giovedì 1 maggio 2014

PER SCHIFICIO - Marco Travaglio - Il Fatto Q.-1 maggio 2014





Con tutto il rispetto per i malati di Alzheimer, si può dire che la scelta dei giudici sul servizio sociale di B. non poteva essere più azzeccata. Soltanto a persone prive di memoria la presenza di un simile badante, sia pure per appena quattro ore a settimana, può risultare tollerabile e scongiurare reazioni scomposte e gesti inconsulti fra i beneficiari, cioè fra le vittime. Quando gli storici del futuro cercheranno una spiegazione plausibile a quest’ultimo ventennio di storia italiana, penseranno a qualcosa di simile a un’epidemia di Alzheimer che obnubilò milioni di italiani, portandoli a sopportare e addirittura a votare una simile classe politica. Sarebbe ingiusto però circoscrivere il misterioso contagio agli elettori di Forza Italia, che secondo i sondaggi sono il 17-18%, cioè gli stessi che un anno fa votarono Pdl (22%), detratti i transfughi di Ncd (5%). Prendete per esempio Renato Schifani, con rispetto parlando.

L’altro giorno ha presentato un esposto all’Agcom per denunciare tutte le reti televisive in chiaro, da quelle Rai a quelle Mediaset a La7, perché a suo dire violerebbero la par condicio oscurando il Nuovo Centro Destra a vantaggio dei partiti maggiori. Pare si tratti dello stesso Schifani, chiedendo scusa alle signore, che il 15 febbraio 2000, quando il centrosinistra approvò la legge sulla par condicio, dichiarò: “La par condicio è una legge che ci allontana dall’Europa e ci avvicina al regime. La maggioranza vuol mettere il bavaglio alle opposizioni con una legge che fa dell’Italia l’unico Paese europeo in cui l’accesso al mezzo televisivo sarà paritario a tutti i partiti e non graduato, come nelle grandi democrazie. Le sinistre sferrano un duro colpo alla libertà di comunicazione, comprimono uno dei valori essenziali della democrazia, si macchiano di concorso esterno in comunismo e introducono regole tipiche di regimi totalitari”. Ciò che lo Schifani, parlando con pardon, non poteva proprio sopportare era che tutte le liste avessero diritto agli stessi spazi televisivi in campagna elettorale, senza riguardo per quelle che alle elezioni precedenti avevano preso più voti. Un principio che, se fosse valso nel 1994, avrebbe tagliato fuori Forza Italia da tutte le tv, visto che era appena nata. Ma il nostro sincero democratico se ne infischiava bellamente: tanto ormai Forza Italia c’era, e peggio per gli altri.

Così lo Schifani tornava sullo stesso concetto a ogni elezione. “La legge sulla par condicio – spiegò il 29 marzo 2008 – l’abbiamo sempre contestata perché appiattisce l’informazione ponendo sullo stesso piano piccoli e grandi partiti, con il rischio di deformare il consenso”. E il 2 febbraio 2013, mentre il Cainano imperversava a reti unificate, rincarò: “La legge sulla par condicio è ignobile”. Poi, il 18 novembre 2013, lasciò Forza Italia e aderì al Ncd. E subito uscì dal cono di luce dell’impero berlusconiano, che scoprì addirittura le sue vicende giudiziarie e lo restituì al suo peso specifico naturale: cioè zero. Fu così che il “principe del foro del recupero crediti”, come lo chiamava Filippo Mancuso, s’innamorò perdutamente della par condicio, specie nella parte che tutela i partitini. E così, mentre Angelino Jolie scopre di colpo la “macchina del fango” che tanto gli garbava quando inzaccherava gli altri, Schifani con rispetto parlando tuona contro “la grave violazione ai principi del pluralismo, della par condicio e della parità di accesso ai mezzi di informazione nei telegiornali e nei programmi di approfondimento di Rai, Mediaset e La7” a causa dei “ridotti tempi di notizia e di parola dedicati al Nuovo Centro Destra rispetto a quelli fruiti (sic) dalle altre forze politiche impegnate nella stessa competizione elettorale”. E invoca addirittura “i provvedimenti di legge”: pene esemplari per leso Ncd. Il tutto in base a una legge che ancora l’anno scorso giudicava “ignobile”. Bei tempi quando diceva che, con la par condicio, “le sinistre si macchiano di concorso esterno in comunismo”. Lui, comunque, s’è portato avanti col lavoro: infatti è indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. Anche per marcare la differenza fra il Nuovo Centro Destra e quello vecchio.


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UN INFILTRATO NEL MIGLIORE DEI MONDI: AMAZON, LO SFRUTTAMENTO CON IL SORRISO. - SAMIR HASSAN

amazon

Intervista. «En Amazonie. Un infiltrato nel migliore dei mondi»: il giornalista e scrittore Jean-Baptiste Malet racconta le tremende condizioni lavorative del gigante del commercio online che ha provato sulla sua stessa pelle. «Percorrevo oltre 20km a notte tra gli enormi scaffali».

La logi­stica è dive­nuto il set­tore pro­dut­tivo più stra­te­gico per il pro­fitto delle grandi mul­ti­na­zio­nali. La mobi­lità del capi­tale, non solo nella sua acce­zione finan­zia­ria ma nei ter­mini di tra­sporto su gomma, è il campo in cui si sta gio­cando la nuova par­tita degli imperi eco­no­mici. Rispetto alle forme clas­si­che del lavoro, così come le abbiamo cono­sciute nella seconda metà del secolo scorso, oggi la pro­du­zione viene costan­te­mente delo­ca­liz­zata: infrange con­fini e assolda nuovi schiavi del mer­cato, caval­cando ine­so­ra­bile verso est. Ato­mizza, aliena e sfrutta. Nono­stante i sor­risi dei mana­ger, le favole sull’economia buona ma malata e l’accattivante sim­pa­tia di cui sem­brano godere oggi alcune nuove potenze com­mer­ciali.

Come Ama­zon. «Il sor­riso sulle sca­tole di Ama­zon non è certo quello di chi ci lavora, nono­stante uno dei must dell’azienda sia pro­prio quello di inse­rire i suoi dipen­denti in una socia­lità arti­fi­ciale, fatta di regole, codici e senso di appar­te­nenza: la solita lita­nia dell’essere una “grande fami­glia”».

Ama­zon non è però solo un’azienda: «è un sistema di pro­du­zione unico», afferma Jean-Baptiste Malet, gio­vane repor­ter fran­cese in Ita­lia per pre­sen­tare il suo libro En Ama­zo­nie. Un infil­trato nel “migliore dei mondi” (Kogoi Edi­zioni).
L’incontro è avve­nuto durante la fiera della pic­cola edi­toria a Roma. Oggetto dell’intervista è stato l’universo cono­sciuto durante la sua inchie­sta: una pre­ziosa testi­mo­nianza rico­struita dopo essersi fatto assu­mere (tra­mite agen­zia inte­ri­nale) dal colosso dell’«e-commerce» durante le festi­vità nata­li­zie dello scorso anno.

«Sono stati 3 mesi molto intensi. Facevo il pic­ker nel turno di notte, 8 ore con due pause da 20 minuti; per­cor­revo oltre 20km a notte tra gli enormi scaf­fali dell’han­gar di Mon­té­li­mar, nel dipar­ti­mento della Drôme. Ma il pro­blema reale non era solo la stan­chezza. Era riu­scire a man­te­nere i livelli di pro­dut­ti­vità richiesti».

Inu­tile dire che il libro di Malet, iro­nia della sorte, si trova anche su Ama­zon. Nulla di strano a pen­sarci bene: l’economia glo­bale inghiotte ogni pro­dotto, anche quelli che la cri­ti­cano. Para­fra­sando Hum­ph­rey Bogart nella cele­bre pel­li­cola di Richard Brooks L’ultima minac­cia, «è il capi­ta­li­smo, bel­lezza. Il capi­ta­li­smo! E tu non puoi farci niente. Niente».
Ama­zon si com­piace di offrire la pos­si­bi­lità ai suoi utenti di acqui­stare como­da­mente con pochi click. Cosa c’è die­tro lo schermo? Un’organizzazione del lavoro altret­tanto digitalizzata?
Il sito di Ama­zon è il fiore all’occhiello del pro­getto. Quello che è dif­fi­cile com­pren­dere dall’interfaccia è che quella è l’unica com­po­nente infor­ma­tiz­zata. Lo stoc­cag­gio, il carico e l’imballaggio di ogni pro­dotto è affi­dato alla fatica di chi ci lavora: mani che spo­stano, brac­cia che alzano e gambe che tra­spor­tano. Nes­suna crea­zione robo­tica.
Nei suoi sta­bi­li­menti il mas­simo dell’informatica pre­sente sono i tor­nelli dove si tim­bra il pro­prio badge, i car­relli e i ripe­ti­tori wifi che ci fis­sano dalle alte scaf­fa­la­ture su cui viene sti­pata la merce. Cam­mi­nando in un han­gar di Ama­zon ci si accorge che l’unica mac­china com­plessa che ci lavora è l’uomo.
Ama­zon viene pre­sen­tato come un nuovo modello pro­dut­tivo. È così?
Ama­zon uti­lizza in modo nuovo vec­chi modelli di gestione della pro­du­zione, tipici del XX secolo. Ma i poli indu­striali del Nove­cento, sep­pur legati a un’idea di mas­si­miz­za­zione del pro­fitto, per­met­te­vano ai dipen­denti un’autonomia rela­zio­nale, un’autogestione dei rap­porti per­so­nali. In Ama­zon que­sto non accade, anzi; c’è un forte con­trollo, inva­sivo, sia rispetto ai rap­porti per­so­nali che alla per­for­mance lavo­ra­tiva dei dipen­denti. Per­sino ai mana­ger non è richie­sta la loro effet­tiva pro­fes­sio­na­lità, la loro spe­ci­fica com­pe­tenza, ma uno sforzo con­giunto per con­trol­lare i livelli di pro­dut­ti­vità dei lavo­ra­tori subor­di­nati. Il lavoro e le intel­li­genze delle per­sone ven­gono sacri­fi­cati sull’altare della pro­dut­ti­vità e del con­trollo di que­sta pro­dut­ti­vità. Da que­sto punto di vista Ama­zon ha cam­biato la tra­di­zio­nale forma del lavoro.
Ma il punto forte di Ama­zon è la pre­ca­rietà dif­fusa. Inol­tre, apre i suoi sta­bi­li­menti in zone logi­sti­ca­mente ben ser­vite, ovvero è neces­sa­rio essere in pros­si­mità di una rete stra­dale efficiente. La zona indi­vi­duata deve inol­tre regi­strare un alto tasso di disoc­cu­pa­zione. Mag­giore è il tasso di disoc­cu­pa­zione, mag­giore è la con­cor­renza tra i lavo­ra­tori e minore il sala­rio di base. Infine, come le altre grandi mul­ti­na­zio­nali, sfrutta la bolla finan­zia­ria che ha ter­re­mo­tato l’economia glo­bale. Nei primi anni Ama­zon non gene­rava pro­fitti di rilievo, poi­ché si carat­te­riz­zava come inter­me­dia­rio di com­mer­cio e non come pro­dut­tore. Nono­stante ciò gli squali della finanza scel­sero di inve­stire sulle sue azioni.
Per­ché?
Il motivo è che anno dopo anno, spe­di­zione dopo spe­di­zione, il sistema Ama­zon stava distrug­gendo il pic­colo com­mer­cio indipendente.
Un esem­pio, dun­que, della «distru­zione crea­trice» cara a Schumpeter?
Sì. Chi inve­stiva sulle azioni di Ama­zon sapeva che una nuova eco­no­mia come quella avrebbe fago­ci­tato le reti com­mer­ciali di pros­si­mità nel giro di pochi anni, il che avrebbe per­messo all’impresa di Jeff Bezos di ope­rare, in un futuro molto pros­simo, in con­di­zione di asso­luto mono­po­lio.
Senza la Borsa, senza Wall Street, senza gli spe­cu­la­tori finan­ziari, Ama­zon sarebbe fal­lita nel giro di pochi anni.
Nella tua inchie­sta parli di un accu­rato mec­ca­ni­smo di con­trollo (che arriva a disporre anche di nume­rosi vigi­lan­tes) teso a svi­lup­pare nei lavo­ra­tori la con­vin­zione di essere ele­menti inter pares della fami­glia Amazon.…
È così. Il sistema di inte­gra­zione stu­diato da Ama­zon, e rias­sunto nel motto «work hard, have fun, make history» (lavora duro, sarai pre­miato, stai facendo la sto­ria), si muove lungo un dop­pio bina­rio. Da un lato il cosid­detto have fun, ovvero la pos­si­bi­lità per l’azienda di orga­niz­zare gra­tui­ta­mente la vita sociale dei dipen­denti den­tro lo sta­bi­li­mento, ren­dendo vana, inu­tile e costosa la pos­si­bi­lità di autor­ga­niz­zarla fuori dall’han­gar. Non tutti i lavo­ra­tori ne sono amma­liati, ma tutti usu­frui­scono di que­ste tro­vate: regali durante le festi­vità, spet­ta­coli, ini­zia­tive a sor­presa all’uscita dal turno, con­corsi interni e rico­no­sci­menti pub­blici per la bra­vura lavo­ra­tiva. Tutti orpelli che devono sal­dare la fedeltà del lavo­ra­tore all’azienda, spin­gen­dolo a dare il mas­simo in ter­mini di pro­dut­ti­vità. D‘altro canto, se non dovesse bastare la sud­di­tanza psi­co­lo­gica a «pla­smare» il lavo­ra­tore, la pre­senza del con­trollo diviene tan­gi­bile, mate­ria­liz­zan­dosi nelle per­qui­si­zioni cam­pio­na­rie ai lavo­ra­tori (per pos­si­bile tac­cheg­gio!), nell’essere trat­tato con sprez­zante fred­dezza dalla vigi­lanza, nel sen­tirsi pen­dere sul capo la spada di Damo­cle del con­trollo aziendale.
Quale com­po­si­zione sociale lavora tra gli scaffali?
In Fran­cia, dove ci sono 4 sta­bi­li­menti, ho avuto modo di cono­scere solo quanto avve­niva in quello di Mon­té­li­mar. In gene­rale posso dire che la situa­zione fran­cese è assai dif­fe­rente ad esem­pio da quella tede­sca, per­ché non c’è un cri­te­rio d’assunzione iden­tico per i diversi paesi. Men­tre in Ger­ma­nia lavo­rano in mag­gio­ranza gio­vani di diverse nazio­na­lità (per lo più greci, spa­gnoli, por­to­ghesi e tur­chi) e c’è una forte richie­sta di mano­do­pera (9 sta­bi­li­menti), in Fran­cia la mag­gior parte dei lavo­ra­tori sono gio­vani fran­cesi che hanno tra i 25 e i 30 anni. In par­ti­co­lare, per ciò che con­cerne lo sta­bi­li­mento di Mon­té­li­mar, i migranti sono pochi (e per lo più magh­re­bini); forse anche per­ché la zona della Drôme non ha un’economia così fio­rente e, tro­van­dosi nel cuore della Fran­cia, non è un pas­sag­gio tran­si­to­rio dei flussi migratori. 

http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=13300

Dal Giappone agli Usa: barca sulla spiaggia, è un relitto dallo tsunami?

Dal Giappone agli Usa: barca sulla spiaggia, è un relitto dallo tsunami?

Dal Giappone agli Usa: barca sulla spiaggia, è un relitto dallo tsunami?

Dal Giappone agli Usa: barca sulla spiaggia, è un relitto dallo tsunami?

Dal Giappone agli Usa: barca sulla spiaggia, è un relitto dallo tsunami?

Una scialuppa interamente ricoperta di vegetazione e strani organismi marini che gli scienziati stanno analizzando per prevenire eventuali rischi. Il misterioso relitto è riemerso dall'Oceano Pacifico vicino la spiaggia di Ocean Lake, nello stato di Washington, a nord della costa occidentale degli Stati Uniti. Su di esso ci sono iscrizioni in lingua asiatica su cui la polizia sta investigando e per questo è stata contattata anche l'Ambasciata giapponese. Secondo le autorità, l'imbarcazione potrebbe essere stata inghiottita dal violento tsunami che ha devastato il Giappone nel 2011 e riemersa solo ora dalle acque. Si tratta del secondo caso di ritrovamento in pochi giorni. Nella galleria, le foto dell'Ocean Shore Police Department.

http://www.repubblica.it/ambiente/2014/04/30/foto/dal_giappone_agli_usa_relitto_sulla_spiaggia_forse_viene_dallo_tusnami-84907698/1/?ref=fbpa#1

Morte Magherini, 4 carabinieri tra i 9 indagati.

Riccardo Magherini morte Firenze 2
Riccardo Magherini


Si profila una nuova autopsia. I militari sono indagati con l'ipotesi di accusa di omicidio preterintenzionale.

Sono indagati i quattro carabinieri che intervennero per arrestare Riccardo Magherini, morto il 3 marzo scorso a Firenze. Hanno ricevuto un avviso di garanzia anche i cinque sanitari che portarono i primi soccorsi. Per i militari l'accusa sarebbe di omicidio preterintenzionale mentre per i sanitari di omicidio colposo. La conferma dell'avviso di garanzia per i nove indagati arriva dall'avvocato Francesco Maresca, a cui si sono rivolti i quattro carabinieri. Il legale  ribadisce "totale e assoluta fiducia nel lavoro del pm Luigi Bocciolini, che farà chiarezza".
L'iscrizione nel registro degli indagati dei quattro carabinieri e dei cinque sanitari coinvolti nell'inchiesta sulla vicenda è la conseguenza della denuncia presentata dalla famiglia Magherini, in procura a Firenze. La denuncia, presentata con il legale della famiglia Magherini, l'avvocato Fabio Anselmo, era stata annunciata domenica scorsa. Nel documento venivano ipotizzati i reati ora contestati dalla procura: omicidio preterintenzionale per i carabinieri e omicidio colposo per i sanitari. L'iscrizione nel registro degli indagati consentirà ai carabinieri e ai sanitari di nominare propri consulenti in caso di nuovi accertamenti tecnico-scientifici  Dopo la denuncia, la procura di Firenze ha deciso di sequestrare la salma e di bloccare il permesso per la sua sepoltura. Lo dice Fabio Anselmo, legale della famiglia Magherini, per il quale questo presuppone che "sarà effettuata una nuova autopsia".
Attraverso il loro legale, intanto, i carabinieri coinvolti invitano tutti "ad abbassare i toni e a non speculare sulla vicenda del povero Magherini", ritenendo che "debba cessare questo battage mediatico". I militari negano "ogni addebito" e Maresca annuncia la nomina di un consulente per effettuare ulteriori accertamenti.
''L'intervento dei carabinieri - spiega Maresca - è stato svolto nell'interesse del cittadino e dei cittadini, con tutte le precauzioni del caso, secondo il protocollo, nel pieno rispetto della legge come sempre fa l'Arma dei carabinieri. Magherini appariva fortemente alterato - prosegue il legale - e i militari sono intervenuti prima di tutto nel suo interesse, per mettere in sicurezza la situazione e consentire, prima possibile, l'intervento dei sanitari''. Ribadendo la vicinanza alla famiglia Magherini, Maresca, insieme ai carabinieri, ritiene ''si debba immediatamente interrompere questa ripetuta diffusione mediatica circa comportamenti non consoni dei militari che negano fortemente ogni addebito, e si mettono a disposizione del pm per ogni accertamento''. L'avvocato diffida, pertanto, ''chiunque anche sui social network, dove è stata sviluppata una campagna di attacco verso i militari, che va ad offendere l'onore e il decoro personale e professionale degli stessi. Ognuno risponderà delle dichiarazioni che fa e del modo con il quale vengono utilizzate queste dichiarazioni''

Derivati, firme false e dichiarazioni “estorte”, la sentenza Eurobox che condanna Unicredit. - Fiorina Capozzi e Gaia Scacciavillani

Derivati, firme false e dichiarazioni “estorte”, la sentenza Eurobox che condanna Unicredit


Il verdetto di primo grado del Tribunale civile di Salerno non è bastato a salvare l'azienda di imballaggi dal fallimento, ma ha fatto un po' di luce sul rapporto tra banche, imprese e finanza tossica. Anche se i quasi 2 milioni di euro oltre agli interessi e alle spese legali che l'istituto milanese è stato condannato a restituire, difficilmente ridaranno un lavoro alla quarantina di ex dipendenti della famiglia Mignano.

Troppo tardi. La sentenza di primo grado del Tribunale Civile di Salerno che il 19 febbraio 2014 ha dato ragione alla Eurobox contro Unicredit, se mai avesse potuto farlo, non è riuscita salvare dal fallimento la società di imballaggi metallici arrivato il 13 marzo scorso. Ma almeno ha fatto un po’ di luce sul rapporto tra banche, imprese e derivati che, in questo caso, è passato anche attraverso firme false e autorizzazioni “estorte”. Anche se i quasi 2 milioni di euro oltre agli interessi e alle spese legali che la banca è stata condannata a restituire a Eurobox, difficilmente ridaranno un lavoro alla quarantina di ex dipendenti della famiglia Mignano che all’inizio della storia, nel 1999, lavoravano per una piccola, ma promettente realtà imprenditoriale (31mila euro di utili su 5,8 milioni di euro di fatturato, con un debito bancario di 1,2 milioni) e che ora sono in mezzo ad una strada. Per di più in una regione, la Campania, dove il lavoro è una merce rara.
La storia è scritta nero su bianco nella sentenza che ilfattoquotidiano.it ha potuto consultare e secondo la quale i contratti con cui Unicredit ha venduto 28 derivati alla Eurobox tra il 2000 e il 2004, non sono validi. Si tratta di prodotti finanziari altamente sofisticati e rischiosi che, lamenta l’azienda, “a dire della banca avrebbero eliminato ogni rischio e assicurato la ‘copertura’ relativa agli affidamenti concessi (quasi 3 milioni di euro, ndr)”. Ma che hanno invece “avuto esiti ampiamente negativi, causando alla società perdite incalcolabili, pari a circa 4 milioni di euro per il solo danno emergente, comprensivo della sorta capitale persa e degli interessi addebitati”, come si legge nel documento nella parte dedicata alle rivendicazioni di Eurobox.
LA FIRMA APOCRIFA SUI CONTRATTI - Alla base delle operazioni, i contratti quadro siglati dalle parti e dai quali dipende la validità delle successive operazioni, ma anche la relativa dichiarazione di operatore qualificato sottoscritta dalla società. Ed è proprio qui che mettono il dito i giudici avallando la posizione di Eurobox. Perché dei due contratti quadro prodotti dalle parti uno è risultato “a firma apocrifa”, quindi falso, in seguito a un accertamento di autenticità mediante consulenza grafica d’ufficio “che ha concluso per la natura apocrifa della firma disconosciuta” dal rappresentante legale della società. E, dunque è “da ritenersi inesistente”. Invece per quanto riguarda il secondo, non disconosciuto, i giudici notano che le operazioni poi realizzate non sono affatto quelle indicate nell’accordo, ma al contrario “presentano caratteristiche strutturali molto più complesse”. In sostanza “la funzione del contratto quadro, consistente nel regolamentare operazioni elementari che la banca avrebbe posto in essere sulle oscillazioni dei tassi di cambio, non ha alcuna attinenza con i prodotti finanziari posti in essere altamente sofisticati e difficilmente comprensibili, basati su di una ‘complessa combinazione di opzioni, parte in acquisto e parte in vendita’ che divenivano sempre più ‘criptici’ e scarsamente trasparenti (…) tanto da vanificare la funzione di copertura”, come scrivono i magistrati sintetizzando la ricostruzione del consulente tecnico d’ufficio. Dall’inquietante ricostruzione, la conclusione circa “la nullità delle operazioni finanziarie, che risulta supportata dall’inesistenza di un contratto quadro sia per i derivati appartenenti alla categoria swap, data la falsità della firma sul contratto quadro disconosciuto, sia per i derivati riconducibili alle opzioni strutturate, data la discrasia tra la previsione relativa all’oggetto dei contratti specifici contenuta nel programma del contratto quadro non disconosciuto e le operazioni in titoli, di tutt’altra natura, concretamente poste in essere”.
E L’ESTORSIONE DELLA DICHIARAZIONE DI COMPETENZA FINANZIARIA - Ma non finisce qui. C’è anche la questione della dichiarazione di “operatore qualificato”. Unicredit, infatti, si era appellata all’artico 31 del Regolamento Consob in base al quale, tra il resto, la nullità dei servizi prestati da un intermediario senza un contratto non si applica nei rapporti tra intermediari autorizzati e operatori qualificati. Definizione, quest’ultima, che oltre agli operatori finanziari include “ogni società o persona giuridica in possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari espressamente dichiarata per iscritto dal legale rappresentate”. Permettendo così alla banca di effettuare transazioni su derivati senza preventive autorizzazioni da parte del cliente. E qui ricasca l’asino. Tra i documenti agli atti c’è infatti una prima dichiarazione di operatore qualificato che “è uno dei tre documenti disconosciuti e risultati a firma apocrifa. Come tale da ritenersi inesistente”, si legge ancora nel documento. Ce n’è poi una seconda, datata 26 aprile 2001, che però, sempre secondo i giudici “è stata indotta dalla banca, la quale era perfettamente a conoscenza della sua contrarietà al vero”. La prova l’ha fornita la testimonianza di un quadro direttivo dell’allora Unicredit Banca d’Impresa che all’epoca era gestore dei rapporti tra la banca e le imprese clienti. “Il teste ha confermato di aver chiesto alla società di dichiararsi operatore qualificato contestualmente alla stipula dei contratti swap nell’anno 2000; ha aggiunto che la società Eurobox srl aveva comunicato alla banca, sin dall’inizio del rapporto, la non conoscenza degli strumenti finanziari ed in particolare dei contratti swap e di aver illustrato di quali prodotti si trattasse, la loro struttura ed i rischi”. E se l’organo amministrativo della società non era in grado di capire il funzionamento degli strumenti più semplici, è la deduzione dei giudici, “a maggior ragione non poteva avere alcuna capacità di comprensione della complessa struttura delle altre e più sofisticate operazioni”.
LA CONDANNA E IL RISARCIMENTO - Da qui la condanna a Unicredit alla restituzione di 1.985.670 euro alla società “ a titolo di indebito oggettivo conseguente alla nullità delle operazioni in derivati”, oltre agli interessi, alle spese processuali nonché a quelle della consulenza tecnica d’ufficio. Niente da fare, invece, per quanto riguarda la richiesta di risarcimento dei danni subiti (quantificati in 2 milioni) in conseguenza primo delle operazioni nulle, secondo del ritiro degli affidamenti e, terzo, delle segnalazioni che Unicredit aveva fatto alla Centrale Rischi della Banca d’Italia. Questo a causa di questioni meramente tecniche. Per quanto riguarda il primo punto, il rifiuto è motivato proprio della nullità del contratto che esclude la responsabilità precontrattuale. Sulle conseguenze del ritiro degli affidamenti, il no dei giudici al risarcimento è invece motivato dal fatto che Eurobox, appellandosi al recesso immotivato da parte della banca, non ha assolto all’onere di “enunciare le ragioni della sua tesi e fornire la prova del canone di buona fede e del danno risarcibile”. L’azienda avrebbe infine dovuto documentare adeguatamente anche la segnalazione alla Centrale Rischi in quanto il tabulato fornito è inutilizzabile “trattandosi di documento prodotto da una parte già decaduta dalla facoltà processuale e stante l’opposizione della controparte alla sua introduzione nel processo”. E così il risarcimento è stato rigettato.
IL “PADRE” DEL COMMERCIO ITALIANO DEI DERIVATI, PIETRO MODIANO - Se ne riparlerà, probabilmente, in sede penale, dove l’ex imprenditore Rino Mignano ha presentato denuncia contro i vertici di Unicredit per usura su derivati e conti correnti. La prima udienza è in calendario per il prossimo 6 maggio. E scriverà un altro capitolo di una storia che ha dell’incredibile con una banca che presenta in Tribunale documenti con firme false e un’azienda che cade sui derivati fabbricati dalla divisione di Unicredit all’epoca dei fatti guidata da Pietro Modiano, oggi alla guida della Sea, la società che gestisce gli aeroporti di Milano, e della Carlo Tassara, l’indebitata holding del finanziere Romain Zaleski che non fa dormire sonni tranquilli ai banchieri, a partire dalla Intesa SanPaolo di Giovanni Bazoli. Del resto lo stesso Modiano – che ha guidato Unicredit Banca Mobiliare dal 1999 al 2004 e Unicredit Banca d’Impresa dal 2003 al 2004 – aveva ampiamente riconosciuto gli errori della commercializzazione dei prodotti finanziari strutturati ammettendo tra il resto che “ci sono situazioni in cui si sono fatti errori e quindi si deve riparare”.
Il caso della Eurobox ricorda molto da vicino quello della Divania, l’azienda pugliese per il cui fallimento del giugno 2011 la Procura di Bari ha recentemente chiamato in causa i derivati di Unicredit accusando di bancarotta i vertici e gli ex vertici della banca milanese, a partire dall’ex ad Alessandro Profumo oggi al Montepaschi e dall’attuale numero uno, Federico Ghizzoni
La perizia di parte redatta dal consulente Roberto Marcelli racconta che Eurobox nel 1999 era una piccola azienda “in forte espansione, operante nel settore dello scatolame pressoché esclusivamente sul territorio nazionale”. Poi sono arrivati i derivati per coprire esposizioni sul dollaro che in realtà l’impresa aveva solo in minima parte rispetto al proprio fatturato. E, sempre secondo il perito di parte per il quale in Italia i “derivati creativi” siano stati venduti a 35mila aziende, “la banca ha condizionato il mantenimento e l’estensione delle linee di credito della società, alla sottoscrizione dei contratti derivati: in più circostanze si è riscontrata la concomitanza delle due operazioni”. La conclusione, scrive il perito, è arrivata “quando si è raggiunto il limite della capacità di credito del cliente” e l’istituto di credito ha proposto alla società un ultimo prodotto per il progressivo rientro. Ma l’imprenditore si è rifiutato di pagare per la chiusura dell’ultimo derivato. Così Unicredit ha segnalato Eurobox alla Centrale di rischi facendo scattare in automatico le richieste di rimborso di tutti i finanziamenti concessi all’impresa. A quel punto, l’azienda, che ha continuato industrialmente a funzionare (nel 2012 ancora produce utili per 1.500 euro su 90mila euro di fatturato, ma ha accumulato debiti per quasi 11 milioni e ha un patrimonio netto negativo con 8 milioni di perdite riportate a nuovo), è entrata in crisi di liquidità.