sabato 9 maggio 2015

Dagli al giornalista. - Marco Travaglio.



Confesso il mio doppio conflitto d’interessi: sono giornalista e sono anche uno di quelli spiati durante il governo Berlusconi-2 dal Sismi del generale Niccolò Pollari e del suo “analista” Pio Pompa e, per soprammercato, pure dalla cosiddetta Security della Telecom capitanata da Luciano Tavaroli (che in realtà lavorava in tandem con i servizi). 

Bene: a Perugia, nel silenzio generale, sta per concludersi il processo a Pio Pompa, nei cui uffici e appartamenti romani furono sequestrati nel 2007 ben 10 mila file. “In quei Cd, Dvd e hard-disk – ha ricordato il pm Massimo Casucci – sono stati rinvenuti dossier su giornalisti e magistrati, insieme a documenti su attentati e sulle questioni aperte riguardanti Iraq, Afghanistan e Nigergate. Quando è avvenuta la perquisizione, però, Pompa non faceva più parte dell’intelligence militare e dunque non poteva detenere quei file”. E perciò, dieci giorni fa, il pm ha chiesto la condanna di Pompa a 4 anni e mezzo di carcere per essersi procacciato documenti “atti a fornire notizie che nell’interesse della sicurezza dello Stato dovevano rimanere segrete”.

Ieri il sito del Fatto ha rivelato che, sentito come testimone, il generale Pollari – ex superiore di Pompa – ha invocato il segreto di Stato depositando una lettera che gli ha scritto Giampiero Massolo, direttore del Dipartimento Informazioni per la Sicurezza della Presidenza del Consiglio (il Dis, che coordina i servizi segreti militare e civile). Che dice Massolo? Che anche il governo Renzi, come i precedenti, ha deciso di apporre il segreto di Stato e addirittura di ricorrere alla Corte costituzionale per mandare in fumo il processo a Pompa. Ora, nei dossier sequestrati nel 2007, emergeva un sistematico dossieraggio su magistrati, politici e giornalisti considerati “ostili” a Berlusconi, definiti “bracci armati” di non si sa quale Spectre e dunque da “disarticolare”, “neutralizzare”, “ridimensionare” e “dissuadere”, anche con “provvedimenti” e “misure traumatiche”. 

Davvero il governo Renzi ha così a cuore la libertà di stampa e di pensiero da impedire verità e giustizia anche su quell’oscura vicenda? È vero, noi giornalisti siamo una categoria malfamata. Ma ormai il primo che passa si sente autorizzato a prenderci a ceffoni senza che nessuno dica o faccia nulla. È di questi giorni l’incredibile vicenda dell’Unità, che il Pd vorrebbe rimandare in edicola con i soliti soldi pubblici, ma abbandonando al loro destino i giornalisti delle ultime gestioni, lasciati soli a difendersi da querele penali e cause civili, a pagarsi gli avvocati e addirittura a farsi pignorare le case e gli stipendi.

Ed è dell’altro giorno la sentenza del Tribunale di Roma che dà torto a Sandra Amurri, giornalista del Fatto Quotidiano, e ragione all’ex deputato Dc e poi Udc Calogero Mannino, tuttora imputato a Palermo per violenza o minaccia a corpo dello Stato nel processo sulla trattativa Stato-mafia. L’antefatto è noto, almeno ai nostri lettori. 

Il 21-12-2011 Sandra Amurri, trovandosi al Bar Giolitti di Roma, a due passi da Montecitorio, ascoltò casualmente una conversazione fra due politici. Uno lo riconobbe subito: Mannino. L’altro lo identificò poi dalle foto scattate con l’iPhone: Giuseppe Gargani. Sentì dire fra l’altro a Mannino: “Stavolta ci fottono: dobbiamo dare tutti la stessa versione. Spiegalo a De Mita, se lo sentono a Palermo è perché hanno capito. E, quando va, deve dire anche lui la stessa cosa, perché questa volta ci fottono. Quel cretino di Ciancimino figlio ha detto tante cazzate, ma su di noi ha detto la verità. Hai capito? Quello, il padre, di noi sapeva tutto, lo sai no? Questa volta, se non siamo uniti, ci incastrano. Hanno capito tutto. Dobbiamo stare uniti e dare tutti la stessa versione”. E a Gargani: “Certo, certo, stai tranquillo, non ti preoccupare, ci parlo io”. Un caso di scuola di inquinamento delle prove. 

La Amurri raccontò sul Fatto quanto aveva visto e sentito e, chiamata dai giudici di Palermo a testimoniare sotto giuramento, confermò tutto. Mannino la insultò: “Mitomane”, “spia”, “agente volontario in servizio della Stasi in Germania o del Kgb nell’Urss”, “fantasia eccitata”, “delirio”, “menzogna organizzata”. La Amurri gli fece causa. Intanto, sentito come teste al processo Trattativa, Gargani confermava il colloquio (non, ovviamente, le parole) con Mannino nella data e nel luogo indicati. E il deputato Aldo Di Biagio, che l’aveva incontrata alla sua uscita dal bar Giolitti, testimoniava che subito la nostra giornalista gli aveva raccontato ciò che aveva appena sentito dai due politici. 

Ora il giudice di Roma dà ragione a Mannino e condanna la Amurri a pagargli 15 mila euro di spese legali. Ma, quel che è peggio, scrive nella motivazione che gli insulti sanguinosi di Mannino – i peggiori che un giornalista possa ricevere – sono “espressioni riconducibili all’esercizio del diritto di critica… proporzionate e strettamente collegate alle accuse mossegli nell’articolo” e “all’indebita interferenza della giornalista in una sua conversazione privata”. Già, perché qui la colpevole è la cronista: ha “abusivamente origliato il colloquio” e, anziché starsene zitta come fanno i conigli che non cercano rogne, l’ha denunciato e poi confermato ai giudici per aiutarli ad accertare la verità. 

La domanda è semplice: se io, comune cittadino o giornalista, ascolto al bar due persone che progettano un omicidio, o una rapina, o uno stupro, che devo fare? La sentenza non lascia dubbi: devo farmi i cazzi miei e lasciare che i due portino a termine il crimine. Altrimenti, se faccio il mio dovere di denunciarli, quelli potrebbero diffamarmi e, se reagisco, rischio di incontrare un giudice che mi accusa di averli abusivamente origliati violando la loro sacra privacy, e mi obbliga pure a rimborsarli con 15 mila euro. 

Una lezione di educazione civica.

http://temi.repubblica.it/micromega-online/dagli-al-giornalista/

I tromboni dell'Expo. - Marco D'Eramo



Indovinello: cosa vi fanno venire in mente i nomi di Genova, Daejon, Lisbona, Hannover, Bienne, Aichi, Saragozza? Scommetto che nessuno ha in tasca la risposta esatta: queste città sono state sedi delle Expo rispettivamente del 1992, 1993, 1998, 2000, 2002, 2005, 2008. Questo per dire quanto indelebile è stata la traccia lasciata dalle più recenti Esposizioni universali nella memoria planetaria. 

Chi di noi ricorda che nel 2002 Bienne fu sede di una Expo? E dove si trova Bienne? (Svizzera).
Peggio: quale marchio ha lasciato nei nostri cuori Yeosu? Eppure questa città è stata sede dell'ultima Expo (2012) prima di quella di Milano: appena trentasei mesi fa. Non propongo neanche la domanda di riserva per sapere di quale nazione è Yeosu (Corea).

In soli pochi anni oblio e indifferenza hanno sepolto quegli eventi. Basterebbe questa costatazione a svelare il patetico provincialismo con cui l'italico rullio di tamburi mediatici ha accompagnato l'inaugurazione dell'Expo milanese. Verrebbe da parafrasare la fulminante battuta di un presentatore a un concerto di jazz di qualche anno fa: “Ecco a voi il meglio del trombonismo italiano”, solo che in questo caso “trombonismo” non si riferisce al trombone sostantivo, ma al trombone aggettivo.

“Il mondo ci guarda”, “Milano è tornata capitale”, “venti milioni di visitatori”, “decine di migliaia di nuovi posti di lavoro”, e così via con le iperboli, quando il resto della Terra continua a essere in tutte altre faccende affaccendato e consacra a questo evento epocale della nostra storia qualche trafiletto dedicato più che altro agli scontri, o alle tangenti, o a pezzi di stand che crollano.

Ma che importa, non siamo qui per lesinare un superlativo. La Repubblica non si risparmia: “Milano al centro del mondo” titola, mentre La Stampa prevede sicura: “Per sei mesi il mondo guarderà all'Italia”, ed Il Secolo XIX lancia il guanto (sempre al mondo): “La sfida dell'Italia”. Un editoriale del Corriere della Sera è rotto dal magone: “L'emozione di essere al centro del mondo”. Il timore del ridicolo non spaventa nessuno, tanto meno L'Avvenire che, dopo un'affermazione per lo meno discutibile (“Il mondo è all'Expo”), si pone un quesito comico: “Ma sarà più giusto?”. Come diavolo fa la presenza di alcuni stand in un'Esposizione a rendere il nostro pianeta più o meno equo?

Il fatto più stupefacente è che tra tanti dotti opinionisti, commentatori ed esegeti, nessuno abbia ripercorso non la storia aneddotica delle varie expo universali (elargitaci a piene mani), ma il loro significato e declino: come mai sono state inventate le esposizioni universali? A che scopo? È curioso che nessuno si sia chiesto come mai agli albori del terzo millennio poniamo tanta enfasi su un'idea che è ottocentesca in tutto e per tutto, non solo perché fu l'800 a inventare le Esposizioni universali (la prima si tenne nel 1851 a Londra), ma perché l'800 inventa la società industriale il cui elemento nevralgico diventa la merce di cui deve moltiplicare i consumatori. In una pagina fulminante del saggio “Parigi capitale del XIX secolo” Walter Benjamin scriveva (nel 1935): “Le esposizioni universali sono luoghi di pellegrinaggio al feticcio merce. 'L'Europe s'est déplacée pour voir des marchandises' dice Taine nel 1855”.

Ma non è merce qualunque quella che le Esposizioni universali ottocentesche mostrano, è la marcia del Progresso che viene esibita attraverso di loro: nel 1851 furono svelati per la prima volta il caucciù e la mietitrice meccanica; nel 1855 (Parigi) destò ammirazione la macchina da cucire Singer; nel 1867 (Parigi) strabiliarono ascensore, macchina per produrre bevande gassate e cemento armato; nel 1876 a Philadelphia fu presentato il telefono e anche il ketchup.

Poi i brevetti e con essi il segreto industriale ebbero il sopravvento e le innovazioni non furono più rivelate ai quattro venti: le Esposizioni persero a poco a poco il loro carattere di antro delle meraviglie della scienza e della tecnica, anche se questo retaggio continuò a risuonare nell'Expo di Bruxelles del 1958 (dedicata all'energia atomica) in cui l'Urss mostrò un esemplare di Sputnik, la prima navicella spaziale; e poi ancora a Osaka nel 1970 quando il Giappone presentò il primo treno superveloce.

Il Progresso con la P maiuscola non riguardava solo le merci, ma investiva tutta la società, la sua gestione dello spazio, la sua architettura. Non per nulla il simbolo della prima Expo londinese del 1851 fu il Palazzo di Cristallo (in realtà in ferro e vetro) che sarebbe stato il prototipo di tutte le armature metalliche successive e che avrebbe ispirato tutta l'edilizia moderna. Come non parlare della Tour Eiffel simbolo dell'expo universale parigina del 1889, il cristallo di atomi di ferro simbolo di Bruxelles 1958, o dello Space Needle (l'Ago Spaziale) di Seattle. Ma anche il Colosseo quadrato dell'Esposizione Universale Romana (Eur) del 1942 (che non si sarebbe mai tenuta) aveva l'ambizione di raffigurare le ultime tendenze architettoniche, in quel caso del neoclassicismo unito al razionalismo italiano.

Ma alla fine degli anni '60 del secolo scorso l'ideologia del Progresso perdeva colpi e perdevano senso le Expo a esso dedicate: da allora nessuna Expo ha sciorinato le meraviglie del possibile: non hanno esposto neanche un computer. E perdevano colpi i simboli architettonici: i padiglioni sono stati costruiti vieppiù sotto il segno dell'effimero, per essere smontati battenti chiusi.

Ma senza lasciarsi andare troppo alla nostalgia: perché quelle esposizioni “progressiste” esponevano anche quello che l'ineffabile Rudyard Kipling chiamò il “White man's burden”, “il fardello [civilizzatore] dell'uomo bianco”, esponevano perciò l'opera “civilizzatrice” dell'Occidente e, per farlo, dovevano esporre i selvaggi. Furono le grandi esposizioni universali a istituire infatti gli Zoo umani, padiglioni in cui veniva ricostruito l'habitat di tribù africane o malgasce o indonesiane dove famiglie di indigeni venivano esposte alla curiosità dei visitatori. Né c'è da inorridire: anche quelle erano esposizioni buoniste, che semplicemente riflettevano l'”imperialismo umanitario” del tempo. Ricordiamo che l'ultimo Zoo umano fu esposto nell'Expo di Bruxelles addirittura nel 1958.

Ma allora ci si chiede che senso ha oggi allestire un'esposizione universale, se non come occasione per varare qualche grande cantiere, sdoganare – sotto la voce “promozione di mercato” – qualche spesa pubblica in un'era in cui le spese pubbliche socialmente utili (investimenti nella scuola, nella sanità nel welfare) sono considerate “sprechi” da riformare secondo i suggerimenti di tutte le trojke del mondo. È la ragione per cui la retorica dell'Expo oscilla sempre tra l'epica e il pizzicagnolo.

L'epica è quella della retorica nazionalista della sfida al mondo che abbiamo già visto e che ci ricorda irresistibilmente l'Eur fascista, anche allora voluta da Bottai nel 1935 per “mostrare al mondo il Genio della Civiltà italica”: sono passati 80 anni e sempre alle stesse guasconate da Italietta siamo restati. E l'odore di regime esala di nuovo, 80 anni dopo, irrespirabile dal coro ditirambico degli italici media. 

Non solo il paragone regge, ma è persino sconfortante perché dell'Eur 1942 sono almeno rimaste tracce durature che ancora sono studiate nei manuali di architettura, mentre c'è da chiedersi cosa resterà dell'Expo milanese. Ma soprattutto perché il genio italico cui allora ci si riferiva era quello così pomposamente decantato nell'iscrizione sul Colosseo quadrato (“Un popolo di poeti di artisti di eroi / di santi di pensatori di scienziati / di navigatori di trasmigratori...”), mentre il genio attuale si dispiega facendo rientrare (sussumendo) l'universo mondo nel modello Eataly: cosa è questa fiera se non un Eat-world? In questo particolare, mantenendo una curiosa fedeltà con le Expo dell'800. Osservava infatti Benjamin: “La 'specialità' è una designazione merceologica che fa la sua apparizione in quell'epoca nell'industria di lusso. Le esposizioni universali costruiscono un mondo fatto di 'specialità' (…) Modernizzano l'universo”. E cosa sono gli stand gastronomico-alimentari se non una fiera di specialità? Lardi di Colonnata, amaretti di Saronno, capperi di Pantelleria, orizzonti insuperabili della nostra epoca.

Ci ricongiungiamo qui al pizzicagnolo che non solo espone negli stand bresaole e tomini, ma lucra e fa la cresta su ogni sua “specialità”: l'animo da droghiere ispira i miseri conticini della spesa, i calcoli sui profitti immediati che ogni italico, guicciardiniano “particulare” può trarne: ci viene infatti annunciato in trionfo (da La Provincia) che “L'expo può far decollare Como”: Ohibò!
Mentre Il Secolo XIX s'inalbera piccato con un'importante notizia di spalla in prima pagina:

“Liguria beffata
all'Expo: niente
assaggi di pesto
pizza libera”

Non resta che pestare i vil marrani partenopei.


http://temi.repubblica.it/micromega-online/i-tromboni-dellexpo/