lunedì 8 gennaio 2018

Boom di dimissioni per le neomamme. In 25 mila costrette a lasciare il lavoro. - Claudia Luise


Secondo i dati forniti dall’Ispettorato nazionale del lavoro tra le donne che si sono licenziate 24.618 hanno specificato motivazioni legate alla difficoltà di assistere il bambino e di conciliare la vita da mamma con il lavoro.

Pochi posti al nido, troppi costi e nonni lavoratori: la fotografia dell’ispettorato nazionale.

Dalla Lombardia alla Sicilia: nonostante differenze anche sostanziali nel mondo del lavoro e nella rete familiare, per le donne ritornare al lavoro dopo la nascita di un figlio sta diventando sempre più problematico in tutte le regioni d’Italia, anche in quelle dove solitamente l’occupazione femminile è maggiore rispetto alla media nazionale. Alla base restano i problemi da affrontare quando si prova a conciliare carriera e cura della famiglia nei primi anni di vita di un bambino tra costi alti per i nidi, stipendi bassi e nonni, spesso ancora in servizio, che non possono badare ai nipoti. 

In Italia le dimissioni volontarie per genitori con figli fino a 3 anni d’età sono state 37.738. Secondo i dati forniti dall’Ispettorato nazionale del lavoro le donne che si sono licenziate sono state 29.879. Tra le mamme, appena 5.261 sono i passaggi ad altra azienda, mentre tutte le altre (24.618) hanno specificato motivazioni legate alla difficoltà di assistere il bambino (costi elevati e mancanza di nidi) o alla difficoltà di conciliare lavoro e famiglia. Per gli uomini la situazione è capovolta: su 7.859 papà che hanno lasciato il lavoro, 5.609 sono passaggi ad altra azienda e solo gli altri hanno deciso di farlo per difficoltà familiari. I dati si riferiscono al 2016, gli ultimi a disposizione di ministero del Lavoro e Ispettorato. 

La Lombardia è in testa con un numero altissimo di dimissioni convalidate, ben 8.850. Tra queste 3.757 sono dovute al passaggio ad altra azienda, ma tutte le altre (5.093) sono legate a motivi familiari. Tra le donne, che sono state 6.767, quasi la metà (3.105) si sono licenziate per mancato accoglimento al nido, assenza di parenti di supporto e elevata incidenza dei costi di assistenza del pargolo. 

Tante, ancora troppe se si considera che la Lombardia garantisce una delle reti di nidi e supporto tra le più sviluppate in Italia. Non va meglio in Veneto, seconda regione per numero di dimissioni, 5.008 (3.658 mamme e 1.350 papà). In questo caso, a differenza delle altre zone d’Italia, sono 770 i genitori che sottolineano come nella scelta abbia inciso la mancata concessione del part time e la modifica dei turni. Terze, in questa classifica infelice, sono il Lazio (3.616) e l’Emilia Romagna (3.609), quasi a pari merito nonostante le enormi differenze sociali e lavorative dei due territori. In questi casi hanno scelto di perdere il lavoro perché non riuscivano a conciliarlo con la famiglia rispettivamente 1.519 e 1.243 donne. 

Considerando i dati aggregati, il numero più alto di dimissioni è stato registrato al Nord, 23.117, mentre al Centro sono state 8.562 e al Sud 6.059. In generale i cambi di azienda non incidono così tanto (al Nord sono stati circa 8.000). Ma al Sud sono davvero pochissimi, appena 350. Fanalino di coda è la Calabria. Nonostante il numero di abitanti, le dimissioni sono state appena 517. Si fa presto a considerare che in questo caso incide tanto la disoccupazione femminile. 

Analizzando la qualifica delle donne che lasciano il lavoro emerge chiaramente come meno guadagni più sei sola e “costretta” a dimetterti. Ecco che tra operaie e impiegate si arriva a 28.102 convalide, mentre quelle di dirigenti e quadri sono state 680. Con uno stipendio che a stento raggiunge i mille euro i conti sono presto fatti: ne spendi almeno 500 tra tata e nido e dai 500 che avanzano bisogna ancora sottrarre costi base come pannolini e prodotti per l’igiene. Sono in molte a pensare che non valga la pena stare almeno 7 ore lontano da casa per guadagnare così poco e non dedicarsi al figlio.  

Ma questo è un circolo vizioso perché dimettendoti perdi anche alcuni benefici come il Bonus baby sitter: risollevarsi e cercare un altro impiego diventa così ancora più difficile

Parte la missione spaziale (segreta) «Zuma»: il vettore è di Elon Musk. - Leopoldo Benacchio



La segretissima missione spaziale americana chiamata Zuma è finalmente partita, dopo un paio di rinvii nei mesi scorsi. Il vettore però non è Nasa, come ci si aspetterebbe almeno qui in Europa per un satellite in cui tutto, a parte lo strano nome, è secretato, ma la compagnia SpaceX, di Elon Musk.

Il satellite è partito come carico pagante, come si dice in campo spaziale, del Falcon 9, il vettore oramai collaudatissimo della compagnia, al suo ventunesimo decollo e successivo rientro a terra del primo stadio perfettamente riuscito. Per inciso Space X è la prima e unica compagnia, al momento, a poter vantare questo record di riutilizzo di parti così importanti, ingombrati e costose. Questa particolarità sviluppata da SpaceX va vista come la vera idea rivoluzionaria della compagnia, che ha come obiettivo finale la costruzione di razzi vettori completamente riutilizzabili, progetto che sta portando avanti con notevole successo dato che ha già riutilizzato cinque volte, per lanci successivi, un primo stadio del razzo vettore che era stato recuperato da un volo precedente.

Sembra insomma che la tanto decantata politica del low cost, perseguita con scarso successo da Nasa con lo Space Shuttle negli anni Ottanta e Novanta, che alla fine costò più di una missione convenzionale per i tanti guasti e rinvii, sia realizzata solo oggi proprio dal vulcanico imprenditore Musk, che con le automobili Tesla, le batterie elettriche per la casa dello stesso marchio e SpaceX ha realmente contribuito a rinnovare un mondo un po’ asfittico e povero di intraprendenza.

Il lancio alle ore 2 italiane.
Il lancio di Zuma è comunque avvenuto alle ore 2 italiane di questa mattina e dopo 2 minuti e 19 secondi il primo stadio si è separato dal secondo e ha iniziato a tornare a terra, dove è arrivato dopo otto minuti dal decollo. Allo stesso tempo il secondo stadio ha continuato verso lo spazio e portato in orbita il satellite realizzato dalla Northrop Grumann, un fornitore industriale storico della difesa americana. L’altezza raggiunta dal satellite viene classificata come Leo, orbita bassa in parole povere, sui 400 chilometri circa, come la Stazione Spaziale Internazionale.

Il «mistero» di SpaceX.
È la compagnia costruttrice che ha scelto la SpaceX come vettore, dopo aver stabilito che era quella che presentava il miglior prezzo, in condizioni di sicurezza del lancio ineccepibili.
Fin qui tutto bene insomma e occorre dire che il fatto che questa nuova ed efficiente compagnia spaziale privata utilizzi la piattaforma 39esima del centro spaziale Nasa intitolato a Kennedy fa una certa impressione, dato che fu quello da cui partirono i voli Apollo per la Luna dalla fine degli anni Sessanta.

Pochi gli indizi per capire cosa debba fare il satellite e chi lo gestirà, se una agenzia civile o militare, certo il segreto fa pensare a questa seconda ipotesi. L’orbita, anche se la si conosce pure questa approssimativamente, può starci per entrambe le ipotesi e per compiti di sorveglianza o trasmissione, tipicamente. In ogni modo SpaceX ha già portato due volte nello spazio carichi militari: in particolare, lo scorso settembre, ha messo attorno alla terra l’aereo navetta militare X37B, una specie di mini shuttle. La caccia al vero scopo della missione spaziale Zuma è appena cominciata ma forse il vero segreto è semplicemente che anche la Difesa Usa, o qualche altro importante Ente che ha bisogno di un occhio nello spazio, vuole spendere un po’ meno.

http://www.ilsole24ore.com/art/tecnologie/2018-01-08/parte-missione-spaziale-segreta-zuma-vettore-e-elon-musk-165744.shtml?uuid=AEFnQ6dD

Leggi anche:

http://www.ilsole24ore.com/art/motori/2017-12-20/elon-musk-non-abbiamo-bisogno-partner-ma-se-qualcuno-si-fa-avanti-non-chiudiamo-porta-100632.shtml?uuid=AEaMrDVD

e anche: 

http://www.ilsole24ore.com/art/motori/2018-01-04/tesla-delude-attese-nuovi-ritardi-la-model-3-ma-vendite-continuano-ad-aumentare-113308.shtml?uuid=AEbp52aD

Legge Fornero, canone Rai e tasse universitarie: fact-checking alle promesse dei partiti. - Marzio Bartoloni, Andrea Biondi, Davide Colombo.



Cancellare la riforma Fornero sulle pensioni, abolire il canone Rai, azzerare le tasse universitarie. Queste, rispettivamente da centro-destra, Pd e Liberi e uguali, le ultime proposte lanciate nei giorni scorsi in vista delle elezioni del 4 marzo. Tre promesse che tuttavia devono fare i conti con l’impatto sul bilancio pubblico. Il Sole 24 Ore è andato a vedere quanto costerebbero queste promesse elettorali, cominciando con quella più onerosa, cioè l’abolizione della riforma Fornero.

1) La riforma Fornero vale ancora 20 miliardi di risparmi l’anno.Nei primi anni di piena applicazione, tra il 2013 e il 2016, la Riforma Fornero avrebbe garantito una minore spesa pensionistica per circa un punto di Pil l'anno (15-16 miliardi). Sono numeri della vecchia relazione tecnica al decreto Salva Italia (201/2011) che andrebbero alleggeriti dal costo delle salvaguardie esodati che si sono succedute in quegli anni e nei successivi fino all'ottava e ultima (11 miliardi circa di maggiore spese cumulata) varata con l'ultima legge di Bilancio 2017, quella che ha introdotto anche le nuove forme di flessibilità, le nuove 14esime, l'Ape e il cui costo è stato stimato in 7 miliardi nei primi tre anni di applicazione e 26 nei primi dieci, sempre stando ai dati della relazione tecnica della penultima legge di bilancio confermate dalle stime della Ragioneria generale dello Stato.

Al netto di queste misure di maggiore spesa previdenziale, le regole della riforma 2011 dovrebbero garantire comunque risparmi attorno ai 20 miliardi annui tra il 2019 e il 2020, con una proiezione di 200 miliardi nei prossimi dieci anni. Questo numero comprende anche la piena applicazione degli stabilizzatori automatici che modificano i requisiti di pensionamento all'aspettativa di vita (altro strumento che molti vorrebbero depotenziare) e che fa scattare a 67 anni la vecchiaia dal 2019.   

Superare la Fornero significa confrontarsi con questi numeri che, naturalmente, possono essere anche solo in parte aggrediti se quello che in campagna elettorale viene venduto come “dopo-Fornero” si limitasse a misure più ridotte. Un altro set di numeri di partenza che bisogna tenere in mente è invece legato alla spesa per pensioni a legislazione vigente.

Se non si cambia nessuna regole si passa dai 264,6 miliardi dell'anno scorso ai 286,7 del 2020 (22 miliardi in più; +8% secondo la Nota di aggiornamento al Def dello scorso settembre). Siamo attorno al 15% del Pil, un livello stabilizzato dalle ultime riforme, non solo dalla Fornero, secondo tutti i principali organicismi internazionali di valutazione (dall'ocre al Fmi).

Ma quel dato è esposto a un elevato rischio di rialzo: con l'attuale tasso di natalità nei prossimi 20 anni è altamente probabile che l'Italia perderà 3 milioni e mezzo di individui in età lavorativa (15-69 anni), proprio negli stessi anni in cui le assai popolose coorti dei baby boomers andrà in pensione. Tra il 2040 e il '45 salirebbe al 95-100% il numero di pensioni in rapporto al numero di occupati, oltre dieci punti al di sopra il livello di questi anni. La spesa per pensioni in rapporto al Pil salirebbe di oltre due punti, verso il 18%. 

Si dirà che la campagna elettorale si gioca nelle prossime 7 settimane, ma quando si toccano le pensioni è bene guardare agli impatti sui conti nei prossimi 30, 50, 70 anni.

2) L’abolizione del canone costerebbe 1,7 miliardi.
Un miliardo e 700 milioni. Stando a documenti ufficiali e bilanci intervenire sul canone vuol dire prevedere in sostanza compensazioni di questo tipo per la Rai. Del resto, nel momento stesso in cui l'indiscrezione è diventata di dominio pubblico è stato evidenziato come ci fosse la consapevolezza di richiedere allo Stato un miliardo e mezzo-due miliardi nella fase transitoria. Utile per capire le dimensioni economiche della questione rifarsi all'audizione in Commissione di Vigilanza Rai, lo scorso 6 settembre, del viceministro per l'Economia Enrico Morando secondo cui “per il 2018 le risorse da stanziare per la Rai, nel bilancio dello Stato, vengono calcolate in riferimento alle entrate derivate dal canone, stimate dal dipartimento delle Finanze in 1,881 miliardi.

La stima “si basa su un canone unitario di 90 euro (cosa ancora non certa allora, ma poi diventata certa con la legge di bilancio, ndr.) e l'importo, rapportato alla stima definitiva di entrata del 2016, pari a 1,681 miliardi, genera un plus di circa 200 milioni di euro da destinare per il 50 per cento alla Rai”. Per l'azienda, ha aggiunto Morando, è previsto uno stanziamento “di 1,7 miliardi di euro, una somma già al netto della quota del 5 per cento trattenuta dallo stato ai sensi delle manovre di finanza pubblica in vigore”. Va comunque tenuto in considerazione che l'inserimento del canone in bolletta ha prodotto un recupero dell'evasione fra 400 e 500 milioni. Dal 2019 questo introito, ora qualificato come extragettito andrà totalmente alla Rai. Una parte importante dell'idea di abolire il canone è legata all'eliminazione dei tetti pubblicitari per la Rai più stringenti rispetto a quelli della tv commerciale (12% orario e 4% settimanale contro un “tetto” orario del 18% di spot e del 15% giornaliero. Certo, con il varo del nuovo contratto di servizio quinquennale, con cui si declinano i vari impegni della Rai, il quadro diventa sicuramente più complesso.

3) Togliere le tasse a 1 milione e mezzo di studenti costa 1,6 miliardi. 
L'università a zero tasse per gli studenti, proposta dal presidente del Senato Pietro Grasso e leader di Liberi e Uguali, costa oltre un miliardo e mezzo e potrebbe garantire l’esenzione dalla tasse universitarie - in media 1200 euro l’anno con costi più alti al Nord rispetto al Centro Sud - a oltre un milione di studenti . Visto che sono circa 500-600mila gli studenti che dovrebbero già rientrare nell’esenzione (la no tax area) che scatta in questo anno accademico. Stime queste che potrebbe, però, essere riviste al rialzo visto che la gratuità potrebbe avere un effetto rimbalzo provocando una corsa alle immatricolazioni.

La proposta del leader di Leu quella cioè di «avere un’università gratuita, come avviene già in Germania e tanti altri Paesi europei» tocca in effetti un punto molto sensibile. Oggi l’Italia detiene il record negativo assoluto - superata solo dal Messico - per il numero di laureati tra i Paesi più sviluppati: solo il 18%, contro il 37% della media Ocse. Una vera emergenza a cui il Governo attuale ha cercato di dare una prima risposta introducendo da questo anno accademico una no tax area (zero tasse appunto) per chi ha un Isee sotto i 13mila euro e tasse calmierate per chi non supera la soglia dei 30mila euro. Una novità di cui dovrebbero beneficiare circa 350mila famiglie, ma che secondo un’indagine del Sole 24 Ore sale a 500-600 mila nuclei visto che molti atenei hanno stabilito limiti di esenzione a 15mila, se non addirittura a 23mila euro. A questa prima platea con la proposta di Grasso - se mai fosse attuata - si aggiungerebbe oltre un milione di studenti che oggi invece pagano le tasse. In tutto gli iscritti alle università statali sono infatti oltre un milione e mezzo.

Ma quanto si paga oggi per frequentare l’università? Secondo gli ultimi dati raccolti dagli studenti dell’Udu (l’Unione degli universitari) nell’ultimo decennio sulla base dei numeri ufficiali dell’anagrafe del Miur la media in Italia nel 2015/2016 del contributo pagato dagli studenti si è attestata a 1248 euro. Per una raccolta di gettito da parte delle università che in quell’anno è stata di 1,612 miliardi e l’anno successivo - avverte il Miur - è salita a 1,8 miliardi. Le tasse tra l’altro sono aumentate sensibilmente negli ultimi anni (+473 euro, il 61% in 10 anni sempre secondo l’Udu). E con differenze importanti tra le aree del Paese. In particolare nel 2015/2016 le tasse medie al Nord ammontavano a 1501 euro, mentre al Centro valgono 1196 euro, fino al Sud dove il contributo medio pagato dagli studenti non supera i mille euro (963 euro per l’esattezza).

Dal 2018 il Governo ha messo sul piatto 105 milioni all’anno per finanziare la nuova no tax area, cifra che gli atenei considerano però troppa bassa per coprire il mancato gettito del contributo degli studenti. E così molte università con i regolamenti sulle tasse universitarie per coprire i costi in più hanno aumentato le tasse per i redditi più alti e per gli studenti fuori corso. Nei prossimi mesi comunque - quando si avrà il conto esatto delle nuove iscrizioni - si conoscerà meglio l’impatto economico di questa nuova riforma. 
Ma cosa accade nel resto d’Europa? In Germania l’università è pressoché gratuita a eccezione di alcuni Lander. Danimarca, Finlandia, Svezia, Norvegia non applicano tasse agli studenti Ue. In Austria, niente tasse per gli europei, circa 700 euro a semestre per gli altri. In Francia la laurea triennale costa 189 euro l'anno, la magistrale 260, ma ci vogliono altri 213 euro per le coperture previdenziali. Più robusta la tassazione in Spagna: da 700 fino a 2.000 euro l'anno per la triennale (più o meno come in Portogallo), fino a quasi 4.000 per la magistrale. Quasi 2.000 euro anche nei Paesi Bassi.

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2018-01-08/la-riforma-fornero-vale-ancora-20-miliardi-risparmi-l-anno-124229.shtml?uuid=AEFFmldD