Egli ci ha parlato.
“Dieci giorni per un accordo sulla legge elettorale e voto a giugno oppure subito al voto”.
Oppure: “I riservisti aiutano gli avversari. Chi ha avuto occasione per cambiare il paese faccia autocritica”.
Ma anche: “La legislatura è finita il 4 dicembre ed è stato deciso dagli italiani. Non dobbiamo però aver paura del loro giudizio e del loro voto”.
Fino al definitivo: “Il mondo è rotondo e, a forza di spostarti a sinistra, ti ritrovi a destra come Trump”.
Così parlò lo sfavillante, e sin dagli albori rutilante, Matteo Orfini.
Uomo ossimorico, da sempre definito “giovane” (ora turco, ora dalemiano, ora renziano) senza mai esser stato giovane.
Nato nel 1974, anche se a guardarlo avresti detto prima, Orfini è uno statista straordinario. La sua biografia è piena di aneddoti ammantati di leggenda. Per esempio quella volta che fece un provino come Fabris nel remake di Compagni di scuola, ma non lo presero. Oppure – ma sarà vero? – quando lo scartarono nelle selezioni finali dello spot di Amica Chips, scegliendo comunque un attore a lui somigliante. Di sicuro non attengono alla leggenda, bensì alla Storia, altre istantanee che vedono Orfini protagonista.
Su tutte la foto, che trasuda genio e bellezza, in cui lo si vede ingobbito di fronte alla playstation, mentre svolge il ruolo di punching-ball del Gran Capo Renzi.
In quelle stesse ore il Pd stava perdendo una delle tante elezioni che ha perso e il ligio Orfini, che fino al giorno prima aveva trattato Renzi come una sorta di usurpatore berlusconiano, cominciava la via Crucis del probo servitore di partito disposto a tutto – ma proprio a tutto – pur di avere un posto.
Un ruolo.
Una ragione di vita.
Era l’inizio di una nuova carriera: quella dell’”amico debole”, e non troppo affascinante, figura di cui da sempre si circondano quelli (o quelle) convinti di esser fighi. Tra una pausa e l’altra, Orfini soleva twittare consigli tattici agli allenatori del Milan, che purtroppo (per il Milan) venivano spesso ascoltati.
Nel frattempo le imprese orfiniche si succedevano: su tutte la portentosa rinascita del Pd romano, che il Commissario Orfini prima redime e poi salva. Era così che il Matteo debole (cioè: più debole di quell’altro) si guadagnava il ruolo di Presidente di partito, da lui interpretato con la stessa libertà intellettuale che vantava Bondi con Silvio.
Dopo la Waterloo capitolina, Orfini scompariva per alcuni mesi, con vivo scorno dei tanti talkshow affezionatisi a quell’eloquio mesto, quel carisma diversamente efficace e quel capino dolentemente pennuto. Il rovescio referendario lo affliggeva ulteriormente, ma Orfini era ben lungi dall’arrendersi. Anzi. Ritrovava pigolo, e financo brio, in contemporanea degli attacchi di D’Alema: il vecchio maestro. L’uomo di cui, forse per affetto antico, imita ancora voce e pause. Ed eccolo, il vero capolavoro politico di Fabris Orfini: far quasi rimpiangere chi lo ha preceduto. Compreso D’Alema. Bravo Matteo: quello debole, ma pure quell’altro.
(Il Fatto Quotidiano, 31 gennaio 2017)
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