Le leggi "gradite" ai boss e raccontate in anticipo dall'ex senatore di Forza Italia allo stalliere di Arcore, i soldi che sempre il suo storico braccio destro avrebbe continuato a versare a Cosa nostra anche dopo l'elezione a Palazzo Chigi: sono i temi contenuti nella sentenza di primo grado sui quali l'ex premier - dipinto nella stessa sentenza come una vittima della minaccia stragista - avrebbe potuto fare chiarezza, se non si fosse avvalso della facoltà di non rispondere.
Si è seduto allo stesso posto di Tommaso Buscetta: da quella sedia il boss dei due mondi svelò al mondo i segreti della mafia. Silvio Berlusconi, però, non era un pentito ma soltanto un teste assistito. Come tale aveva due opzioni: avvalersi della facoltà di non rispondere; oppure chiarire almeno una parte delle accuse e dei sospetti che da anni proiettano un’ombra sulla sua carriera d’imprenditore e politico. D’altra parte lo status di indagato di reato connesso l’ex premier lo ha incassato grazie al fatto che la procura di Firenze lo indaga per reati atroci come le stragi di Milano, Roma e Firenze del 1993, e gli attentati falliti a Maurizio Costanzo e a Totuccio Contorno. Accuse gravissime: non valeva la pena cogliere l’occasione del viaggio a Palermo per chiarire ogni cosa? Anche perché nella sentenza di primo grado della Trattativa l’ex premier viene dipinto come una vittima della minaccia stragista rivolta da Cosa nostra allo Stato. Se a Palermo avesse scelto l’opzione numero due avrebbe dovuto soltanto dire la verità, mentre accusa e difesa non avrebbero potuto porre domande su questioni lontane dai fatti oggetto del processo. Anche quando il teste assistito decide di rispondere, infatti, gli viene sempre garantita la possibilità di rimanere in silenzio per evitare che faccia dichiarazioni auto accusatorie.
Il silenzio con 12 parole – Garanzie che non sono bastate a Berlusconi. Che alla fine ha scelto l’opzione numero uno, la via del silenzio, formalizzata con dodici parole: “Su indicazione dei miei avvocati, mi avvalgo della facoltà di non rispondere”. Nessuno spazio alle battute e neanche alle immagini dato che da uomo di televisione ha evitato accuratamente di farsi immortalare all’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo, l’astronave verde costruita per il Maxiprocesso. Dalle sbarre mancava solo che spuntasse il fantasma di Vittorio Mangano, stalliere ad Arcore e capomafia a Porta Nuova, anche lui tra gli imputati dello storico procedimento istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Sarà stato per il potere evocativo dei luoghi che l’ex premier ha optato per un veloce blitz nel capoluogo siciliano: arrivato in aeroporto pochi minuti prima della deposizione, è andato via subito dopo.
Fuga dalle domande – In mezzo, appunto, ha pronunciato quelle dodici parole che ha usato per spiegare al giudice Angelo Pellino l’intenzione di avvalersi della facoltà di non rispondere. La stessa facoltà che Berlusconi aveva già esercitato nel 2002: all’epoca i giudici che stavano processando Marcello Dell’Utri per concorso esterno a Cosa nostra andarono a Palazzo Chigi per interrogare lo storico datore di lavoro del loro imputato. Anche quella volta l’allora presidente del consiglio decise di non dire nulla. Dell’Utri sarebbe poi stato condannato a sette anni, una pena che finirà di scontare tra poche settimane. Ed è proprio per evitare di finire in carcere di nuovo che l’ideatore di Forza Italia ha citato l’amico Silvio. Un’occasione che l’uomo di Arcore avrebbe potuto sfruttare a suo vantaggio e spiegare una serie di circostanze, mentre nello stesso tempo dava un aiuto al compagno di una vita.
Ha mai avuto pressioni mafiose tramite Dell’Utri? – Così non è stato. La domanda che con tutta probabilità Francesco Centonze, legale di Dell’Utri, avrebbe voluto fare all’illustre testimone è rimasta senza risposta: presidente, nel 1994 il suo governo ha mai ricevuto minacce mafiose tramite Dell’Utri? D’altra parte era la stessa ordinanza con cui nel luglio scorso la corte aveva dato il via libera alla sua audizione a recitare l’oggetto della trasferta siciliana di Berlusconi: “Riferire quanto sa a proposito delle minacce mafiose subite dal governo da lui presieduto nel 1994 mentre era premier”. Dell’Utri, infatti, è stato condannato in quanto cinghia di trasmissione delle intimidazioni provenienti dai boss mafiosi e indirizzati a Palazzo Chigi. Come la pensa Berlusconi al riguardo lo ha già detto il 20 aprile del 2018, il giorno della sentenza di primo grado: “Non abbiamo ricevuto nel 1994, né successivamente, nessuna minaccia dalla mafia o dai suoi rappresentanti”. È per questo motivo che l’avvocato di Dell’Utri avrebbe voluto proiettare il video con quella dichiarazione di Berlusconi in aula, per sopperire al silenzio dell’eccellente testimone.
Solo tutta la verità – Se però avesse accettato di rispondere alle domande della difesa del suo storico braccio destro, il leader di Forza Italia avrebbe dovuto farlo anche con l’accusa. E avrebbe dovuto dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. Sul banco dei sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera c’erano alcuni fogli con una serie di quesiti da sottoporre al teste, nel caso quest’ultimo avesse optato per l’opzione numero due. Domande non collegate alle stragi del 1993, accuse che fanno di Berlusconi un indagato di reato connesso e sulle quali l’ex premier avrebbe potuto non rispondere in ogni caso per evitare di auto indiziarsi.
Cosa sapeva delle leggi “gradite” ai mafiosi? – Il leader di Forza Italia, però, sarebbe stato con tutta probabilità interpellato su alcuni momenti del suo primo esecutivo. Per esempio: perché tra presentato tra la fine del 1994 e i primi mesi del 1995 che aveva come obiettivo quello di modificare la custodia cautelare per i mafiosi? Per l’accusa è una delle contropartite chieste da Cosa nostra al governo Berlusconi grazie all’intercessione di Dell’Utri. La stessa pubblica accusa voleva approfondire questo passaggio quando l’estate scorsa ha chiesto di riaprire il dibattimento. La storia di quella legge è raccontata nelle motivazioni della sentenza di primo grado della Trattativa. “C’è pieno riscontro sul fatto che effettivamente, poco prima del Natale del 1994, e cioè il 20 dicembre 1994, fu definito dalla competente Commissione parlamentare il testo di legge, contenente anche alcune modifiche legislative attese e ‘gradite’ dai mafiosi , che si prevedeva di approvare e, dunque, trasformare in legge, già nel successivo mese di gennaio del 1995″, scriveva la corte d’assise. Cosa ricorda Berlusconi di quel testo di legge, non approvato solo a causa della caduta prematura del suo primo esecutivo? E quella norma era in qualche modo legata al decreto Biondi, il cosiddetto “salvaladri” – poi non convertito e decaduto – che oltre ad aprire le gabbie ai tangentisti conteneva al suo interno una norma per imporre ai pm di svelare agli avvocati i nomi dei mafiosi indagati?
Era solo uno stalliere? – A proposito della minaccia “trasmessa” da Dell’Utri a Palazzo Chigi, se Berlusconi avesse risposto avrebbe potuto essere interpellato anche su altro. A cominciare dai rapporti tra il suo storico braccio destro e Mangano, il capomafia assunto come stalliere a Villa San Martino nel 1974. “La presenza di Vittorio Mangano ad Arcore, mafioso del mandamento di Porta Nuova, per il tramite di Dell’Utri, rappresenta la convergenza di interessi tra Berlusconi e Cosa nostra”, era scritto già nella sentenza definitiva di condanna dell’ex senatore a sette anni per concorso esterno. “Cercavamo uno stalliere per badare ai cavalli, in Lombardia non ne trovammo nessuno”, è sempre stata la versione dell’ex presidente del consiglio, quando non è andato oltre definendo “eroe” il boss di Porta nuova.
Leggi pro mafia in anteprima alla mafia? – Stalliere o non stalliere, di certo anche vent’anni dopo l’assunzione a villa San Martino, Mangano ha continuato a sentire Dell’Utri: secondo i giudici del processo di primo grado il fondatore di Forza Italia (che nel ’94 non si candidò direttamente alle politiche) anticipava a Mangano il contenuto di leggi “gradite” ai boss che il governo stava preparando. “Ci si intende riferire – è scritto nella sentenza – al fatto che in quella occasione del giugno – luglio 1994 Dell’Utri ebbe a riferire a Mangano ‘in anteprima’ di una imminente modifica legislativa in materia di arresti per gli indagati di mafia senza clamore, o per meglio dire nascostamente tanto che neppure successivamente fu rilevata, inserita nelle pieghe del testo di un decreto legge che rimase pressoché ignoto, nel suo testo definitivo, persino ai Ministri sino alla vigilia, se non in qualche caso allo stesso giorno, della sua approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del Governo presieduto da Berlusconi”.
Chi fu a fare quelle leggi a favore dei boss? – In pratica, secondo i giudici, Mangano era a conoscenza dell’attività legislativa del governo Berlusconi ben prima che ne fossero informati gli stessi ministri. E ne era a conoscenza nonostante si trattasse di un’attività “mai pubblicizzata e, anche per la sua tecnicalità, non ricavabile dalla lettura di giornali”. Era vero? E Berlusconi lo sapeva? O Dell’Utri agiva in autonomia, nonostante non facesse parte del governo e in quel periodo neanche del Parlamento? Oppure è stata una “manina” oscura a mettere sul tavolo del Consiglio dei ministri quelle norme, poco prima di raccontarne il contenuto a Mangano? Berlusconi, purtroppo, ha scelto di non rispondere. E quindi restano al momento solo le parole scritte della corte d’assise: “Il fatto che Dell’Utri fosse informato di tale modifica legislativa, tanto da riferirne a Mangano per provare il rispetto dell’impegno assunto con i mafiosi, dimostra ulteriormente che egli stesso continuava a informare Berlusconi di tutti i suoi contatti con i mafiosi medesimi anche dopo l’insediamento del Governo da quest’ultimo presieduto, perché soltanto Berlusconi, quale presidente del Consiglio, avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo quale quello che fu tentato con l’approvazione del decreto legge del 14 luglio 1994 n. 440 e, quindi, riferirne a Dell’Utri per ‘tranquillizzare‘ i suoi interlocutori, così come il Dell’Utri effettivamente fece”.
Soldi a Cosa nostra: ne sapeva nulla? – Sui rapporti Berlusconi-Dell’Utri-Cosa nostra si è indagato e scritto moltissimo. Solo per rimanere sui temi al centro del processo, l’ex premier ha perso l’occasione di chiarire se è vero quanto la corte d’Assise ritiene provato nel verdetto di primo grado: è vero che l’amico Marcello ha pagato per anni i mafiosi per conto di Arcore? “È incontestabilmente dimostrato dal ricordato esborso, da parte delle società facenti capo al Berlusconi medesimo, di ingenti somme di denaro, poi, effettivamente versate a Cosa nostra. Dell’Utri, infatti, senza l’avallo e l’autorizzazione di Berlusconi, non avrebbe potuto, ovviamente, disporre di così ingenti somme recapitate ai mafiosi”, c’è scritto nelle 5252 pagine delle motivazioni della sentenza. Che l’ex senatore sia stato il garante “decisivo” dell’accordo tra l’ex premier e Cosa nostra era già stato stabilito in via definitiva dalla Cassazione nella sentenza Dell’Utri. Il primo grado della Trattativa, però, va oltre: “È determinante rilevare che tali pagamenti sono proseguiti almeno fino al dicembre 1994 perché ciò dimostra inconfutabilmente che ancora sino alla predetta data Dell’Utri, che faceva da intermediario, riferiva a Berlusconi riguardo ai rapporti con i mafiosi, attenendone le necessarie somme di denaro e l’autorizzazione a versare e a Cosa nostra”. Berlusconi avrebbe continuato a pagare i boss anche dopo l’elezione a Palazzo Chigi: è davvero così? Il leader di Forza Italia è il primo presidente del consiglio finanziatore diretto della piovra? L’ex premier ha preferito non rispondere. Ancora una volta, gli interrogativi rimarranno tali.