sabato 18 aprile 2020

I sopratacchi - la bottega del calzolaio.

L'immagine può contenere: 3 persone, persone sedute

Sembrerà strano, ma questa parola suscita in me bei ricordi. Ricordi dolci e segnanti, ricordi che, in qualche modo, hanno lasciato un segno nella mia vita, per cui, andare dal calzolaio per fare riparare i sopratacchi, era diventato, per me, un rito.
Andavo sempre dallo stesso calzolaio, un signore magro, età media, capelli bianchi. Si chiamava Angelo, ma io lo chiamavo Maestro.
Aspetto serio, grambiulone a protezione, flemmatico, ma preciso. 
La sua bottega era una stanzetta che dava sulla strada, ma bastava alla bisogna: c'erano sedie per gli avventori, il banchetto da lavoro al centro. 
E quando ci andavo, aspettavo, comodamente seduta, che lui mi riparasse i tacchi; preferivo aspettare volentieri perchè mi beavo ad assistere ed ascoltare tutto ciò che succedeva in quella bottega che, ad una certa ora, si animava di pensionati.
A turno qualcuno gli portava il caffè, tutti indossavano un berretto per ripararsi dal sole o dal freddo, alcuni restavano in piedi perchè di passaggio, altri  occupavano le sedie che erano a disposizione. 
E iniziava il salotto.
Si parlava di tutto, del governo, della gioventù, dei ricordi, non si litigava mai, si rideva spesso alle battute di qiualcuno di loro, ognuno rispettava le idee degli altri, tutti erano molto compiti e mai scurrili o volgari, almeno in mia presenza. 
Io ascoltavo rapita, mi piaceva godere della loro saggezza, era diventato, per me, un momento magico al quale per nulla al mondo avrei rinunziato quando si presentava l'occasione.
Cettina. 

Fontana scarica uffici e Rsa. Ma per i Covid pagava triplo. - Natascia Ronchetti

Fontana scarica uffici e Rsa. Ma per i Covid pagava triplo

Il governatore difende la delibera che chiedeva posti nelle case di riposo per i pazienti positivi: “Toccava a loro e alle Ast decidere”.
L’operazione scaricabarile sulla famosa delibera dell’8 marzo, con la quale la Regione Lombardia ha disposto il trasferimento dei pazienti Covid in via di miglioramento nella case di riposo, è iniziata. “La delibera è stata proposta dai nostri tecnici – ha detto ieri il presidente della Regione, Attilio Fontana –. I nostri esperti ci hanno riferito che a determinate condizioni, e cioè che esistessero dei reparti assolutamente isolati dal resto della struttura e addetti dedicati esclusivamente ai malati Covid, la cosa si poteva fare”.
I tecnici sono i dirigenti del settore Welfare della Regione, a partire da Luigi Cajazzo, direttore generale: e infatti la proposta di delibera è stata messa sul tavolo della giunta direttamente dall’assessore al Welfare, Giulio Gallera. Poi c’è la questione relativa ai controlli, cioè alla verifica che effettivamente le Rsa che hanno aperto le porte ai malati Covid avessero i requisiti richiesti: tutto in capo alle aziende sanitarie – dice adesso Fontana –, vale a dire alle Ats. In Regione spiegano che il percorso è stato limpido, trasparente, regolare; che la delibera è arrivata, come sempre avviene, dopo una istruttoria tecnica: anche se con l’approvazione scatta contemporaneamente anche un’altra responsabilità, quella tutta politica. Ma tant’è.
Così, mentre procede l’indagine della magistratura, il cerino viene dato in mano ai cosiddetti tecnici, alle aziende sanitarie e, per ultime, alle stesse case di riposo. Sulle quali la Regione indaga con due sue commissioni: una sul Pio Albergo Trivulzio, l’altra sulle stesse Rsa. Alle aziende sanitarie è già stata chiesta una relazione, qualcuna l’ha già inoltrata. Lo hanno fatto quelle che hanno competenza sulle aree dove sono presenti le case di riposo che hanno effettivamente accolto pazienti Covid. Si sa, sono solo 15 su oltre 700 (dati diffusi dalla stessa Regione), delle quali sei nel Bergamasco, tre in provincia di Mantova, due nel Lodigiano, una in provincia di Brescia, una a Milano. Poi ci sono Sondrio, Pavia…
Proprio nel Bergamasco, una delle zone più colpite dal contagio, c’è chi ha aggiornato puntigliosamente i conti della mattanza dei nonni. È la Cgil. “Dal primo marzo alla prima metà di aprile, 1.326 decessi, il 24% del totale degli anziani ospiti”, dice il segretario provinciale Gianni Perecchi –. Abbiamo fatto una ricognizione noi, perché l’Ats di Bergamo i numeri non ce li fornisce”. E dire che fino a pochi giorni fa, ufficialmente, gli anziani morti erano meno della metà: 600. Perecchi è tra quelli che non ci stanno al gioco del rimpallo. Perché se è vero che le case di riposo sono strutture private, come sottolinea la Regione, è anche vero che operano su accreditamento, con un contratto di budget, condizione che le mette anche, inevitabilmente, in una posizione di subalternità. “La Regione ha una funzione di controllo, di sorveglianza e di supporto – prosegue Perecchi –. E ricordo che alle Rsa che a fine febbraio avevano chiuso agli accessi per prudenza, ordinò la riapertura, mandando degli ispettori attraverso l’Ats. Nella nostra provincia le case di riposo di pazienti Covid ne hanno accolti una settantina. L’operazione, voluta per alleggerire gli ospedali, non ha dimostrato nemmeno efficacia”.
Al gioco si sottraggono anche le associazioni delle Rsa, come Uneba, a cui ne fanno capo in Lombardia circa quattrocento: “Fino al 30 marzo la Protezione civile requisiva le mascherine destinate alle case di riposo – dice il presidente Luca Degani -, solo adesso che il dramma è esploso le cose sono cambiate. La verità che si doveva porre fin dall’inizio grande attenzione a queste strutture perché hanno in carico le persone più fragili”. È ancora Degani a ricordare che l’accreditamento da parte della Regione può essere sospeso o revocato. “È già successo”, dice. E quando questo avviene viene meno quel contributo pubblico, da parte del sistema sanitario regionale, che per ogni anziano oscilla tra i 29 e i 49 euro al giorno, a seconda delle patologie.
Questione non irrilevante, visto che sullo sfondo resta il tema del rimborso previsto dalla Regione come retta giornaliera per ogni paziente Covid degente: 150 euro, più del triplo della tariffa massima prevista. Quanto alle commissioni di indagine, tutte le associazioni hanno chiesto di essere ascoltate. “Una cosa è certa – dice Degani –. C’è stata difficoltà a cogliere il rilievo di luoghi di rischio come le nostre strutture”.

Carmelitani Descalzi Marco Travaglio

Indagini Eni-Congo: la signora Descalzi indagata per corruzione ...
Marie Madeleine Ingoba e Claudio Descalzi  

Il primo burrascoso vertice di maggioranza per le nomine nelle società partecipate (Eni, Enel, Poste, Leonardo, Terna, Mps, Enav ecc.) ha visto Pd e 5Stelle scontrarsi su un duplice casus belli: da un lato la pretesa del Pd di tenersi tutte le poltrone più importanti con la scusa che il Quirinale spinge per non cambiare nulla in nome della “continuità”; dall’altro la richiesta dei 5Stelle di rimpiazzare alcuni manager di peso in cambio della rinuncia alla loro battaglia contro l’imbarazzante amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi. La pretesa del Pd è bizzarra: il partito di maggioranza relativa sono i 5Stelle che han vinto le elezioni del 2018, non il Pd che le ha perse; e la contrarietà del Quirinale a ogni cambiamento, se confermata, sarebbe un abuso di potere: la Costituzione non assegna al capo dello Stato alcuna voce in capitolo sulle partecipate, che invece spettano al premier e al governo. Ma altrettanto bizzarra è la posizione dei 5Stelle, che si sono rassegnati alla conferma degli Ad di quasi tutte le società più rilevanti, incluso l’imbarazzante Descalzi, ma a titolo di risarcimento per averlo “ingoiato” rivendicano un bel po’ di presidenze (con funzioni poco più che decorative).
A noi, come a tutti i cittadini, dell’etichetta partitica dei manager pubblici non importa nulla. Purché si tratti di persone capaci, oneste e al di sopra di ogni sospetto: cioè inattaccabili sul piano professionale, morale, deontologico e naturalmente penale. Per questo, da mesi, ci sgoliamo a spiegare perché Descalzi è del tutto incompatibile con la carica di Ad dell’Eni. E qualche miserabile verme annidato nei soliti giornalacci arriva a insinuare che la nostra battaglia di principio celi un nostro interesse per “piazzare” all’Eni questo o quel personaggio: prima si parlò dell’economista Luigi Zingales (ex consigliere indipendente di Eni e docente a Chicago), ora si parla di Lucia Calvosa, docente di Diritto commerciale, già consigliere indipendente di Mps, poi di Telecom e ora di Seif (la società del Fatto). Ovviamente, malgrado la stima che non solo noi nutriamo per Zingales e Calvosa, non ci occupiamo delle loro carriere professionali, anche se troviamo curioso che non vengano chiamati a discolparsi gli sponsor di manager inquisiti e imputati, ma noi perché abbiamo amministratori cristallini e incensurati. Da cittadini e giornalisti, però, siamo interessati a una seria bonifica di un gruppo strategico come l’Eni, da troppi anni in mano a personaggi che si dividono fra la politica energetica nazionale e i processi per presunte corruzioni e sicuri conflitti d’interessi.
Quindi, per i senza memoria, ripetiamo i cinque motivi che dovrebbero indurre Conte, Gualtieri, 5Stelle, Pd, Iv, Sinistra e (se è interessato) Mattarella ad accompagnare Descalzi alla porta.
1. Descalzi è imputato a Milano di corruzione internazionale per la più grande tangente della storia italiana (1,1 miliardi), pagata da Eni nel 2011 per ottenere un giacimento in Nigeria e finita sui conti di politici, mediatori, faccendieri, manager.
2. L’Eni è indagato anche per le accuse di Piero Amara, suo avvocato esterno, arrestato nel 2018. Amara racconta di aver ricevuto mandato e denaro dai vertici Eni per orchestrare nel 2015 un “complotto” per depistare le indagini milanesi sulle corruzioni Eni in Nigeria e in Algeria, salvando Descalzi dalle accuse. Non solo: nel marzo 2016 incontrò a Roma Claudio Granata (braccio destro di Descalzi) e l’ex manager Vincenzo Armanna per organizzare un depistaggio sul depistaggio: Armanna, in cambio di denaro, avrebbe dovuto ritrattare le accuse contro Descalzi e scaricare tutto su due manager licenziati.
3. Secondo Amara, la security Eni avrebbe dossierato, pedinato e intercettato Zingales, la Litvack, il giornalista Claudio Gatti (che indagava su Eni) e i pm milanesi De Pasquale, Spadaro e Storari.
4. L’Eni è sotto inchiesta a Milano anche per una corruzione internazionale in Congo: avrebbe girato quote dei suoi giacimenti alle società Aogc (legata al presidente Denis Sassou Nguesso) e Wnr (legata a “persone vicine a Eni e al suo management”). Anche quella, per la Procura, era una tangente per politici congolesi e manager italiani.
5. La moglie congolese di Descalzi, Marie Madeleine Ingoba, controllava – secondo i pm, tramite schermi esteri – 5 società denominate “Petro Service” che han prestato servizi all’Eni del marito in cambio di circa 300 milioni di dollari tra il 2007 e il 2018. La signora Descalzi controllò quelle società direttamente dal 2009 al 2014. Poi, l’8 aprile 2014, sei giorni prima che Renzi indicasse Descalzi come Ad Eni, la Ingoba vendette la lussemburghese Cardon Investments che controlla le 5 Petro Services ad Alexander Haly, ritenuto dai pm un socio-prestanome della coppia Descalzi-Ingoba. Di recente, in vista del rinnovo dei vertici Eni, è filtrata la notizia di una separazione dei due coniugi, evidentemente consci del loro mega-conflitto d’interessi. Che, a prescindere dal processo e dalle inchieste in corso, basta e avanza a sconsigliare la riconferma di Descalzi al comando del primo gruppo industriale italiano.
FQ 18 aprile