sabato 25 agosto 2012

Il Colle, le procure e la Costituzione. - Gustavo Zagrebelsky


EUGENIO Scalfari, col suo scritto di domenica scorsa, mi offre l’occasione di riprendere, sul nostro giornale, alcuni punti del mio articolo “incriminato”, incriminato per avere invitato il Presidente della Repubblica a riconsiderare l’opportunità del conflitto d’attribuzioni sollevato nei confronti di uffici giudiziari di Palermo. Non nego che quello scritto, tanto più per l’autorevolezza di colui da cui proviene, mi ha toccato nel profondo.
Poiché le ragioni sono sì personali, ma anche generali, tali quindi da poter interessare chi abbia seguito la vicenda, ritorno sull’argomento. Con una necessaria, e ovvia, premessa: siamo, come accennato, nel campo dell’opportunità. I giudizi di opportunità sono sempre discutibili, perché dipendono da molte ragioni e uno dà più peso ad alcune e altri ad altre. Se la ragione fosse una sola, saremmo nel campo della necessità che non si discute. Ma l’opportunità è sempre discutibile. Dunque, affrontiamo gli argomenti, in spirito discorsivo. Qui c’è la forza e la ricchezza del nostro giornale.
Dividerò le considerazioni che seguono in una parte generale e una speciale.
La parte generale è quella che più mi mette in difficoltà. A proposito “di eterogenesi dei fini”  -  conseguenze non intenzionali di atti compiuti intenzionalmente  -  nel mio scritto, non vi sarebbe stata nessuna “eterogenesi”, perché le conseguenze  -  la strumentalizzazione in vista di un “attacco” al Capo dello Stato  -  sarebbero state non solo da me previste, ma addirittura volute. L’insinuazione è che io faccia parte d’una operazione orchestrata per “delegittimare” il Capo dello Stato. Mi permetto di dire a Scalfari che ho avvertito come una ferita (e spiegherò perché), tanto più ch’egli aggiunge di sperare che il suo dubbio sia dissipato, temendo che questa speranza “si risolva in una delusione”. Le cose non stanno così. Ho condiviso e condivido molte delle cose dette e fatte dal Capo dello Stato, come egli sa per averne ricevuto testimonianza, con calde parole ch’egli certo ricorderà, in una pubblica occasione svoltasi qualche mese fa a Cuneo. Ma su altre cose ho delle riserve. Che cosa c’è di strano? Una cosa approvi e un’altra disapprovi  -  sì, sì; no, no, il resto è opera del maligno – e lo dici in piena libertà, come si conviene in un Paese libero. Avrei dovuto tacere o dire il contrario?
Sei un ingenuo, perché avresti dovuto sapere che le tue parole sarebbero state strumentalizzate; anzi, sei un falso ingenuo  -  in sostanza, un ipocrita  -  perché lo sapevi benissimo. Qui, vorrei essere il più chiaro possibile: la linea di condotta cui mi sono ispirato non è dei falsi, ma dei veri ingenui. Il compito di chi si dedica a una professione intellettuale è d’essere, per l’appunto, un vero, consapevole e intransigente ingenuo (con l’unica riserva che dirò). Non è sempre facile. Talora lo è di più tacere, tergiversare, adeguarsi. È una questione d’integrità professionale, almeno così come la vedo. Vogliamo forse che “per opportunità” si sostengano, con parole o con silenzio, cose diverse da quelle che si pensano vere, opportune, giuste? Dove andrebbe a finire la fiducia?
C’è per me un “libro di formazione”. Non sembri una citazione fuori luogo o fuori misura. Scritto nel 1923, in circostanze più drammatiche delle attuali, contiene una lezione indimenticabile. È Il tradimento dei chierici di Julien Benda (ripubblicato da Einaudi). Non è una citazione esornativa, “da professore”. È un invito. Tratta degli uomini di pensiero che in quel tempo  -  e in tutti i tempi  -  si astennero dal prendere posizione, tacendo o dicendo cose che andavano contro le loro stesse convinzioni, e questo fecero “per opportunità”. La loro colpa non fu di avere detto cose sbagliate, ma di non avere detto le cose ch’essi stessi ritenevano giuste. Facciamo le debite proporzioni, ma riflettiamo sul corto-circuito che si verifica quando nel campo del pensiero si insinua l’idea che ciò che pensiamo, per opportunità, o anche per “responsabilità”, si possa o debba tacere.
Forse che l’attività intellettuale non deve anch’essa essere responsabile? Certo che sì. Ma responsabile verso chi o che cosa? Verso la sua natura: una natura diversa da quella politica. Forse che l’attività intellettuale non ha anch’essa una propria valenza politica? Certo che sì, ed elevatissima, ma non nel senso di chi opera nella politica, intesa come la sfera dei partiti, della competizione per il potere, della conquista del consenso: da noi, c’è difficoltà ad ammettere che non tutto è politica in questo senso. Esiste invece una funzione diversa, “ingenua”, non legata al potere e al consenso – la cui esistenza è essenziale alla vita libera della pólis. Sarebbe una deviazione, se l’attività intellettuale non tenesse fede a questa sua caratteristica, anzi non ne facesse il suo vanto. Solo così, c’è la sua utilità, la sua funzione civile. Chi ragiona diversamente, che idea ha del rapporto politica-cultura? Scrivendo queste cose, mi ritornano in mente gli anni ’50. Chi appartiene alla mia e alla precedente generazione, comprende facilmente il riferimento. Se ci sarà l’occasione potremo ritornare su quella storia fatta di contrapposte accuse di “defezione”, che nessuno e, di certo meno che mai Eugenio Scalfari, rimpiange.
Sulla parte speciale credo di muovermi con più facilità. Nel mio scritto, ho sostenuto che questo conflitto, per i suoi caratteri, non ha precedenti. Scalfari dice di no, ma poi spiega: vi sono politici e loro fiancheggiatori che, nel caso in cui la Corte dia ragione al Capo dello Stato, “palpitano” per poter accrescere i loro “attacchi eversivi” all’una e all’altro; nell’improbabile caso contrario, se al Capo dello Stato venisse dato torto, sempre gli stessi gli chiederebbero “immediate e infamanti dimissioni”. Non è questa una situazione eccezionale, drammaticamente difficile? Riflettiamoci seriamente e freddamente. La Corte è un giudice e noi pretendiamo ch’essa giudichi secondo diritto, seguendo “l’etica della convinzione” che le è propria. Ma sappiamo bene che, messa di fronte a un “fiat iustitia, pereat mundus”, nessuna Corte costituzionale indietreggerebbe nell’applicare l’”etica delle conseguenze” che, indubbiamente, interferisce con le ragioni solo giuridiche. Nella specie, il “pereat mundus” è la crisi costituzionale che sia Scalfari sia io paventiamo. Qualunque Corte costituzionale la prenderebbe in considerazione come male supremo da evitare. Per questo dicevo che l’esito del conflitto è scontato. Dire queste cose non è indebita interferenza sulla decisione della Corte, come crede Scalfari, ma è teoria della Costituzione. Leggendo che le Corti hanno il diritto d’essere protette da situazioni siffatte, per poter decidere nella “tranquillità del diritto”, non c’è da essere sconcertato “d’una scorrettezza”, come Scalfari dice d’essere, perché quella espressione viene da lontano, da un dibattito internazionale tra illustri costituzionalisti.
Scalfari, poi, mi fa dire che la Corte non avrebbe i poteri per risolvere il conflitto proposto, perché, dando ragione al Capo dello Stato, introdurrebbe un’innovazione della Costituzione. In verità, non ho detto questo ma che, per quanti danno alla parola “irresponsabilità” un significato più ristretto di “inconoscibilità” o “intoccabilità”  -  per quelli (e ce ne sono) che pensano così – l’accoglimento del ricorso sarebbe un’innovazione della Costituzione. L’interpretazione che facesse coincidere i significati, sia pure a proposito di una piccola, ma cruciale questione, avrebbe effetti di sistema difficilmente controllabili su tutto l’impianto dei poteri costituzionali, così come si è finora concepito. E, se è vero che, nel caso in questione, la Corte si trova in quel cul de sac di cui dice lo stesso Scalfari, la domanda è se non è sommamente inopportuno che ciò avvenga, e in queste circostanze. Poi, è verissimo, che la Corte dispone di tutti gli strumenti tecnici necessari per decidere come vuole (le sentenze additive e interpretative, però, di per sé non c’entrano: riguardano i giudizi sulle leggi, non i conflitti): dai principi, nel nostro caso il principio d’irresponsabilità presidenziale, si possono trarre regole specifiche per decidere i singoli casi, superando anche (ma qui non è il caso di scendere nei dettagli giuridici) contraddizioni o lacune legislative. Ma la questione non è di strumenti tecnici, ma  -  ripeto  -  di prudenza e responsabilità nel chiedere di attivarli.
L’ultima cosa che non ho detto è che il Capo dello Stato avrebbe frapposto “un insormontabile ostacolo alla ricerca della verità”. Ho detto invece che il ricorso, per effetto delle circostanze che non si controllano, è venuto ad assumere il significato d’un tassello in un disegno critico della magistratura, che finisce per indebolirne l’opera. Il che, guardando ciò che succede, mi pare incontestabile.
Sullo sfondo di tutto ciò, c’è una questione che emerge con chiarezza nelle considerazioni “pertinenti anche se non inerenti” che chiudono l’articolo di Scalfari. Esiste nel nostro Paese uno scontro aperto e, apparentemente, senza mediazioni. Da un lato, coloro che sostengono con convinzione che la magistratura (se non tutta, molte sue parti) esorbiti dai suoi poteri perché persegue il fine di sottomettere la democrazia o la politica al processo penale. Dall’altro, quelli che pensano che non si tratti affatto di questo, ma semplicemente di ampi settori del mondo politico che, avendo costruito le proprie fortune sull’illegalità, temendo l’azione giudiziaria, vogliono limitare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. I primi parlano di “guerra” dei magistrati contro la politica, di “giustizialismo”, ora di “populismo giuridico”; i secondi, specularmente, di “guerra” dei politici contro la magistratura, di “assalto” alla giustizia. Se davvero stato di guerra ci fosse (ecco la riserva cui accennavo all’inizio), allora anche le idee dovrebbero schierarsi, perché in guerra non solo tacciono le leggi, ma anche suonano le trombe che chiamano i cervelli all’adunata. Ai primi, però, bisognerebbe dire che i secondi non sono affatto tutti “antipolitici”, come vengono definiti con una parola violenta e disonesta, che non fa che creare ostilità contro “i politici” che la pronunciano; ai secondi, occorrerebbe dire che la critica distruttiva della politica non sappiamo dove ci potrebbe portare: ma non certo verso il regno della giustizia (e della democrazia). Coloro che sognano rivalse contro i magistrati dovrebbero chiedersi da dove nasce il risentimento contro “la politica” ch’essi impersonano e dovrebbero vedere che molti loro propositi non sono che altrettanti boomerang che alimentano le fila di chi sta dall’altra parte. Credono davvero che i diversi “riequilibri”, in questo clima di scontro, siano saggi propositi e non conati controproducenti? Il ricorso del Capo dello Stato ha aperto un “conflitto” giuridico ma, inevitabilmente, ha finito per essere inglobato, come suo episodio, in questo “conflitto” politico (astuzia perversa delle parole!). L’invito a ricercare una limpida soluzione della questione nella sede processuale ordinaria e a riconsiderare quindi l’opportunità di quel conflitto, nasce da qui.

Un tour di ghetto di Detroit.



Ancora notizie horror da Detroit. Nella città-incubo della crisi, si gettano cadaveri nei fossi e nelle discariche abusive.

http://crisis.blogosfere.it/2012/08/crisi-usa-a-detroit-si-gettano-i-cadaveri-in-strada.html

Super Prozac per i soldati USA. - Marco Cedolin



Il Pentagono sembra essere sempre più preoccupato per l'incremento esponenzialedei casi di suicidio che coinvolgono i militari americani. Il fenomeno sta continuando ad aumentare già da alcuni anni ed a nulla sono valsi finora i vari tentativi di contrastarlo da parte dei medici che hanno studiato il problema, basti pensare che nel solo mese di luglio 2012 si sono tolti la vita ben 26 soldati a stelle e strisce, il doppio di quanti compirono l'insano gesto nel luglio dello scorso anno.
Analizzare le reali cause di questa epidemia non è molto semplice, dal momento che la situazione sembra essere ingenerata da una svariata serie di dinamiche che interagiscono fra loro...dalla "paura del fronte" all'abuso di droghe sintetiche, passando attraverso gli sconvolgimenti mentali conseguenti alle atrocità compiute nei teatri di guerra e le difficoltà incontrate dai "veterani" nel reinserirsi all'interno della società.

Dal momento che intervenire nel merito delle cause, tentando di rimuovere il problema laddove esso s'ingenera, deve essere sembrata ai medici statunitensi un'impresa titanica assolutamente al di fuori della loro portata, si è preferito tentare di mettere una pezza con l'ausilio di qualche adittivo chimico, nella speranza che possa riequilibrare la situazione.

L'Università dell'Indiana ha infatti ricevuto un finanziamento di 3 milioni di dollariper sviluppare un medicinale a base dell'ormone TRH che garantirebbe ottimi e rapidi effetti antidepressivi, ma finora poteva venire esclusivamente somministrato attraverso dolorose punture lombari. Il progetto è quello di realizzare uno spray a base di TRH, introducendo l'ormone all'interno di nanoparticelle che costituiranno un guscio biodegradabile che verrà assorbito dai neuroni olfattivi.

Se il progetto andrà in porto, potrebbe dunque bastare un inalatore per riportare l'allegria fra i soldati USA e indurli a non "rimuginare" sui nemici uccisi, sui bambini straziati e sulle donne stuprate. Fra i popoli violentati e massacrati dall'occupazione americana, "l'allegria" invece continueranno a dispensarla le bombe, i droni ed i fucili dei marines che dopo il trattamento avranno riacquistato la gioia di vivere.

Nuova inchiesta su Dell'Utri. - Lirio Abbate e Paolo Biondani

Marcello Dell Utri

Manovre in parlamento, entrature nel governo, tangenti su un affaire di gas con la Russia. La Procura di Firenze indaga sul potere del senatore. E sul suo braccio destro Massimo De Caro, il consulente di Ornaghi che al telefono evocava interventi di Passera e dossier contro D'Alema.

Una lobby in grado di condizionare parlamentari, imprenditori e burocrati di altissimo livello, interferendo perfino sul governo Monti. Presunto burattinaio, il senatore Marcello Dell'Utri. Braccio operativo, Massimo De Caro, ex «consulente speciale» di due ministri dei Beni culturali, arrestato il 24 maggio con l'accusa di aver rubato centinaia di libri antichi dalla Biblioteca dei Girolamini a Napoli, di cui era diventato direttore tra molte polemiche. Mentre i magistrati partenopei continuano a indagare sui maxi-furti addebitati a De Caro (che dopo il ritrovamento a Verona dei primi 257 preziosi volumi, ora è sospettato di averne trafugati più di 2.200), la Procura di Firenze ha scoperto le carte di un'altra inchiesta. La nuova accusa che accomuna De Caro e Dell'Utri è una presunta corruzione: tangenti per favorire l'espansione in Italia del gruppo Avelar-Renova, un colosso dell'energia controllato da un miliardario russo con base in Svizzera. Seguendo la pista degli affari i carabinieri del Ros hanno intercettato De Caro per mesi, fino all'arresto per i libri rubati. Le telefonate considerate rilevanti svelano la sua rete di relazioni nei ministeri e nello staff di Palazzo Chigi. Un ruolo conquistato grazie al legame con Dell'Utri e i parlamentari più fedeli al senatore, che nel '93-94 fu il creatore del partito-azienda di Berlusconi. 

DALLA RUSSIA CON DE CARO
 . Tra aprile e maggio 2009 Dell'Utri incassa 409 mila euro sul suo conto al Credito Cooperativo Fiorentino, la banca allora guidata dal coordinatore del Pdl Denis Verdini, poi commissariata dopo l'indagine sulla "cricca" degli appalti. A versargli quei soldi è il bibliofilo De Caro. Sulla carta è il prezzo di una «epistola di Cristoforo Colombo del 1493». Per i giudici di Firenze, però, la giustificazione «è del tutto fittizia»: Dell'Utri non aveva quell'incunabolo, mentre De Caro gli ha girato soldi che aveva a sua volta ricevuto dai russi di Renova, di cui fino al 2009 fu manager (come rivelò "l'Espresso" del 22 dicembre 2010). Dunque quei bonifici, secondo i pm, servivano in realtà a comprare «l'influenza del senatore Dell'Utri sulle amministrazione pubbliche», per assicurare al gigante straniero, che in Italia fattura già un miliardo, nuove concessioni «di rilievo strategico», come i giacimenti di gas lucani a Grottole Ferrandina e Pisticci. Con le prime perquisizioni finora è emerso solo questa accusa, ma l'inchiesta è più ampia. Le intercettazioni documentano altri interventi di De Caro sul crinale tra affari e politica. E il suo cellulare registra le manovre di Dell'Utri e dei «suoi» parlamentari per influire su leggi e fondi pubblici. Per loro, Mario Monti è «un problema». Ma tra i papaveri della burocrazia c'è chi appoggia «l'uomo di Dell'Utri» perfino mentre il senatore è in attesa del verdetto per mafia della Cassazione. 


MI MANDA ROMANO
. Nel marzo-aprile 2012, mentre è consulente ministeriale, De Caro si fa in quattro per favorire un progetto privato: un impianto fotovoltaico a Gela da 110 milioni di euro, «per un terzo coperti da contributi pubblici». L'imprenditore interessato è Paolo Campinoti della Pramac di Firenze, che è in cordata con il solito gruppo Renova del miliardario Viktor Vekselberg. Da Cipro, il colosso russo ha già versato 1,2 milioni a De Caro, che ne ha girati un terzo al senatore. Nel febbraio 2012 De Caro sta gestendo «un nuovo progetto con Saverio Romano», l'ex ministro delle politiche agricole imputato per mafia. Quindi annuncia a Dell'Utri che «lunedì 13 Campinoti mi fa visitare la sua fabbrica a Lugano, al ritorno mi fermo da lei». Il senatore commenta: «Ottimamente». In Svizzera De Caro non va in fabbrica, ma nell'ufficio di un avvocato del colosso russo. Il 23 marzo, al secondo «incontro riservato» a Lugano, partecipa anche un siciliano, Domenico Di Carlo: è il capo della segreteria di Romano e per i magistrati «rappresenta gli interessi dell'ex ministro». Prima e dopo ogni visita in Svizzera, De Caro va a rapporto da Dell'Utri. E per i giudici è molto sospetto che Campinoti voglia cedere ai russi i «costi non industriali e di contorno». «Oneri di compensazione ai comuni? No, ai privati....», ci scherza sopra un faccendiere lucano, che segnala a De Caro le pretese di un politico soprannominato "Ciaffaraffà".


PRESSIONI SU ORNAGHI. Nato a Bari nel 1973, De Caro ha nel curriculum solo un'impresa (liquidata) di libri antichi e il lavoro di lobby per i russi, quando viene nominato, il 13 aprile 2011, «consulente speciale» del ministro dei Beni culturali Giancarlo Galan. In giugno diventa anche direttore della biblioteca dei Girolamini. E il 15 dicembre viene riconfermato dal nuovo ministro, Lorenzo Ornaghi, ex rettore della Cattolica, che però gli taglia lo stipendio a 40 mila euro l'anno. Dal ministero, De Caro tratta con politici e alti funzionari. Nel gennaio 2012 il senatore Elio Palmizio di "Coesione nazionale" gli annuncia un incontro con Ornaghi: «Mi ha chiamato il ministro, quindi ci vediamo prima noi per mettere giù tutte le cose da fare». All'uscita il parlamentare telefona a De Caro che «è andata bene»: «Abbiamo parlato di un sacco di cose. Con ordine: le deleghe lui non le fa scritte, però ci organizza l'incontro con il direttore generale delle biblioteche... Su Arcus mi ha detto che non c'è problema. Entro metà febbraio è operativo e da lì si parte per chiedere i soldi per le varie cose che ci interessano... Finché non si sblocca Arcus non posso fare un cacchio». Arcus è una società-cassaforte dei Beni culturali: secondo i carabinieri, il senatore pensava ai «suoi interessi». 

IMU ALLA CHIESA. Il 25 febbraio Dell'Utri è all'estero in attesa del verdetto per mafia. Alle dieci di sera De Caro gli chiede la sua approvazione a un «sub-emendamento sull'Imu della Chiesa» presentato dal senatore Salvatore Piscitelli: «Dove c'è un vincolo dei Beni culturali, non si deve pagare l'Imu... Ovviamente la Chiesa è d'accordo. Palmizio ha sentito il ministro Ornaghi che è contentissimo». Dell'Utri è «d'accordissimo»: «E' una cosa di giustizia, sottoscrivo». De Caro aggiunge: «Monti ha tagliato anche le agevolazioni per le dimore storiche, mentre noi con l'emendamento diciamo che deve continuare l'esenzione». Dell'Utri approva, «perché ci interessano le cose della Chiesa». L'unico problema è interno al Pdl: De Caro vorrebbe pubblicizzare «una delle prime cose che ha fatto la nostra corrente del Buongoverno», ma «Letta voleva andare dall'associazione delle dimore storiche a dire: vi ho difeso io». Al che Dell'Utri s'infuria: «E' un pezzo di m...». 


FALLO PER L'AMBIENTE. Il 15 marzo un funzionario delle Politiche agricole, Giamberto De Vito, segnala a De Caro l'imprenditore italiano C. che «vuole investire centinaia di milioni per le serre in Russia»: «Mi sono permesso di fargli avere la tua lettera d'intenti, che il ministro Catania non ha più portato avanti. Gli ho detto che hai un sacco di entrature». De Caro chiama subito l'imprenditore: «Vediamoci a Roma, ho l'ufficio al ministero dei Beni culturali...». De Caro era stato designato da Galan anche per il direttivo del parco del Gran Sasso, ma la nomina ora spetta ai nuovi ministri. Bisogna sapere se hanno già scelto un altro. Dopo una telefonata a Dell'Utri e un incontro con Romano, che vanta «ottimi rapporti con Catania», De Caro riesce a sapere che «non c'è ancora nulla di firmato»: glielo comunica il capo di gabinetto dell'Ambiente, che non è suo amico. Infatti De Caro gli telefona sotto falso nome: «Sono il dottor Tuzzi». 

PASSERA E LA REGIONE
. Il 27 gennaio De Caro fa il punto su un progetto di Renova in Basilicata: «Oltre al politico nazionale, lì è intervenuto, sul presidente della Regione, il ministro Passera, perché ha ricevuto una telefonata molto minacciosa dall'ambasciatore russo, dicendo che se non avessero dato questa concessione, avrebbe creato problemi tra Italia e Russia». De Caro racconta spesso balle che gli fanno comodo. Certo è che l'oligarca Vekselberg è davvero protetto da Putin. 

D'ALEMA E LA LIBIA
 . In gennaio De Caro tenta di ispirare un dossier contro Massimo D'Alema. Come presunta fonte cita l'amico pugliese Roberto De Sanctis, che lavorò con lui per i russi. «Roberto ha organizzato viaggi in Libia su mandato dell'altro quando era ministro, con aerei privati, per fare contratti con la società del gas libica. Ci sono anche scambi di lettere. Poi l'hanno presa nel sedere perché era calato il gas». Anche queste parole vanno prese con le pinze: l'amico di Dell'Utri può avere interesse a screditare D'Alema. Ma in altri casi De Caro parla direttamente con i politici.


L'AMICO POMICINO. Quando il governo Monti annuncia il taglio degli incentivi al fotovoltaico, l'imprenditore Campinoti cerca «una via politica per tenere Gela fuori dal quinto conto energia». In aprile incontra a Palermo l'ex ministro Paolo Cirino Pomicino, che promette aiuto: «Bisogna salvare il progetto». L'imprenditore si è indebitato per la crisi e il politico di Tangentopoli gli garantisce appoggi anche con le banche. «Sono a Roma, oggi rivedo il gran capo», lo rassicura, senza fare nomi al telefono. 

MARCELLO IN CASSAZIONE
. Il 9 marzo, mentre la Suprema Corte decide, Dell'Utri è all'estero. Quando esce la sentenza, è De Caro a passargli la moglie Miranda, che gli elenca gli amici in festa, da Verdini al senatore Riccardo Villari. Proprio De Caro è l'unico a sapere dov'è Dell'Utri: «Madrid? No, c'è un oceano di mezzo. Brasile? No: parlano spagnolo».


http://espresso.repubblica.it/dettaglio/nuova-inchiesta-su-dellutri/2186911//2