domenica 9 ottobre 2011

La Gelmini ci riprova: “I neutrini sono viaggiati nel tunnel tecnologico”.






Una lunga intervista del quotidiano “La Repubblica”. Maria Stella Gelmini torna sulla questione del tunnel dei neutrini. Il giornalista le chiede: Quel giorno eravate al Quirinale, avevate affidato il comunicato (sul tunnel ndr) a un giovane, non l’avete controllato. 
La Gelmini prova a correre ai ripari: “Al primo incidente di percorso ho pagato un prezzo alto, sono stata travolta dalla velocità di internet e dalla replica sbagliata: il secondo comunicato parlava di polemiche strumentali e non erano parole mie. Bastava chiedere scusa, e farci su un po’ d’ironia. So che non esiste un tunnel da Ginevra al Gran Sasso, ho visitato il Cern e non ho visto tunnel. Bastava mettere quella parola tra virgolette e aggiungere tecnologico: 



“il “tunnel tecnologico” dentro il quale sono viaggiati i neutrini”


Sono viaggiati? Nel tunnel tecnologico?


http://www.letteraviola.it/2011/10/la-gelmini-ci-riprova-i-neutrini-sono-viaggiati-nel-tunnel-tecnologico/



                                        
                                                  

Carcere, circolare choc del Dap: “Non ci sono più soldi per i pasti dei detenuti”. - di David Marceddu




L'allarme lanciato dagli agenti di polizia penitenziaria: "Unica soluzione al sovraffollamento sarebbe far uscire i tossicodipendenti". Ma il problema cibo resta grave e al momento irrisolvibile.

In Italia non ci sono più soldi perfino per comprare il cibo da dare i detenuti. “Abbiamo ricevuto una comunicazione la scorsa settimana dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap, ndr): ci comunicano che iniziano a mancare anche i soldi per comprare il cibo dei detenuti”. La missiva/allarme arriva dalla direzione della Dozza, il carcere sovraffollato di Bologna e porta come sottinteso un “arrangiatevi un po’ come potete”, perché i denari iniziano a mancare. Altro che rieducazione, altro che piano carceri. Non è più solo sovraffollamento, ora, per ammissione degli stessi vertici che guidano il sistema delle carceri in Italia: a mancare potrebbe essere il minimo indispensabile per la sopravvivenza dei reclusi, il rancio passato ai detenuti. E la crisi e i tagli potrebbero colpire anche il menu di chi sta dietro alle sbarre.

L’allarme arrivato Bologna, ma riguarda tutta Italia, era già stato preannunciato, come riportato da "il fattoquotidiano.it," da alcuni deputati in visita al carcere della Dozza a luglio. Allora sembrava un’ipotesi remota, quasi una polemica estiva tra parlamentari. Oggi invece la comunicazione di stringere la cinghia da Roma è arrivata puntuale. A denunciare il fatto il sindacato di polizia penitenziaria, Sappe, che sabato 8 ottobre ha tenuto a Bologna un presidio con alcune decine di agenti proprio davanti al carcere della Dozza (una delle strutture più critiche d’Italia) per protestare contro le condizioni di lavoro e di vita dentro la struttura.

Nell’istituto del capoluogo emiliano ci sono 1.200 detenuti a fronte di una capienza di massimo 450. Inoltre gli agenti chiedono da tempo rinforzi: sono in 350 ma dovrebbero essere almeno 550. Ma anche i dati nazionali non sono da meno: 68 mila detenuti contro i 44 mila che potrebbero essere ospitati nelle patrie galere. Il sovraffollamento è dato soprattutto dalla presenza degli stranieri e non a caso molto è molto più sentito nelle città del nord, dove la presenza dei cittadini di altri Paesi é molto più marcata. Anche nel Mezzogiorno tuttavia non si scherza, se si pensa che i detenuti “in più” a Napoli Poggioreale sono 1500. Inoltre a livello nazionale mancano 6.500 agenti su un numero attuale di circa 38 mila.

“Le attività rieducative ormai sono pochissime, e saranno sempre meno visto che i fondi andranno usati per mangiare. Al momento a Bologna si stanno già utilizzando soldi stanziati per il primo semestre del 2012”, spiega Giovanni Battista Durante, segretario aggiunto nazionale del Sappe. Insomma a Bologna si raschia il fondo del barile giusto per tirare a campare così come in molte parti d’Italia. Mancano i soldi perfino per portare i detenuti in tribunale e molti processi in tutta Italia sono stati rinviati per questo motivo.

Ma quale è la soluzione al sovraffollamento prospettata dagli agenti? La legge 199 del 2010 dell’allora guardasigilli Angelino Alfano, che prevedeva i domiciliari per le pene più lievi, ha fatto uscire appena 3 mila persone sulle 11 mila che avrebbero potuto beneficiare del provvedimento. Il perché è noto: gran parte dei possibili beneficiari erano gli stranieri che, non avendo in molti casi un domicilio, sono stati costretti a rimanere al fresco. Qualche altra possibilità ci sarebbe: “Si potrebbero fare uscire i tossicodipendenti, che sono 300 a Bologna e 17 mila in tutta Italia”, spiega Durante. “C’è anche una legge secondo la quale chi deve scontare non più di sei anni, possa uscire dal carcere dopo avere superato un programma di riabilitazione”.

Già, ma, come ammettono gli stessi agenti, spesso mancano le strutture riabilitative e i soldi per riabilitare le persone. Eppure i pochi fondi a disposizione della macchina penitenziaria, secondo gli agenti, si potrebbero investire meglio: “Si parla da tre anni di piano carcere e sono stati stanziati più di 700 milioni di euro, ma non si capisce che costruire nuove carceri è assolutamente inutile se non si assume nuovo personale”, spiega Durante. “In Italia abbiamo 6 mila posti detentivi inutilizzati. In Emilia Romagna ci sono 6 strutture vuote a Modena, Forlì, Parma e mancano 650 agenti”. Poi il segretario del sindacato lancia la sfida ai vertici del Dap: “C’è una cattiva gestione, oltre alla carenza dei fondi. Chi sta ai vertici o si dà una mossa o meglio che vada a fare altro”.

La carenza di cibo che rischia di abbattersi sulle carceri potrebbe colpire soprattutto i detenuti stranieri, che sono oltre il 60 % a Bologna e circa il 40 % in Italia. Molti di loro, non avendo dei loro soldi personali per comprarsi da mangiare o non avendo una famiglia alle spalle, mangiano solo quello che passa il convento, o meglio il carcere. Ma se ora anche il rancio comune è a rischio per ammissione degli uffici di Roma, la situazione rischia di degenerare. “A Bologna al momento si mantiene tranquilla grazie alla pazienza e la professionalità degli agenti, ma basta un attimo perché precipiti”.

La polizia penitenziaria di stanza a Bologna da tre giorni protesta anche per la condizione della sua mensa. “Molte volte il cibo finisce già alle 13 e dopo distribuiscono solo pasti freddi – denuncia Durante che poi prosegue – Chiediamo anche che la direzione del carcere faccia un’indagine sull’igiene nei locali dove viene conservato il cibo per gli agenti”. L’igiene nel deposito cibo dei detenuti potrebbe invece non servire, visto che tanto rischia di rimanere vuoto.


                                      

Giovani, sorpresa pensione arriverà al 70% del reddito. di Enrico Marro.

Antonio Mastrapasqua, presidente dell'Inps (Imagoeconomica)
Antonio Mastrapasqua

ROMA - Si andrà in pensione più tardi, sempre più tardi. Ma proprio il pesante allungamento dell'età minima per lasciare il lavoro, conseguente alle riforme più recenti, farà sì che l'importo della pensione non sarà così basso come si è stimato finora: potrà essere pari al 70% dell'ultimo stipendio per un lavoratore dipendente e del 57% per un parasubordinato. È l'effetto del metodo di calcolo contributivo che si applica, integralmente, a chiunque abbia cominciato a lavorare dopo il 1995: più anni di contributi si versano, più tardi si va in pensione, è più si prende. Bisogna quindi rivedere il discorso che si è sempre fatto sul contributivo che falcidiava le pensioni, riducendo il tasso di copertura rispetto all'ultimo stipendio a circa la metà dello stesso. Questo era vero fino a quando l'età pensionabile era rimasta più o meno la stessa di prima: 58-60 anni per la pensione di anzianità (con 35 anni di contributi) e 65 per quella di vecchiaia (60 per le donne). Ma la situazione è molto cambiata per chi comincia a lavorare oggi.
Costui non potrà andare in pensione prima di aver raggiunto 65 anni e 3 mesi (nel 2046) se avrà i 35 anni di contributi necessari per la pensione anticipata, senza differenze tra uomini e donne. Altrimenti dovrà attendere fino a 69 anni e 3 mesi. Sarà infatti questa l'età di pensionamento di vecchiaia richiesta nel 2046, per effetto di tre misure: finestra mobile (la pensione decorre con ritardo di 12-18 mesi rispetto alla maturazione dei requisiti); aumento a 65 anni dell'età di vecchiaia per le donne; adeguamento automatico ogni tre anni dell'età pensionabile alla speranza di vita. Il risultato è che anche le pensioni di vecchiaia avranno alla fine almeno 35 anni di contributi alle spalle. Di qui la necessità di rifare i calcoli sul tasso di copertura. Cosa che ha fatto Stefano Patriarca, responsabile dell'area pensioni dell'ufficio studi dell'Inps in un rapporto (che non impegna l'istituto) che verrà presentato lunedì alla Scuola superiore di economia e finanze Ezio Vanoni.
Patriarca è un profondo conoscitore del metodo di calcolo contributivo, essendo stato uno degli "inventori" dello stesso come membro della commissione tecnica che preparò la riforma Dini-Treu del 1995. Rifacendo i calcoli alla luce delle ultime novità legislative Patriarca ha fatto una scoperta controcorrente per uno che viene dalla Cgil (era il pupillo di Bruno Trentin): la situazione previdenziale dei giovani non è più drammatica come sembrava.
Vediamo qualche esempio. Una persona che comincia a lavorare oggi a 34 anni e andrà in pensione nel 2046 dopo 35 anni di lavoro dipendente prenderà il 70% dell'ultimo stipendio. Che si riduce al 54% per un lavoratore autonomo (ma questi versano all'Inps il 20% contro il 33% dei dipendenti). Anche ipotizzando il caso di un precario che restasse tale per tutta la vita lavorativa, la conclusione è che andrebbe in pensione con un assegno pari al 57% dell'ultima retribuzione. «Non è tanto - dice Patriarca - ma non è neppure il 30% di cui si parlava prima. Semmai il problema è che se la retribuzione è bassa allora la pensione potrebbe non essere sufficiente, ma questo riguarda il mercato del lavoro e non il sistema previdenziale, perché non si possono avere pensioni ricche se le retribuzioni sono povere». In ogni caso, aggiunge, l'ipotesi di un precario a vita riguarda una ristretta minoranza. Già simulando la pensione di un lavoratore discontinuo (10 anni in nero, 6 da parasubordinato e 22 di lavoro dipendente), si arriverebbe a un assegno pari al 59% dell'ultima retribuzione.
Va detto, sottolinea lo studio, che si sta parlando di tassi di copertura al netto delle tasse e non al lordo, come si usa di solito. Ma quello che conta è il netto che entra nelle tasche del pensionato. E siccome sulle pensioni non si pagano i contributi e si versano meno imposte che sulla retribuzione, ecco che il tasso di copertura se ne giova.
Certo, in molti casi pensioni sotto il 65-70% della retribuzione possono risultare insufficienti. Ma non bisogna dimenticare il Tfr, cioè gli accantonamenti per la liquidazione, che, simulandone la trasformazione in rendita, aumenterebbe il tasso di copertura di circa 13 punti, in caso di carriera contributiva piena. In sostanza, è la conclusione, i fondi pensione integrativi, che finora non sono decollati, non sarebbero così necessari per la maggioranza dei giovani, mentre servirebbero proprio per quei segmenti di mercato del lavoro più deboli, che non sono in grado di pagarseli e non hanno neppure il paracadute del Tfr. Conclude Patriarca: «La vera emergenza non è rappresentata dalle pensioni di un generico universo giovanile, ma dalle condizioni di lavoro di aree ben definite ma drammatiche, a partire dal lavoro nero e dalle nuove partite Iva. È qui che bisogna intervenire. Quanto al resto, bisogna dire una volte per tutte che il vecchio mix anzianità-sistema retributivo, che ancora si applica alla stragrande maggioranza dei nuovi pensionati, chi nel '95 aveva meno di 18 anni di servizio, è insensato».
Un esempio? Patriarca ha calcolato che un lavoratore che nel 2010 è andato in pensione a 59 anni con 2.031 euro al mese, che poi è quanto viene liquidato in media dall'Inps ai pensionati di anzianità, avrebbe dovuto prendere, ipotizzando che i contributi versati siano indicizzati e rivalutati con un interesse annuo generoso del 9,5%, non più di 1.050 euro. «La differenza è come se fosse pagata con le entrate dei parasubordinati, degli immigrati, dai contributi di coloro che non arriveranno ad avere la pensione previdenziale anche se hanno pagato i contributi (i cosiddetti silenti, ndr.), e con i trasferimenti dello Stato. I 2.031 euro al mese sarebbero equi e corrispondenti ai contributi pagati andando in pensione a 75 anni!». Insomma, il sistema retributivo era troppo generoso, quello contributivo, con l'aumento dell'età, è meno drammatico di come sembrava.