Il verdetto di primo grado del Tribunale civile di Salerno non è bastato a salvare l'azienda di imballaggi dal fallimento, ma ha fatto un po' di luce sul rapporto tra banche, imprese e finanza tossica. Anche se i quasi 2 milioni di euro oltre agli interessi e alle spese legali che l'istituto milanese è stato condannato a restituire, difficilmente ridaranno un lavoro alla quarantina di ex dipendenti della famiglia Mignano.
Troppo tardi. La sentenza di primo grado del Tribunale Civile di Salerno che il 19 febbraio 2014 ha dato ragione alla Eurobox contro Unicredit, se mai avesse potuto farlo, non è riuscita salvare dal fallimento la società di imballaggi metallici arrivato il 13 marzo scorso. Ma almeno ha fatto un po’ di luce sul rapporto tra banche, imprese e derivati che, in questo caso, è passato anche attraverso firme false e autorizzazioni “estorte”. Anche se i quasi 2 milioni di euro oltre agli interessi e alle spese legali che la banca è stata condannata a restituire a Eurobox, difficilmente ridaranno un lavoro alla quarantina di ex dipendenti della famiglia Mignano che all’inizio della storia, nel 1999, lavoravano per una piccola, ma promettente realtà imprenditoriale (31mila euro di utili su 5,8 milioni di euro di fatturato, con un debito bancario di 1,2 milioni) e che ora sono in mezzo ad una strada. Per di più in una regione, la Campania, dove il lavoro è una merce rara.
La storia è scritta nero su bianco nella sentenza che ilfattoquotidiano.it ha potuto consultare e secondo la quale i contratti con cui Unicredit ha venduto 28 derivati alla Eurobox tra il 2000 e il 2004, non sono validi. Si tratta di prodotti finanziari altamente sofisticati e rischiosi che, lamenta l’azienda, “a dire della banca avrebbero eliminato ogni rischio e assicurato la ‘copertura’ relativa agli affidamenti concessi (quasi 3 milioni di euro, ndr)”. Ma che hanno invece “avuto esiti ampiamente negativi, causando alla società perdite incalcolabili, pari a circa 4 milioni di euro per il solo danno emergente, comprensivo della sorta capitale persa e degli interessi addebitati”, come si legge nel documento nella parte dedicata alle rivendicazioni di Eurobox.
LA FIRMA APOCRIFA SUI CONTRATTI - Alla base delle operazioni, i contratti quadro siglati dalle parti e dai quali dipende la validità delle successive operazioni, ma anche la relativa dichiarazione di operatore qualificato sottoscritta dalla società. Ed è proprio qui che mettono il dito i giudici avallando la posizione di Eurobox. Perché dei due contratti quadro prodotti dalle parti uno è risultato “a firma apocrifa”, quindi falso, in seguito a un accertamento di autenticità mediante consulenza grafica d’ufficio “che ha concluso per la natura apocrifa della firma disconosciuta” dal rappresentante legale della società. E, dunque è “da ritenersi inesistente”. Invece per quanto riguarda il secondo, non disconosciuto, i giudici notano che le operazioni poi realizzate non sono affatto quelle indicate nell’accordo, ma al contrario “presentano caratteristiche strutturali molto più complesse”. In sostanza “la funzione del contratto quadro, consistente nel regolamentare operazioni elementari che la banca avrebbe posto in essere sulle oscillazioni dei tassi di cambio, non ha alcuna attinenza con i prodotti finanziari posti in essere altamente sofisticati e difficilmente comprensibili, basati su di una ‘complessa combinazione di opzioni, parte in acquisto e parte in vendita’ che divenivano sempre più ‘criptici’ e scarsamente trasparenti (…) tanto da vanificare la funzione di copertura”, come scrivono i magistrati sintetizzando la ricostruzione del consulente tecnico d’ufficio. Dall’inquietante ricostruzione, la conclusione circa “la nullità delle operazioni finanziarie, che risulta supportata dall’inesistenza di un contratto quadro sia per i derivati appartenenti alla categoria swap, data la falsità della firma sul contratto quadro disconosciuto, sia per i derivati riconducibili alle opzioni strutturate, data la discrasia tra la previsione relativa all’oggetto dei contratti specifici contenuta nel programma del contratto quadro non disconosciuto e le operazioni in titoli, di tutt’altra natura, concretamente poste in essere”.
E L’ESTORSIONE DELLA DICHIARAZIONE DI COMPETENZA FINANZIARIA - Ma non finisce qui. C’è anche la questione della dichiarazione di “operatore qualificato”. Unicredit, infatti, si era appellata all’artico 31 del Regolamento Consob in base al quale, tra il resto, la nullità dei servizi prestati da un intermediario senza un contratto non si applica nei rapporti tra intermediari autorizzati e operatori qualificati. Definizione, quest’ultima, che oltre agli operatori finanziari include “ogni società o persona giuridica in possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari espressamente dichiarata per iscritto dal legale rappresentate”. Permettendo così alla banca di effettuare transazioni su derivati senza preventive autorizzazioni da parte del cliente. E qui ricasca l’asino. Tra i documenti agli atti c’è infatti una prima dichiarazione di operatore qualificato che “è uno dei tre documenti disconosciuti e risultati a firma apocrifa. Come tale da ritenersi inesistente”, si legge ancora nel documento. Ce n’è poi una seconda, datata 26 aprile 2001, che però, sempre secondo i giudici “è stata indotta dalla banca, la quale era perfettamente a conoscenza della sua contrarietà al vero”. La prova l’ha fornita la testimonianza di un quadro direttivo dell’allora Unicredit Banca d’Impresa che all’epoca era gestore dei rapporti tra la banca e le imprese clienti. “Il teste ha confermato di aver chiesto alla società di dichiararsi operatore qualificato contestualmente alla stipula dei contratti swap nell’anno 2000; ha aggiunto che la società Eurobox srl aveva comunicato alla banca, sin dall’inizio del rapporto, la non conoscenza degli strumenti finanziari ed in particolare dei contratti swap e di aver illustrato di quali prodotti si trattasse, la loro struttura ed i rischi”. E se l’organo amministrativo della società non era in grado di capire il funzionamento degli strumenti più semplici, è la deduzione dei giudici, “a maggior ragione non poteva avere alcuna capacità di comprensione della complessa struttura delle altre e più sofisticate operazioni”.
LA CONDANNA E IL RISARCIMENTO - Da qui la condanna a Unicredit alla restituzione di 1.985.670 euro alla società “ a titolo di indebito oggettivo conseguente alla nullità delle operazioni in derivati”, oltre agli interessi, alle spese processuali nonché a quelle della consulenza tecnica d’ufficio. Niente da fare, invece, per quanto riguarda la richiesta di risarcimento dei danni subiti (quantificati in 2 milioni) in conseguenza primo delle operazioni nulle, secondo del ritiro degli affidamenti e, terzo, delle segnalazioni che Unicredit aveva fatto alla Centrale Rischi della Banca d’Italia. Questo a causa di questioni meramente tecniche. Per quanto riguarda il primo punto, il rifiuto è motivato proprio della nullità del contratto che esclude la responsabilità precontrattuale. Sulle conseguenze del ritiro degli affidamenti, il no dei giudici al risarcimento è invece motivato dal fatto che Eurobox, appellandosi al recesso immotivato da parte della banca, non ha assolto all’onere di “enunciare le ragioni della sua tesi e fornire la prova del canone di buona fede e del danno risarcibile”. L’azienda avrebbe infine dovuto documentare adeguatamente anche la segnalazione alla Centrale Rischi in quanto il tabulato fornito è inutilizzabile “trattandosi di documento prodotto da una parte già decaduta dalla facoltà processuale e stante l’opposizione della controparte alla sua introduzione nel processo”. E così il risarcimento è stato rigettato.
IL “PADRE” DEL COMMERCIO ITALIANO DEI DERIVATI, PIETRO MODIANO - Se ne riparlerà, probabilmente, in sede penale, dove l’ex imprenditore Rino Mignano ha presentato denuncia contro i vertici di Unicredit per usura su derivati e conti correnti. La prima udienza è in calendario per il prossimo 6 maggio. E scriverà un altro capitolo di una storia che ha dell’incredibile con una banca che presenta in Tribunale documenti con firme false e un’azienda che cade sui derivati fabbricati dalla divisione di Unicredit all’epoca dei fatti guidata da Pietro Modiano, oggi alla guida della Sea, la società che gestisce gli aeroporti di Milano, e della Carlo Tassara, l’indebitata holding del finanziere Romain Zaleski che non fa dormire sonni tranquilli ai banchieri, a partire dalla Intesa SanPaolo di Giovanni Bazoli. Del resto lo stesso Modiano – che ha guidato Unicredit Banca Mobiliare dal 1999 al 2004 e Unicredit Banca d’Impresa dal 2003 al 2004 – aveva ampiamente riconosciuto gli errori della commercializzazione dei prodotti finanziari strutturati ammettendo tra il resto che “ci sono situazioni in cui si sono fatti errori e quindi si deve riparare”.
Il caso della Eurobox ricorda molto da vicino quello della Divania, l’azienda pugliese per il cui fallimento del giugno 2011 la Procura di Bari ha recentemente chiamato in causa i derivati di Unicredit accusando di bancarotta i vertici e gli ex vertici della banca milanese, a partire dall’ex ad Alessandro Profumo oggi al Montepaschi e dall’attuale numero uno, Federico Ghizzoni.
La perizia di parte redatta dal consulente Roberto Marcelli racconta che Eurobox nel 1999 era una piccola azienda “in forte espansione, operante nel settore dello scatolame pressoché esclusivamente sul territorio nazionale”. Poi sono arrivati i derivati per coprire esposizioni sul dollaro che in realtà l’impresa aveva solo in minima parte rispetto al proprio fatturato. E, sempre secondo il perito di parte per il quale in Italia i “derivati creativi” siano stati venduti a 35mila aziende, “la banca ha condizionato il mantenimento e l’estensione delle linee di credito della società, alla sottoscrizione dei contratti derivati: in più circostanze si è riscontrata la concomitanza delle due operazioni”. La conclusione, scrive il perito, è arrivata “quando si è raggiunto il limite della capacità di credito del cliente” e l’istituto di credito ha proposto alla società un ultimo prodotto per il progressivo rientro. Ma l’imprenditore si è rifiutato di pagare per la chiusura dell’ultimo derivato. Così Unicredit ha segnalato Eurobox alla Centrale di rischi facendo scattare in automatico le richieste di rimborso di tutti i finanziamenti concessi all’impresa. A quel punto, l’azienda, che ha continuato industrialmente a funzionare (nel 2012 ancora produce utili per 1.500 euro su 90mila euro di fatturato, ma ha accumulato debiti per quasi 11 milioni e ha un patrimonio netto negativo con 8 milioni di perdite riportate a nuovo), è entrata in crisi di liquidità.
La perizia di parte redatta dal consulente Roberto Marcelli racconta che Eurobox nel 1999 era una piccola azienda “in forte espansione, operante nel settore dello scatolame pressoché esclusivamente sul territorio nazionale”. Poi sono arrivati i derivati per coprire esposizioni sul dollaro che in realtà l’impresa aveva solo in minima parte rispetto al proprio fatturato. E, sempre secondo il perito di parte per il quale in Italia i “derivati creativi” siano stati venduti a 35mila aziende, “la banca ha condizionato il mantenimento e l’estensione delle linee di credito della società, alla sottoscrizione dei contratti derivati: in più circostanze si è riscontrata la concomitanza delle due operazioni”. La conclusione, scrive il perito, è arrivata “quando si è raggiunto il limite della capacità di credito del cliente” e l’istituto di credito ha proposto alla società un ultimo prodotto per il progressivo rientro. Ma l’imprenditore si è rifiutato di pagare per la chiusura dell’ultimo derivato. Così Unicredit ha segnalato Eurobox alla Centrale di rischi facendo scattare in automatico le richieste di rimborso di tutti i finanziamenti concessi all’impresa. A quel punto, l’azienda, che ha continuato industrialmente a funzionare (nel 2012 ancora produce utili per 1.500 euro su 90mila euro di fatturato, ma ha accumulato debiti per quasi 11 milioni e ha un patrimonio netto negativo con 8 milioni di perdite riportate a nuovo), è entrata in crisi di liquidità.