venerdì 17 aprile 2015

Sicilia, chiusura Palermo-Catania: ecco le strade alternative.




Ecco alcuni percorsi alternativi in Sicilia, individuati da Anas a seguito della chiusura dell’autostrada A19 Palermo-Catania, che ha reso necessaria l’uscita obbligatoria allo svincolo di Scillato (km 56,800) per il traffico diretto a Catania e l’uscita obbligatoria a Tremonzelli (km 73,000) per il traffico diretto a Palermo.
L'Anas ha avviato da ieri i sondaggi per individuare le dimensioni del nuovo viadotto; è in corso anche la progettazione esecutiva sia della bretella di collegamento che della demolizione del viadotto dissestato.

Per i veicoli con massa complessiva superiore a 3,5 tonnellate diretti a Catania, il percorso consigliato è verso l’autostrada A20 ‘Palermo-Messina’ e A18 ‘Messina-Catania’ con uscita allo svincolo di ‘Buonfornello’ dell’autostrada A19. Percorso inverso per i veicoli diretti a Palermo. 


Per gli autoveicoli con massa complessiva inferiore alle 3,5 tonnellate diretti a Catania, invece, il percorso alternativo consigliato è individuato dallo svincolo di Scillato sulla strada statale 643 e successivamente sulla strada statale 120 fino allo svincolo di Tremonzelli sull’A19. Percorso inverso per i veicoli diretti a Palermo.
Il percorso è consigliato anche agli autobus destinati a servizio pubblico di linea oltre che ai mezzi di soccorso.  Infine, per gli utenti che utilizzano l’autostrada per gli spostamenti locali, quale ulteriore percorso alternativo si consiglia l’uscita dall’autostrada allo svincolo di Resuttano proseguendo sulla strada provinciale 19 fino ad Alimena; lungo la strada statale 290 fino al bivio Madonnuzza; lungo la strada statale 120 fino al bivio Geraci; lungo la strada statale 286 fino allo svincolo Castelbuono con immissione sull’autostrada A20.

Giuseppe Pezzati, presidente di Confartigianato Trasporti Palermo e componente del Consiglio nazionale Trasporti della Confederazione, punta ai porti della regione per far fronte alla situazione di emergenza. In particolare si fa riferimento a quelli di Trapani, Termini Imerese e Messina: Pezzatio punta quindi a "una mobilità sostenibile volta a decongestionare il traffico dei mezzi pesanti sulla Palermo-Messina, attualmente unica via di collegamento fra la Sicilia occidentale e quella orientale".
Pezzati, che lo corso martedì ha incontrato i rappresentanti dell’assessorato regionale Infrastrutture e trasporti per esaminare le possibili soluzioni  rispetto all’emergenza creatasi a seguito del cedimento del ponte Himera sulla A19 ha dichiarato: “In questo momento il percorso via mare ci appare una valida alternativa per evitare ingorghi e lunghe file- spiega Pezzati- . Questo, soprattutto in vista della stagione estiva, quando il flusso di mezzi sarà maggiore. In attesa che venga realizzata la bretella, la Regione siciliana potrebbe mettere a disposizione per il trasporto merci i traghetti dell’Isola che eseguirebbero, ad esempio, le tratte Trapani-Messina e Termini Imerese- Messina”. 


http://www.trasporti-italia.com/autotrasporto/sicilia-chiusura-palermo-catania-ecco-le-strade-alternative/20943

Mafia, pentito: “Alfano portato da Cosa Nostra. Berlusconi pedina di Dell’Utri”. - Giuseppe Pipitone

Mafia, pentito: “Alfano portato da Cosa Nostra. Berlusconi pedina di Dell’Utri”

Sono alcune delle dichiarazioni rilasciate alla Corte d'Assise di Palermo da Carmelo D'Amico, l'ex killer di Barcellona Pozzo di Gotto, oggi diventato l'ultimo super testimone dell'inchiesta sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra. I magistrati lo considerano un collaboratore altamente credibile. Merito delle confidenze raccolte nei due anni trascorsi in carcere con Nino Rotolo, il boss di Pagliarelli fedelissimo di Bernardo Provenzano.

Il ministro dell’Interno Angelino Alfano? “Portato da Cosa nostra, ma poi gli ha voltato le spalle”. Forza Italia? “Nata per volere dei servizi segreti”. Silvio Berlusconi? “Una pedina nelle mani di Marcello Dell’Utri”. Il pm Nino Di Matteo? “Lo vogliono morto sia Cosa Nostra che i servizi segreti”. Parola di Carmelo D’Amico, l’ex killer di Barcellona Pozzo di Gotto, oggi diventato l’ultimo super testimone dell’inchiesta sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra.
È un collaboratore importante D’Amico, un pentito che i pm del pool Stato – mafia considerano altamente credibile. Merito delle confidenze raccolte nei due anni trascorsi in carcere con Nino Rotolo, il boss di Pagliarelli fedelissimo di Bernardo Provenzano. “Rotolo mi disse che Matteo Messina Denaro non è il capo di Cosa nostra, perché è il capomandamento di Trapani: ma il capo di Cosa nostra non può essere un trapanese, deve essere palermitano”, è uno dei tanti passaggi della deposizione di D’Amico, ascoltato come testimone dalla corte d’Assise di Palermo che sta processando politici, boss mafiosi ed alti ufficiali dei carabinieri per il patto segreto tra pezzi delle istituzioni e Cosa Nostra.
Un racconto cominciato con un mea culpa: “Ho commesso almeno una trentina di omicidi, soprattutto per i catanesi dal 1992 in poi: a un ragazzo ho anche tagliato le mani”, ha confessato D’Amico, spiegando di aver deciso di collaborare con la magistratura “dopo la scomunica dei mafiosi di Papa Francesco, quelle parole mi hanno colpito moltissimo”. L’anatema del pontefice contro i boss è del 21 giugno 2014: da quel momento D’Amico inizia ad aprire il suo personalissimo libro dei ricordi, prima davanti ai pm della dda di Messina, e poi con i magistrati del pool palermitano.
È davanti ai pm Nino Di Matteo, Roberto TartagliaVittorio Teresi e Francesco Del Bene che D’Amico mette a verbale tutto quello che ha appreso sui rapporti tra Cosa Nostra e le Istituzioni. Un racconto pieno di rivelazioni inedite, replicato davanti alla Corte d’Assise, che coinvolge direttamente il ministro dell’Interno. “Angelino Alfano – ha spiegato D’Amico collegato in videoconferenza con l’aula bunker del carcere Ucciardone– è stato portato da Cosa nostra che lo ha prima votato ad Agrigento, ma anche dopo. Poi Alfano ha voltato le spalle ai boss facendo leggi come il 41 bis e sulla confisca dei beni”.
Ma non solo. Perché a godere dell’appoggio delle cosche sarebbe stato anche l’ex presidente del Senato Renato Schifani, già indagato per concorso esterno alla mafia e poi archiviato. “Cosa nostra ha votato anche Schifani, poi hanno voltato le spalle, e la mafia non ha votato più Forza Italia”. Per il collaboratore, poi, il partito di Silvio Berlusconi sarebbe nato perché sostenuto direttamente da Totò Riina e Bernardo Provenzano. “I boss votavano tutti Forza Italia, perché Berlusconi era una pedina di Dell’Utri, Riina, Provenzano e dei Servizi. Forza Italia è nata perché l’hanno voluta loro”. Poi però il patto tra politica e boss s’interrompe. “All’epoca i politici hanno fatto accordi con Cosa nostra, poi quando hanno visto che tutti i collaboratori di giustizia che sapevano non hanno parlato, si sono messi contro Cosa nostra, facendo leggi speciali, dicendo che volevano distruggere la mafia”.
D’Amico ha anche raccontato che a Barcellona Pozzo di Gotto era attiva una loggia massonica. “Ne facevano parte uomini d’onore, avvocati e politici, e la comandava il senatore Domenico Nania (ex vice presidente del Senato col Pdl) : a questa apparteneva anche Dell’Utri”. La fonte dell’ex killer di Barcellona Pozzo di Gotto è Rotolo, il boss palermitano con il quale condivide tra il 2012 e il 2014 l’ora di socialità. Rotolo è un pezzo da novanta, ex fedelissimo di Totò Riina e poi di Bernardo Provenzano. “Mi raccontò che i servizi avevano fatto sparire dal covo di Riina un codice di comunicazione per mettersi in contatto con politici e gli stessi agenti dei servizi”. Ma il boss di Pagliarelli avrebbe fatto a D’Amico anche confidenze sulla latitanza di Provenzano. “Mi disse anche che Provenzano era protetto dal Ros e dai Servizi e non si è mai spostato da Palermo, tranne quando andò ad operarsi di tumore alla prostata in Francia”.
Ed è sempre Rotolo che racconta a D’Amico il piano di morte per assassinare Di Matteo. “Rotolo ne parlava con Vincenzo Galatolo: all’inizio non lo chiamavano per nome, ma lo definivano cane randagio, poi io chiesi di chi parlavano e mi risposero che si trattava di Di Matteo, e che aspettavano da un momento all’altro la notizia dell’attentato”. Il racconto di D’Amico riscontra implicitamente le rivelazioni di Vito Galatolo, figlio di Vincenzo, il boss dell’Acquasanta, che per primo ha svelato come a partire dal dicembre del 2012, Cosa Nostra avesse studiato nei dettagli un piano per assassinare il pm della Trattativa. “Era stabilito che il dottor Di Matteo doveva morire – ha aggiunto D’Amico – Rotolo mi ha raccontato che i servizi segreti volevano morto prima il dottor Antonio Ingroia, poi Di Matteo. E siccome Provenzano non voleva più le bombe, dovevamo morire con un agguato”.
Anche Vito Galatolo ha raccontato che in un primo momento l’attentato contro il pm palermitano doveva essere fatto con 200 chili di tritolo, già acquistati dalla Calabria e arrivati a Palermo. Poi però si passò ad un piano di riserva, che prevedeva l’eliminazione del magistrato in un agguato a colpi di kalashnikov. Appena poche settimane fa l’allerta al palazzo di Giustizia è tornata ai massimi livelli, dato che uomini armati sarebbero stati localizzati nei pressi di un circolo tennistico sporadicamente frequentato dal pm. E se Galatolo aveva indicato in Messina Denaro il mandante dell’omicidio (“Perché Di Matteo si sta spingendo troppo oltre” aveva scritto il padrino di Castelvetrano ai boss di Palermo) per D’Amico l’ordine arrivava anche da altri ambienti.
“A volere la morte di Di Matteo erano sia Cosa Nostra che i Servizi perché stava arrivando a svelare i rapporti dei Servizi come fece a suo tempo il dottor Giovanni Falcone”. E quando ad un certo punto l’attentato sembra essere entrato in fase d’impasse, Rotolo e Vincenzo Galatolo provano ad inviare D’Amico a Palermo. “Io – ha spiegato il pentito – dovevo uscire da lì a poco dal carcere e si parlava di delegare me per portare avanti questa cosa”. Il vero chiodo fisso di D’Amico, però, sono i servizi. “Arrivano dappertutto ed è per questo che altri pentiti come Giovanni Brusca e Nino Giuffré non raccontano tutto quello che sanno sui mandanti esterni delle stragi”. Alla fine ecco anche una paradossale precisazione. “I servizi organizzano anche finti suicidi in carcere: per questo voglio chiarire che io godo di ottima salute e non ho nessuna intenzione di suicidarmi”.

Riapre il centro per migranti di Lampedusa. A dirigerlo il suocero del fratello di Alfano. - Lorenzo Galeazzi



Lampedusa è con il fiato sospeso: la paura degli isolani è di tornare ad essere la frontiera militarizzata d’Europa. Sì, perché il combinato disposto fra il probabile arretramento della missione di ricerca e soccorso in alto mare Mare Nostrum (o la sua sostituzione con l’europea Frontex plus) e la riapertura del centro per immigrati vuole dire solo una cosa: riportare le lancette dell’orologio a quando l’Isola era il principale punto di accoglienza dei flussi migratori provenienti dall’Africa. Ai tempi a gestire la struttura era la Lampedusa Accoglienza, una cooperativa controllata dal Consorzio Sisifo che ha dovuto fare le valige dopo la diffusione da parte del Tg2, a dicembre 2013, del video choc dei migranti disinfettati con l’idrante all’interno della struttura.
Poi è arrivata Mare Nostrum e gli immigrati, recuperati dalla nostra Marina militare a poche miglia dalle coste della Libia, venivano trasbordati direttamente in Sicilia o in Calabria, così il centro di contrada Imbracola è rimasto praticamente quasi sempre chiuso, eccezion fatta per qualche piccolo sporadico sbarco.
Ora, passate le celebrazioni per la strage del 3 ottobre 2013 e tornati a casa i superstiti di quel terribile naufragio, a Lampedusa si torna a fare sul serio e il centro, dopo un mese di lavori di ristrutturazione, è pronto a riaprire i battenti sotto una nuova gestione: quella della Confederazione nazionale delle Misericordie che si è aggiudicata l’appalto in seguito a una procedura negoziata della Prefettura di Agrigento. A dirigerlo c’è Lorenzo Montana che annuncia l’apertura ufficiale entro fine mese: “Ma già da ora siamo in condizione di accogliere perché abbiamo dei moduli operativi”.
In attesa dei primi ospiti, il nuovo direttore si deve però difendere da una parentela ingombrante: sua figlia è sposata con Alessandro Alfano, fratello del ministro dell’Interno Angelino: “Non sono stato scelto dal capo del Viminale, ma dalla Confederazione Misericordie per le mie qualità personali, umane, professionali e intellettive. E anche perché sono un lampedusano doc”. 
E il ministro? “A lui che interessa? Io ho rapporti con con il prefetto Morcone e col mio prefetto che è il dottor Diomede”. Il primo è Mario Morcone, da giugno capo del dipartimento Immigrazione del Viminale, il secondo, Nicola Diomede, dirige invece la Prefettura di Agrigento, persone a stretto contatto con il fratello del genero di Montana. Ma lui tiene botta: “Sono idoneo a dirigere in questo lembo di terra, che è l’ultimo d’Europa, una struttura così importante come il Cpsa”  

Consulenze pubbliche alla moglie di Alfano E l'avvocato del ministro vince l'appalto Expo. - Emiliano Fittipaldi

Consulenze pubbliche alla moglie di Alfano 
E l'avvocato del ministro vince l'appalto Expo

Tiziana Miceli e Angelino Alfano

Mauro Masi, l'ex dg Rai a capo della Consap, ha girato almeno cinque incarichi a Tiziana Miceli, la consorte di Angelino. Andrea Gemma, avvocato dell'Ncd e fedelissimo di Alfano piazzato all'Eni, ha vinto un bando da 630 mila euro. Ecco la rete di interessi del titolare dell'Interno. Che replica: "Mistificazioni". Ma non smentisce.


Consulenze pubbliche alla moglie di Alfano. 
E l'avvocato del ministro vince l'appalto Expo. 

Che Angelino Alfano sia un ministro miracolato (dal caso dell'espulsione illegittima della dissidente Alma Shalabayeva alle manganellate della polizia agli operai delle acciaierie di Terni, in due anni appena il Parlamento ha già votato - e respinto - due richieste di dimissioni) è cosa nota. Meno nota, invece, è la rete di "relazioni pericolose" del titolare dell'Interno, e l'intreccio di interessi politici e economici che "L'Espresso"  è in grado di raccontare per la prima volta.

Partendo dalla moglie del ministro dell'Interno Angelino Alfano, Tiziana Miceli, che ha appena avuto cinque consulenze dalla Consap, la concessionaria dei servizi assicurativi pubblici controllata dal ministero dell'Economia che fornisce servizi al ministero dell'Interno e a quello dello Sviluppo Economico. In una dichiarazione firmata il 24 febbraio 2014 la Miceli dichiara di essere già «titolare di incarichi di assistenza legale conferiti da Consap», ma tra fine 2014 e l'inizio del 2015 lo studio della Miceli (il poco conosciuto RM-Associati, di cui risulta socio anche Fabio Roscioli, avvocato di Alfano) ha ottenuto altri cinque incarichi, l'ultimo a fine gennaio.

La moglie di Angelino è stata assunta grazie a una delibera firmata da Mauro Masi, amministratore delegato della Consap ed ex direttore generale della Rai ai tempi del governo Berlusconi, boiardo vicino al centro destra che il governo di Matteo Renzi ha persino promosso qualche mese fa, confermandolo sulla poltrona di ad e concedendogli anche quella da presidente. «Gli importi» della consulenza della Miceli, si legge nelle determine, «saranno quantificati all'esito delle attività». Speriamo, per le casse pubbliche, non siano troppo alti.

Non è tutto. La Miceli in passato ha ottenuto altri incarichi da alcune amministrazioni pubbliche siciliane (dalla provincia di Palermo all'Istituto autonomo case popolari di Palermo) sempre controllate dal centro destra, mentre nel 2014 la moglie di Angelino risulta aver difeso anche gli interessi di una società (la Serit) insieme al collega Angelo Clarizia.

Non un avvocato qualsiasi, Clarizia: è infatti socio in affari di Andrea Gemma, amico storico di Alfano e altro vertice di peso della sua rete relazionale, in passato consigliere ministeriale a cachet  e oggi membro del cda dell'Eni e commissario liquidatore di aziende importanti come la Valtur.

Gemma e Clarizia sono legatissimi: i loro studi hanno di recente anche vinto un appalto per i servizi legali dell'Expo (da 630 mila euro) e, in barba a qualsiasi conflitto di interessi potenziale, "L'Espresso" ha scoperto che da poco i due hanno difeso anche gli interessi del Nuovo Centro Destra, il partito del ministro dell'Interno.

Ore 19: Il ministro Alfano ha voluto replicare al nostro articolo. Qui il suo commento e la nostra replica:

"Purtroppo L'Espresso insiste e ci ricasca: non appagato dalla recente condanna per diffamazione subita in Tribunale - dove mi è stato riconosciuto il danno subito - replica il disegno denigratorio nei confronti miei e di mia moglie. Come al solito, "L'Espresso" costruisce scenari mistificatori e suggestivi. Ancora una volta questo organo di disinformazione mirata si esercita nel tentativo vano, ma non per questo meno grave, di gettare discredito, e non soltanto sulla mia persona''. ''Ci rivedremo, mio malgrado, di fronte a un Tribunale che saprà individuare tra persone defunte date per vive, circostanze false, notizie irrilevanti, fatti comici, errori marchiani e astruse manipolazioni della realtà, tutti gli elementi del doloso e reiterato intento diffamatorio".

Angelino Alfano, ministro dell'Interno

La nostra risposta: 
Prendiamo atto della dichiarazione del ministro Alfano. Che però non smentisce nessuna delle circostanze documentate che abbiamo descritto nell'inchiesta. Nel frattempo l'ad della Consap Mauro Masi ha ammesso pubblicamente che Tiziana Miceli lavora per la sua società dal 2011.

Minoranza Pd rivela: “Direzione de l’Unità in cambio dell’approvazione dell’Italicum”. - Stefano Iannaccone e Antonio Pitoni

Minoranza Pd rivela: “Direzione de l’Unità in cambio dell’approvazione dell’Italicum”

Retroscena dalla trattativa in corso sulla legge elettorale. Rivelato dallo sfogo di alcuni parlamentari antirenziani. "Ci è stato proposto di condividere la scelta del nuovo direttore del giornale in cambio di un ammorbidimento sull’Italicum".

l’Unità” «usata come merce di scambio tra le diverse fazioni del Pd». La denuncia arriva dal comitato di redazione (cdr) dello storico giornale fondato da Antonio Gramsci. Finito, secondo indiscrezioni raccolte da ilfattoquotidiano.it, sul piatto della trattativa in corso all’interno del Partito democratico in vista dell’assemblea del gruppo della Camera di stasera sulla riforma della legge elettorale. «E’ inaccettabile che un’azienda editoriale sia piegata a obiettivi politici – scrive l’organo sindacale dei giornalisti –. E’ inaccettabile minare così l’autonomia di cui la redazione è sempre stata gelosa custode». Il cdr non si spinge oltre. Ma c’è chi, nella minoranza Pd, parla di una vera e propria offerta arrivata da Matteo Renzi.
«Ci è stato proposto di condividere la scelta del nuovo direttore de “l’Unità” in cambio di un ammorbidimento della nostra posizione, notoriamente contraria, sull’Italicum – rivela un autorevole esponente della minoranza dem –. Una proposta che ovviamente abbiamo rifiutato». Un episodio che non sorprende naturalmente chi a quell’incontro non era presente. «Renzi ci ha offerto nell’ordine: posti da ministro, la garanzia del 30% di nominati nelle liste bloccate dell’Italicum e la promessa di modificare la riforma costituzionale – rivela un altro parlamentare della sinistra Pd –. Non mi stupisce che nel pacchetto abbia aggiunto anche il prossimo direttore de “l’Unità”, fermo restando che sarebbe in ogni caso una proposta irricevibile». Anche perché, aggiunge, «è stato Renzi a fare l’operazione, a scegliere il nuovo editore, escludendo altre soluzioni che apparivano più solide e credibili, a questo punto proceda lui anche alla scelta del direttore». Aspettando il redde rationem di stasera sull’Italicum, un altro deputato lontano dalle posizioni di Renzi, di fronte alle indiscrezioni che circolano circa l’offerta legata alla direzione del quotidiano non riesce a nascondere il suo stupore: «E’ sconcertante», afferma.
Dopo la chiusura de L’Unità l’estate scorsa , la prospettiva di riaprire i battenti si era da poco concretizzata. «I giornalisti dell’Unità hanno accettato 35 giorni fa (era il 5 marzo) un accordo doloroso con la società Unità srl del gruppo Veneziani (il nuovo editore, ndr) – ricorda ancora il cdr –. Tutti i passaggi tecnici necessari alla riapertura del quotidiano sono stati superati». Poi un rinvio dopo l’altro. «Doveva essere entro Natale, poi a febbraio, quindi il 25 aprile. Tutto con grandi squilli di tromba. Oggi – conclude il comitato di redazione – non c’è più neanche una data. Quello che resta degli annunci è solo un danno economico notevole per il giornale, che si prepara a ripartire in una fase dell’anno, quella estiva, in cui il mercato è più debole».