modello pensato per i pendolari, a tre ruote, e un modello a due ruote, che garantisce maggiore agilità grazie all'interasse più corto, anche se una velocità leggermente rdtotta.
È il veicolo ideale per l'ambiente urbano altamente congestionato. Il suo design a tre ruote garantisce una maggiore stabilità e maneggevolezza ma ad una velocità più bassa, ideale per gli spostamenti anche tra i pedoni”, spiegano i suoi realizzatori.
Le ruote posteriori hanno l'ulteriore compito di rendere trasportabile lo scooter, una volta piegato, permettendo di trascinarlo come un bagaglio a mano.
Urb-e utilizza una batteria agli ioni di litio da 36 volt, che sopporta 5000 cicli di carica e ha un tempo di ricarica di circa 3 ore. È dotato inoltre e un motore anteriore da 250W. 
Ecco alcune immagini, che mostrano anche le varianti di colore in cui è disponibile il veicolo:


Il colloquio tra Grillo e Giletti

Il principio della rana bollita (di Noam Chomsky).



Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana.
Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare.
La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. 
Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa.
L’acqua adesso è davvero troppo calda. 
La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla
Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita.
Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50° avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone.
Questa esperienza mostra che – quando un cambiamento si effettua in maniera sufficientemente lenta – sfugge alla coscienza e non suscita – per la maggior parte del tempo – nessuna reazione, nessuna opposizione, nessuna rivolta.
Se guardiamo ciò che succede nella nostra società da alcuni decenni, ci accorgiamo che stiamo subiamo una lenta deriva alla quale ci abituiamoUn sacco di cose, che ci avrebbero fatto orrore 20, 30 o 40 anni fa, a poco a poco sono diventate banali, edulcorate e – oggi – ci disturbano solo leggermente o lasciano decisamente indifferenti la gran parte delle persone. In nome del progresso e della scienza, i peggiori attentati alle libertà individuali, alla dignità della persona, all’integrità della natura, alla bellezza ed alla felicità di vivere, si effettuano lentamente ed inesorabilmente con la complicità costante delle vittime, ignoranti o sprovvedute.
I foschi presagi annunciati per il futuro, anziché suscitare delle reazioni e delle misure preventive, non fanno altro che preparare psicologicamente il popolo ad accettare le condizioni di vita decadenti, perfino drammatiche.
Il permanente ingozzamento di informazioni da parte dei media satura i cervelli che non riescono più a discernere, a pensare con la loro testa.
Allora se non siete come la rana, già mezzo bolliti, date il colpo di zampa salutare, prima che sia troppo tardi!

Delrio, non sforiamo 3% Valutiamo tasse sui Bot Chi ha 100 mila euro può pagarne 25-30. Se si fermano le riforme non temiamo le urne



Questo si chiama PRELIEVO FORZOSO, naturalmente sui poveri anziani che, con tanti sacrifici, hanno risparmiato qualcosa. 

Ed intanto nessuna patrimoniale sui grandi capitali e naturalmente altro SCUDO FISCALE PER I GRANDI EVASORI

Delrio, non sforiamo 3% Valutiamo tasse sui Bot
Chi ha 100 mila euro può pagarne 25-30. Se si fermano le riforme non temiamo le urne

Assumendosi l'onere del governo Renzi sa che corre "un grosso rischio". Perché i problemi dell'Italia sono tanti ed endemici e c'è "bisogno di un tempo più lungo" per risolverli. A dirlo, ospite di 'In 1/2 ora' di Lucia Annunziata il braccio destro del premier, Graziano Delrio, nominato sottosegretario alla Presidenza del Consgilio, che traccia anche le linee di azione del nuovo governo.

Rispetto 3%, giù cuneo, no patrimoniale, no licenziamenti P.a. - Intanto, assicura Delrio, "non vogliamo sforare il 3%, non ha senso" e, tra l'altro, "c'è un 3% del nostro Pil che non stiamo rispettando, quello da reinvestire in ricerca e sviluppo. Vogliamo andare in Europa dicendo che non siamo l'Italia che annuncia ma che fa". E "intendiamo certamente aumentare seriamente il taglio del cuneo fiscale. Pensiamo di ricavare risorse in parte dalla spending review, in parte da operazioni industriali e dal rientro dei capitali". E quanto alla Pubblica amministrazione, il tema - assicura - "non è tagliare, ma renderla più efficiente. Non credo che in questo momento il Paese si possa permettere di licenziare".
No patrimoniale, ipotesi tassare rendite finanziarie - Niente patrimoniale, assicura sempre Delrio. Discorso diverso per le rendite finanziarie, perché "c'è una parte non in linea con la tassazione che c'è in Europa e questo per reperire più soldi va valutato". "Se una signora anziana ha messo da parte 100 mila euro in Bot - è l'esempio - non credo che se le togli 25 o 30 euro ne avrà problemi di salute. Vediamo".

Conflitto di interessi - Nel menù del governo anche il conflitto di interessi perché "quando dico che vogliamo far diventare Italia un Paese modello" significa anche che "abbiamo bisogno di una legge sul conflitto di interessi, è una cosa che il Paese merita".

Riforme o non temiamo urne - Altro capitolo le riforme. L'Italicum, dice Delrio, non è stato congelato come ha detto Algano. E in ogni caso "se il Parlamento ci sta" a fare le riforme "bene. Sennò - chiarisce - non è certamente Renzi che ha paura delle urne". "Se la gente deciderà che le nostre riforme sono sbagliate o troppo forti, torneremo a dare la parola al popolo".

Nessuno defenestrato - Quanto alla fine del governo Letta "non abbiamo defenestrato nessuno, è stata semplicemente una lettura diversa di diversi contesti. Nessun complotto di potere e nessun giudizio personale". E sulle polemiche per il mancato ingresso nel governo di Nicola Garatteri, per Delrio si tratta di "una figura di speranza per la gente comune. Sa, e glielo ho confermato anche stamattina , che se vorrà essere consulente del premier per la criminalità le porte di palazzo Chigi per lui sono sempre aperte".


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PADOAN: UN ECONOMISTA FALLITO ALLA GUIDA DELL’ECONOMIA ITALIANA? - Marco Della Luna

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I giornali, tolti alcuni più fedeli a Renzi e alla Merkel, si diffondono in esempi di clamorosi fallimenti del nuovo ministro dell’economia come economista. 
Citano le sue marcatamente erronee previsioni, ripetute, sulla fine della crisi. 
Citano la sua fedeltà al principio della austerità fiscale e quello della alta pressione tributaria, fedeltà che resiste all’evidenza del fallimento di questi due principi che stanno, nel mondo reale, producendo effetti contrari a quelli che dovevano produrre. Cioè più indebitamento, più deficit, più recessione. 
Citano Paul Krugman, che di lui dice che la sua regola è: bisogna bastonare l’economia finché non si riprende. Lo dipingono, insomma, come un dogmatico ottuso che rifiuta di vedere i fatti, cioè come un perfetto fanatico cretino.
Io però non credo che Padoan sia un cretino: per dimostrare che sia uno sciocco, bisognerebbe provare che creda in ciò che predica, e che non lo predichi solo per  sua convenienza – e di carriera ne ha fatta. 
Non credo affatto che sia un economista fallito, perché si può parlare di fallimento dei principi che egli propugna e difende soltanto se si guarda ai loro effetti dal punto di vista dell’interesse della popolazione generale, non dal punto di vista dell’interesse dell’élite. È vero che la loro applicazione ha prodotto un impoverimento generale, ma è anche vero che ha prodotto un arricchimento dei vertici della società. Un arricchimento in termini sia di ricchezza economica che di potere politico sulla popolazione generale. Un gigantesco trasferimento economico dal basso verso la punta della piramide. Ha consentito una profonda ristrutturazione dei rapporti giuridici e sociali in favore delle classi dominanti a livello globale. Ma ha anche fatto gli interessi della classe dominante italiana, della cosiddetta casta, una classe parassitaria che deriva sia il suo benessere economico che la sua capacità di mantenere la poltrona dalla quantità di risorse che riesce a prendere al resto della popolazione. E le prende attraverso le tasse, perlopiù. I principi economici portati avanti da Padoan aumentano la pressione tributaria, aumentano le risorse che tale classe riesce a prendere per sé. Quindi vanno bene per la casta.
Vorrei evidenziare, inoltre, che la pressione tributaria, in una società dominata da questo tipo di casta “estrattiva”, parassitaria, che non si sa se sia più delinquente o più incompetente, non può mai ridursi, perché la casta non può logicamente rinunciare a quote di reddito e ricchezza nazionale che ha fatte già proprie, anche perché le servono per comprare i consensi. Può solo aumentare con l’aumento delle aliquote, con l’introduzione di nuove tasse, con l’introduzione o l’inasprimento delle presunzioni di reddito o di valore dei patrimoni, con l’aumento della cosiddetta lotta all’evasione fiscale. Quindi ognuna di queste mosse peggiora strutturalmente e funzionalmente l’economia perché distoglie stabilmente  e definitivamente reddito e risorse dall’economia produttiva in favore del parassitismo. E le distoglie in via irreversibile.
Riprendere quelle risorse alla casta per riportarle all’economia produttiva quindi alla possibile ripresa economica, può avvenire solamente attraverso un’azione violenta e rivoluzionaria nei confronti della casta. 
Violenta, perché si tratta di togliere la carne di bocca ai cani. E perché la casta comprende i vertici dei poteri giudiziario, militare e poliziesco. Al punto di rottura del sistema, l’appoggio e la spinta dei potentati esteri ed europei saranno decisivi in un senso o nell’altro, anche se io rimango dell’opinione che una rivoluzione sia impossibile in Italia (altrimenti sarebbe avvenuta tempo fa) e che la soluzione pragmatica stia nell’emigrazione-delocalizzazione.
Sarà decisivo anche il fattore comprensione. Esiste una concezione liberale dello Stato, secondo la quale lo Stato è un apparato erogatore di servizi, un fornitore, economicamente parlando la gente paga tasse a esso, e deve ricevere in cambio servizi corrispondenti alle tasse; se i servizi non corrispondono alle tasse, lo Stato va cambiato e in mancanza di correzione bisogna rifiutare il pagamento delle tasse. 
Questa concezione è ingenua se non tiene conto del fatto che vi è una classe sociale o casta che ha in mano le leve di poteri dello Stato, e per la quale lo Stato è uno strumento per arricchirsi e per mantenere ed aumentare il proprio potere sulla popolazione generale. 
Per essa, l’erogazione dei servizi alla popolazione generale è un costo, un costo aziendale, mentre è un utile, un utile aziendale, tutto quello che essa riesce a prendere attraverso lo Stato dalla popolazione generale e a trattenere a proprio vantaggio. 
Come per il pastore la lana lasciata indosso alle pecore è lana persa, così per questa classe sociale, per la casta italiana, il gettito fiscale è, aziendalmente, il ricavo; la spesa per servizi al corpo sociale è un costo; la differenza, tolti degli oneri finanziari, è il suo profitto. Perciò essa tende ad aumentare il prelievo fiscale indipendentemente dai bisogni effettivi del Paese, e gestire la spesa pubblica clientelarmente, inefficacemente, e  non verso i bisogni effettivi del Paese, ma verso i suoi propri. Col che si spiega come mai in Italia abbiamo tasse altissime e servizi pessimi. Non è vero “più tasse, più servizi”. Non è vero che se si eliminasse l’evasione fiscale le tasse calerebbero: la casta tratterrebbe tutto. Stiamo già pagando tasse più che sufficienti, se non le pagassimo ai ladri. E se non si elimina questa casta di ladri, di parassiti, non è possibile riqualificare e rendere efficiente la spesa pubblica, tagliandone gli sprechi, perché questi sono profitti per la casta.
Padoan è il ministro giusto per questa gestione. Non è affatto un cretino o un economista fallito. È l’economista vincente, al contrario. Se lo ha scelto lui, Renzi ha scelto saggiamente : ha scelto un uomo che unisce gli interessi della casta italiana con gli interessi dell’élite capitalista finanziaria globale passando per i saccheggiatori di Berlino e di Brussel. Il suo governo è in linea perfetta coi precedenti.

IL MINISTRO PADOAN? ARGENTINA E GRECIA. - Gianni Lannes


Uno affidabile per il lavoro finale che porterà l'Italia dentro il baratro. 
Pier Carlo Padoan? 
In Argentina lo ricordano per unica ragione: aver spinto il Paese sudamericano nell’abisso economico. Ex dirigente del Fondo monetario internazionale, ex consulente della Bce ed ex vice segretario dell’Ocse. Ecco un telegrafico identikit del nuovo titolare dell’economia telecomandata dall'estero. In altri termini, uno sicuro per il sistema di potere dominante.
Rammentate cosa dichiarò un anno fa il neo ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan? Testuale: «La riforma Fornero è stato un passo importante per la risoluzione dei problemi dell’Italia». Avete capito ora cosa ci attende? 

Scelto personalmente dal presidente abusivo della Repubblica Giorgio Napolitano e osannato dai mass media italiani. Sentite cosa scrisse di lui sul “New York Times” il premio Nobel per l’economia Paul Krugman: «Certe volte gli economisti che ricoprono incarichi ufficiali danno cattivi consigli; altre volte danno consigli ancor peggiori; altre volte ancora lavorano all’Ocse».

Un passo indietro: Padoan era responsabile in Argentina per conto del Fondo monetario internazionale nell’anno in cui il Paese sudamericano fece bancarotta.

Allora a cosa si riferiva il professor Krugman? Padoan è stato l’uomo che ha gestito per conto del Fondo monetario internazionale la crisi argentina. Nel 2001, Buenos Aires fu costretta a dichiarare fallimento dopo che le politiche liberiste e monetariste imposte dal Fmi (suggerite da Padoan) distrussero il tessuto sociale del Paese. In quegli anni il neo ministro si occupò anche di Grecia e Portogallo. Krugman scrisse in un altro articolo che furono proprio le ricette economiche «suggerite da Padoan a favorire la successiva crisi economica nei due Paesi».

Ecco cosa ha detto Padoan a proposito della crisi greca: «La Grecia si deve aiutare da sola, a noi spetta controllare che lo faccia e concederle il tempo necessario. La Grecia deve riformarsi, nell’amministrazione pubblica e nel lavoro». In altre parole, Atene avrebbe dovuto rendere il lavoro molto più flessibile, alleggerendo (licenziando) la macchina della pubblica amministrazione. 

Nel marzo del 2013, quando la Grecia era sull’orlo del collasso indotto dalle speculazioni finanziarie, l’allora numero due dell’Ocse suggerì direttamente: «C’è necessità che il governo greco adotti una disciplina di bilancio rigorosa e di un continuo sforzo di risanamento dei conti pubblici, condizioni preventive per il varo di misure a sostegno dello sviluppo».

Mister Padoan è stato per quattro anni responsabile per conto del Fmi della Grecia. Successivamente, ha influenzato le politiche economiche di Atene in qualità di vice presidente dell’Osce.

Dopo la cessione definitiva della Banca d'Italia e della riserva aurifera nazionale (depositata a New York invece che a Roma) ai privati (grazie soprattutto  a Napolitano), vanno in onda gli ultimi affari sporchi che distruggeranno definitivamente le risorse naturali dello Stivale.