martedì 11 gennaio 2022

L’ambivalenza di raffinato stampo diccì. -- Antonio Padellaro

 

Naturalmente, la “postilla” di Mario Draghi “non risponderò a domande sul Quirinale”, riguardo cioè all’argomento più atteso dai giornalisti convenuti in conferenza stampa, come tutti i silenzi programmatici rappresenta di per sé una risposta possibile, o forse anche tre.

1. Il muro innalzato su un possibile trasloco da Palazzo Chigi al Quirinale confermerebbe la controversa battuta sul “nonno” a disposizione delle istituzioni pronunciata nell’incontro con la stampa del 22 dicembre. Quindi, sì, Draghi si sente ancora in corsa e proprio per questo sposa la linea del mutismo per non accendere nuovi fuochi nella sua stessa maggioranza. Quieta non movere, gli avrebbe suggerito il suo insegnante di latino all’Istituto Massimo.

2. E invece no, perché Draghi ha ben compreso che dovrà restare a Palazzo Chigi e ha già accantonato nel suo intimo l’ipotesi Quirinale. Infatti, la somma dei problemi illustrati – dall’emergenza sanitaria alle conseguenze prevedibili e imprevedibili connesse alla riapertura delle scuole in presenza – è tale che perfino alludere a una sua nonnesca disponibilità avrebbe costituito dinamite pura per il governo di unità nazionale. Tanto più che la frase chiave è: “Se c’è voglia di lavorare insieme, il governo va avanti bene”. E dunque si andrà avanti.

3. In realtà, Draghi, a due settimane dalla corsa per il Colle vuole lasciarsi tutte le strade aperte. E trasferisce la patata bollente nella mani dei partiti. Spetta a loro decidere se e come giocare la carta Draghi e lo faranno non potendosi aggrappare a un no ma neppure a un sì del presidente del Consiglio. Una mossa ambivalente di raffinato stampo democristiano anche se il premier ha chiuso con una seconda postilla sicuramente non ascrivibile ad ammiccamenti e furbizie. È stato quando ha definito un “atto riparatorio” la conferenza stampa di ieri, convocata, ha ammesso, dopo le critiche sollevate per il suo pesante silenzio (le sera del Consiglio dei ministri dedicato all’obbligo vaccinale) che ha definito “sottovalutazione delle attese”. Non ricordiamo precedenti del genere.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/01/11/lambivalenza-di-raffinato-stampo-dicci/6451661/?fbclid=IwAR0BUPidoo32czyuVewok988kq1IE3Ijlroy3ZmmBaDECQh2zXHoBop5PUg

IL PRESIDENTE CHE VOGLIAMO .

 

Insieme alle elezioni politiche, l’elezione del Presidente della Repubblica è l’atto politico più prossimo alla sovranità democratica in forma rappresentativa e centrata sul Parlamento. Il legame è forte benché indiretto, tenuto insieme dagli eletti che, vale la pena di ricordarlo, non operano mai in nome proprio ma sempre in nome dei cittadini sovrani. Un legame indiretto, che si manifesta in una figura istituzionale, quella del Presidente, la quale è il volto della Nazione verso l’esterno e rispetto alle sue varie parti, quindi agli organi amministrativi e alle culture delle città e delle Regioni.

Nella Presidenza della Repubblica è rappresentato il Paese, di fronte agli altri e a se stesso.  Per questo, i Costituenti vollero la Presidenza sganciata dai partiti, benché ai partiti si debba lo sforzo maggiore di sintesi nella ricerca e di costruzione della candidatura.  Il Presidente è la figura nella quale tutte e tutti noi possiamo sentirci rappresentati, perché non risponde a nessuna volontà particolare o parziale. La sua volontà deve perseguire sempre e solo l’interesse generale – per questo la ricerca del candidato o della candidata è un compito difficile, un impegno serio che deve essere ispirato da una responsabilità disinteressata.

Nel caso dell’elezione del Presidente della Repubblica, il Parlamento dà il meglio di sé giungendo alla più ampia maggioranza, idealmente all’unanimità – una condizione che è diversa, se non opposta, alla sua attività ordinaria, quando esercita il potere legislativo. Questo complesso processo di sintesi raggiunta a partire dalle differenze dovrebbe concludersi nell’individuazione di una personalità onorevole, degna, e fedele alla Costituzione della Repubblica, per autentica convinzione e non per semplice atto formale di giuramento.

Qualcuno che, come accaduto a Silvio Berlusconi, ha subìto una condanna penale definitiva e che per tale ragione è stato dichiarato decaduto dalla carica di senatore non è degno di essere candidato alla Presidenza della Repubblica. Come pure è indegna qualsiasi operazione che intenda usare il nome di Silvio Berlusconi per condizionare quei voti dai quali potrà dipendere l’elezione del Presidente. Eppure,  se pur indirettamente l’impresentabile leader di Forza Italia potrebbe determinare l’esito di questa elezione.

Una simile eventualità, che trapela dai mezzi di informazione, disturba il senso etico dei cittadini.  Le istituzioni della Repubblica, già pesantemente sfigurate dal referendum del 2020, che ha gravemente limitato il numero dei parlamentari e quindi la rappresentanza, potrebbero subire un ulteriore colpo se chi siede in Parlamento non avrà il senso civico e il coraggio politico di impedire che questo miserevole gioco abbia successo.

L’elezione del Presidente potrebbe essere per i partiti un’opportunità per mostrare la loro dignità di associazioni politiche democratiche. Libertà e Giustizia si rivolge a loro e ai parlamentari affinché avvertano la responsabilità di “nobilitare” l’elezione del Presidente. I cittadini vogliono una figura di cui essere orgogliosi, che rappresenti un modello civile e che parli al Paese con una voce sola, autorevole e indipendente. Vogliono, soprattutto, che rispetti la Costituzione e ne incarni i valori più profondi.

http://www.libertaegiustizia.it/2022/01/09/il-presidente-che-vogliamo-2/