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sabato 8 luglio 2023

LE MULTE DELLA SANTANCHE'. - Gioacchino Musumeci L'opinione Contro

 

Santanché afferma che le multe ( oltre 400) non sono sue ma dei Carabinieri che avevano la sua macchina in comodato d'uso gratuito.
Se ne deduce una verità piuttosto singolare: il contratto di leasing era stato stipulato da Visibilia ma i Carabinieri, avendo il comodato d'uso gratuito, guidavano la Maserati della società della Santanché e non si preoccupavano di eventuali infrazioni.
Quindi passavano col rosso ai semafori, oppure sforavano i limiti di velocità durante le gare notturne ai navigli di Milano. Dovremmo indagare su qualche testa coda della famosa Maserati, guidata dai Carabinieri sia chiaro, nel piazzale del Duomo, tutto gratis.
Oppure 400 infrazioni potrebbero essere state necessarie quando i Carabinieri hanno inseguito i malviventi milanesi con la Maserati della Santanché.😁😁
Che matti questi Carabinieri, chi sono Daniè, se po sapè?
Un'altra cosa su cui non nutrire dubbi dato che parla la ministra, è che delle oltre 400 multe guadagnate dai Carabinieri, nulla è mai trapelato nella sede di Visibilia oppure nella sede della società con cui Visibilia ha formalizzato il leasing. Direi che è abbastanza strano...
Secondo una nuova prassi studiata appositamente per la Maserati della Santanché, gli avvisi delle infrazioni commesse dai Carabinieri, saranno sicuramente stati inviati dalla stradale, oppure da altri carabinieri, alla stazione dell'arma in cui veniva posteggiata la Maserati della Santanché.
I carabinieri, colpevoli, facevano finta di niente e scaricavano tutto sulla ministra odiata ingiustamente da tutti, Carabinieri compresi dato che vogliono rovinarle la reputazione. Tutto ciò almeno per 400 volte sempre che una parte dei verbali non sia stato addebitato agli alieni che usufruivano della Maserati in comodato d'uso gratuito. Insomma la verità mai, figure di merda sempre.

G. Musumeci 

https://www.facebook.com/photo/?fbid=961649488504658&set=a.104436357559313

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Il problema è che i carabinieri non possono neanche smentire la ministra, perché rappresenta un'istituzione; 

a me, intanto, pare più logico pensare che non si tratti di "comodato d'uso gratuito", come afferma la tizia, ma sequestro belle buono dell'auto per multe non pagate e che lei, per vendetta, abbia attribuito, ironicamente, le sue infrazioni ai carabinieri colpevoli di averla privata dell'auto.

cetta

giovedì 23 luglio 2020

Carabinieri arrestati a Piacenza, l’orgia con le escort in caserma e la scatola della terapia per la droga. Il Gip: “Come un romanzo noir”. - Giovanna Trinchella

Carabinieri arrestati a Piacenza, l’orgia con le escort in caserma e la scatola della terapia per la droga. Il Gip: “Come un romanzo noir”

Troppo lungo e così documentato l'elenco dei reati che il giudice per le indagini preliminari ha creduto di essere piombati nella fantasia di uno scrittore. E invece no: gli arresti illegali, le torture, la droga rubata agli spacciatori per fornirla ai pusher loro informatori durante il locokdown, la consegna e il trasporto di sostanze in divisa e sull'auto di servizio, era tutto vero.

Atti di indagini o le pagine di “romanzo noir“? Il giudice per le indagini preliminari di Piacenza, Luca Milani, a un certo punto dell’inchiesta che ha portato a scoprire l’esistenza a Piacenza di una caserma che potrebbe essere considerata a tutti gli effetti un covo di criminali, se l’è chiesto. Troppo lungo e così documentato l’elenco dei reati da credere di essere piombati nella fantasia di uno scrittore. E invece no: gli arresti illegali, le torture, la droga rubata agli spacciatori per fornirla ai pusher loro informatori durante il lockdown, la consegna e il trasporto di sostanze in divisa e sull’auto di servizio, contestati a vario titolo, era “tutto vero”. E se questi “reati gravissimi”, come li ha definiti la procuratrice capo di Piacenza Grazia Pradella, non fossero bastati a intessere la sceneggiatura, dove si davano “schiaffoni come in Gomorra“, leggendo le 326 pagine di ordinanza cautelare suddivise in capitoli con titoli come se fosse un libro, si viene a sapere che nella caserma di via Caccialupo almeno un carabiniere ha fatto sesso con le escort e secondo un teste anche festini a base di droga.
L’appuntato con la villa con piscina e 24 conti correnti – Ma non solo: i carabinieri avrebbero approntato, secondo le indagini, una sorta di nascondiglio dove pusher che li informavano potevano approvviggionarsi di droga: la “scatola della terapia” come la definisce lo spacciatore e informatore marocchino che ha cominciato a raccontare i comportamenti “sopra le righe” dei militari dell’Arma. Carabinieri, capeggiati da Giuseppe Montella, classe 1983, appuntato, che aveva un tenore di vita molto più alto di quanto permettesse il suo stipendio. Il nordafricano era stato convocato dalla polizia municipale di Piacenza dopo che un maggiore chiamato per una testimonianza aveva fatto ascoltare alcuni audio ai poliziotti che gli erano stati inviati dal pusher. L’ufficiale ha dichiarato agli inquirenti di non aver denunciato perché “non sfidava degli attuali dirigenti” ma riteneva che le dichiarazioni del marocchino potessero essere vere proprio per l’Audi sfoggiata dall’appuntato e la villetta in campagna con piscina rappresentavano un tenore di vita “ben al di sopra di quanto ordinariamente possibile per un militare dell’Arma del suo grado”. Il giudice ha disposto il sequestro dei beni e di 24 conti correnti.

L’incredulità del gip: “Tutto vero e reso più palpabile grazie al trojan”- Le indagini, coordinate dai pm Antonio Colonna e Matteo Centini, hanno rivelato fin dall’inizio “uno scenario estremamente preoccupante … Non è stato semplice rendersi conto, settimana dopo settimana, che dietro i volti sempre cordiali e sorridenti di presunti servitori dello Stato, incrociati più volte nei corridoi e nelle aule del Tribunale di Piacenza mentre svolgevano attività istituzionali, potessero celarsi gli autori di reati gravissimi – ragiona il giudice – è capitato spesso di alzare lo sguardo per capire se non ci si stesse trovando di fronte alle pagine di qualche romanzo noir riguardante militari infedeli. Tutto vero, invece, e reso ancor più palpabile e concreto grazie all’impiego di uno strumento investigativo inedito e potentissimo come il captatore informatico”, il trojan. Le intercettazioni ha restituito in diretta anche gli abusi commessi nella caserma: le botte, le lacrime del fermato, i colpi di tosse (qui l’audio dell’intercettazione). Nella stazione carabinieri Piacenza Levante sono state messe in atto “condotte poco trasparenti e gravemente scorrette” sia nei confronti dell’autorità giudiziaria sia e soprattutto nei confronti di chi “ingiustamente” era stato arrestato: condotte “illecite” che vanno viste “nell’ambito di un generale atteggiamento di totale illeiceità e disprezzo per i valori incarnati dalla divisa indossata“.

L’orgia con le prostitute in caserma e l’estorsione dell’auto – Montella, che aveva l’abitudine di nascondere i soldi illeciti nella cassaforte della caserma, racconta un episodio che dimostra per il giudice quanto fosse profondo quel disprezzo. È il 3 maggio quando l’appuntato parlando con un altro carabiniere, Salvatore Cappellano, che per il collega Giacamo Falanga, anche loro arrestati, avevano organizzato una serata per festeggiare una ricorrenza. “Quella sera due gliene ho fatte trombare” racconta Montella, “Lo scenario è quello di un’orgia” scrive il gip all’interno della stanza del comandante Marco Orlando (domiciliari) dove si era creato tale scompiglio che le pratiche sulla scrivania erano finite sparpagliate, come il cappello e la giaccia. Ma non solo le urla delle due donne, “presumibilmente escort” anche se un teste aveva parlato anche di una transessuale, avevano infastidito qualcuno che si era lamentato. Un comportamento in cui “forse” non sono ravvisabili reati ma che per il gip sono la metafora di quel disprezzo. È invece contestata l’estorsione per un altro episodio (4 febbraio) descritto dal giudice. In questo caso ci sono state minacce con l’arma d’ordinanza, botte ai dipendenti di una concessionaria e computer danneggiati per concludere la vendita di un’Audi A4 alle condizioni economiche da lui imposte: 10mila euro a fronte di un valore di 21.500 euro. Tra i reati contestati c’è anche il peculato. Con l’autovettura di servizio Fiat Punto i carabinieri della Stazione Levante di Piacenza andavano anche al ristorante, al bar, in negozi a Piacenza e addirittura a casa di uno di loro dove ad attenderli, a metà pomeriggio, c’era la mamma per la merenda da consumare prima di far definitivamente rientro in caserma. Gli altri militari arrestati sono Angelo Esposito e Daniele Spagnolo.

Sei mesi indagini, la scoperta delle cimici – In sei mesi di indagini – dal 20 gennaio e fino a pochi giorni fa – sono stati 53 i “target” delle intercettazioni telefoniche e ambientali. Sono state 75mila le intercettazioni telefoniche e ambientali. Per tre mesi gli indagati sono stati intercettati e per tre mesi è stato un trojan a far emergere i comportamenti inimmaginabili. Questo perché a un certo punto il carabiniere insospettito dal rumore proveniente dalla sua auto l’aveva portata dal meccanico e aveva scoperto di essere intercettato. Impossibile dire quindi quante violazioni sarebbero state svelate se anche le altre cimici non fossero saltate fuori. L’ordinanza è stata divisa in capitoli: “la droga ai temi del coronvirus” che tratta della droga e dei rapporti illeciti con i pusher, “disciplina e onore” che racconta degli arresti illegali ma anche le scampagnate con l’auto di servizio o dell’orgia caserma, “la legge sono io” con l’episodio dell’estorsione, l’acquisto di anabolizzanti e la grigliata il giorno di Pasqua, “la paura” con la scoperta delle cimici e infine “la risposta dello Stato”. Capitolo che chiude il provvedimento, firmato il 19 luglio, definito “atto di giustizia” e dedicato a chi 28 anni fa, in via D’Amelio a Palermo perse la vita. Nell’attentato morirono Paolo Borsellino e gli uomini della scorta: Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi e Claudio Traina morti “compiendo il loro dovere” e “servitori dello Stato di tutt’altro spessore rispetto agli odierni indagati.


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sabato 29 giugno 2019

Caporalato, blitz nel Foggiano: arrestati due imprenditori, commissariata azienda agricola.

Caporalato, blitz nel Foggiano in grande azienda agricola: sequestri e ordinanze cautelavi


Per la prima volta in Capitanata, posta sotto controllo giudiziario l’azienda che si estende su di una superficie di circa 50 ettari e che fornisce prodotti ortofrutticoli a importanti ditte dell’agroalimentare.

Nell’ambito di una operazione anticaporalato, la Procura della Repubblica e i carabinieri di Foggia hanno eseguito una ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari nei confronti di due imprenditori agricoli del Foggiano. I due sono accusati di sfruttamento del lavoro irregolare.
Inoltre, per la prima volta in Capitanata, è stata posta sotto controllo giudiziario l’azienda agricola dei due imprenditori che si estende su di una superficie di circa 50 ettari e che - raccontano gli inquirenti - fornisce prodotti ortofrutticoli a importanti ditte dell’agroalimentare. Una trentina i braccianti trovati irregolari nell’azienda.
Stando a quanto sostenuto dagli investigatori all’interno della stessa dell’azienda sono stati anche posti sotto sequestro quattro, cinque container, utilizzati dai due imprenditori come alloggi di fortuna per i braccianti agricoli. Si tratta di abitazioni fatiscenti ed in pessime condizioni igienico- sanitarie dove - a dire degli inquirenti - venivano letteralmente stipati i migranti. I particolari dell’operazione verranno resi noti in una conferenza stampa che si terrà alle 10 presso la Procura della Repubblica di Foggia.

https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/foggia/1154525/caporalato-blitz-nel-foggiano-in-grande-azienda-agricola-sequestri-e-ordinanze-cautelavi.html


Ecco che cosa vuole alimentare la parte peggiore del paese: permettere, a persone di dubbia integrità morale, che i migranti, approdati sulle nostre coste con la speranza di una vita migliore, vengano usati come schiavi malpagati e bistrattati per puro scopo di maggiore lucro.

venerdì 9 novembre 2018

Stefano Cucchi, carabinieri alla proiezione del film: “Dateci la lista dei partecipanti”. Colonnello: “Lì per questioni di sicurezza”.

Stefano Cucchi, carabinieri alla proiezione del film: “Dateci la lista dei partecipanti”. Colonnello: “Lì per questioni di sicurezza”

A raccontare la vicenda - avvenuta in una libreria del centro commerciale Le Gru di Siderno - è il quotidiano La Stampa. La titolare della libreria, Roberta Strangio, ha risposto ai due militari che non poteva soddisfare la loro richiesta perché non esisteva un elenco dei partecipanti all’iniziativa. I due hanno dunque assistito alla proiezione ma senza identificare nessuno.

Si sono presentati in una libreria e hanno chiesto “l’elenco dei partecipanti” alla proiezione del film Sulla mia pelle, sugli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi. È quello che hanno fatto due carabinieri a Siderno, in provincia di Reggio Calabria. A raccontare la vicenda – avvenuta in una libreria del centro commerciale Le Gru – è il quotidiano La Stampa. Secondo il quotidiano di Torino la titolare della libreria, Roberta Strangio, ha risposto ai due militari che non poteva soddisfare la loro richiesta perché non esisteva un elenco dei partecipanti all’iniziativa.
I due carabinieri si sono allora congedati “con gentilezza“, ha riferito ancora Strangio, ma non hanno lasciato la libreria, trattenendosi per l’intera durata della proiezione del film ma senza identificare nessuno dei partecipanti all’iniziativa. “Non hanno chiesto i documenti a nessuno neanche alle persone uscite prima della fine del dibattito che ha fatto seguito alla proiezione del film”, ha detto la proprietaria della libreria.

“I carabinieri erano lì per attività di routine e hanno interloquito con gli organizzatori per sapere se c’era qualcuno delle istituzioni o autorità, in un’ottica di ordine e sicurezza pubblica”, ha spiegato al quotidiano diretto da Maurizio Molinari il colonnello Gabriele De Pascalis, comandante del Gruppo di Locri dei carabinieri. “A noi – ha aggiunto – non interessa alcun elenco, soprattutto in una manifestazione che non aveva alcun rischio di ordine pubblico. Noi siamo sempre tra la gente e non vogliamo che l’accaduto venga strumentalizzato, specie in una vicenda triste e delicata come quella di Stefano Cucchi”.
Fonte: ilfattoquotidiano del 8 novembre 2018

Avvenimento inquietante. E che avvenga in un periodo di destabilizzazione sociale, rende l'avvenimento ancor più sgradevole. Cetta 

venerdì 20 luglio 2018

Trattativa Stato-mafia, i giudici: “Da Berlusconi soldi a Cosa nostra tramite Dell’Utri anche da premier e dopo le stragi”. - Giuseppe Pipitone

Trattativa Stato-mafia, i giudici: “Da Berlusconi soldi a Cosa nostra tramite Dell’Utri anche da premier e dopo le stragi”

Nelle motivazioni della sentenza Trattativa vengono dettagliate le elargizioni di Silvio Berlusconi (già a Palazzo Chigi) ai mafiosi tramite il co-fondatore di Forza Italia: "È determinante rilevare che tali pagamenti sono proseguiti almeno fino al dicembre 1994". Non solo. Secondo i giudici, lo stalliere di Arcore - e rappresentante dei clan - Vittorio Mangano era informato in anteprima di novità legislative relative alla custodia cautelare direttamente dal fondatore di Publitalia "per provare il rispetto dell'impegno assunto con i mafiosi".

L’Italia ha avuto un presidente del consiglio che pagava Cosa nostra mentre sedeva a Palazzo Chigi. E non negli anni Cinquanta, ma almeno fino alla fine del 1994 quando la mafia aveva già mostrato il suo volto più feroce: aveva fatto a pezzi Giovanni FalconeFrancesca Morvillo, Paolo Borsellino, otto agenti di scorta, dieci civili, comprese due bambine. Quel presidente del consiglio si chiama Silvio Berlusconi ed elargiva denaro ai mafiosi sempre nello stesso modo: tramite il fido Marcello Dell’Utri. Ne sono sicuri i giudici della corte d’Assise di PalermoE lo scrivono nelle motivazioni della sentenza che ha condannato l’ex senatore di Forza Italia a dodici anni di carcere alla fine del processo sulla Trattativatra pezzi dello Stato e Cosa nostra.
L’ex parlamentare – recentemente scarcerato per motivi di salute – è stato condannato per violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. Ha cioè trasmesso al primo governo della Seconda Repubblica la minaccia di Cosa nostra: la promessa di altre bombe e altre stragi se non fosse cessata l’offensiva antimafia dell’esecutivo. Che in qualche modo cede. E inserisce una piccola leggina pro mafia in un decreto legge che non aveva visto nessuno. Ma della cui esistenza Vittorio Mangano fu informato da Marcello Dell’Utri. Che di quel governo non faceva parte.

“Berlusconi sapeva dei contatti tra Dell’Utri e Cosa nostra” – D’altra parte quell’esecutivo minacciato dai boss era presieduto da un uomo che i boss li paga da anni. Almeno fino al 1992, diceva la Corte di Cassazione che ha condannato in via definitiva Dell’Utri per concorso esterno. I giudici presieduti da Alfredo Montalto, però, la pensano diversamente. Ci sono “ragioni logico-fattuali che conducono a non dubitare che Dell’Utri abbia effettivamente riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l’associazione mafiosa Cosa nostra mediati da Vittorio Mangano (ma, in altri casi, anche da Gaetano Cinà). Il fatto che Berlusconi fosse stato sempre messo a conoscenza di tali rapporti è, d’altra parte, incontestabilmente dimostrato dal ricordato esborso, da parte delle società facenti capo al Berlusconi medesimo, di ingenti somme di denaro, poi, effettivamente versate a  Cosa nostra. Dell’Utri, infatti, senza l’avallo e l’autorizzazione di Berlusconi, non avrebbe potuto, ovviamente, disporre di così ingenti somme recapitate ai mafiosi”, scrivono nelle 5252 pagine delle motivazioni della sentenza depositate nel giorno dell’anniversario della strage di via d’Amelio.
“Da Berlusconi soldi a Cosa nostra fino al dicembre del 1994” – Il fatto che Berlusconi pagasse Cosa nostra, come detto, era noto ma fino ad oggi ritenuto provato solo fino al 1992, cioè prima dell’inizio delle stragi e a due anni dall’impegno politico dell’imprenditore. “È determinante rilevare che tali pagamenti sono proseguiti almeno fino al dicembre 1994 quando a Di Natale fu fatto annotare il relativo versamento di L. 250.000.000 nel libro mastro che in quel momento egli gestiva, perché ciò dimostra inconfutabilmente che ancora sino alla predetta data (dicembre 1994) Dell ‘Utri, che faceva da intermediario, riferiva a Berlusconi riguardo ai rapporti con i mafiosi, attenendone le necessarie somme di denaro e l’autorizzazione a versare e a Cosa nostra”.

Il pentito: “Soldi dal serpente”. Cioè dal Biscione – I giudici si riferiscono a Giusto Di Natale, pentito della famiglia di Resuttana che ha raccontato di come Cosa nostra etichettasse con la parola “sirpiente” – cioè dal siciliano, serpente – il denaro ricevuto come “pizzo” dalle aziende dal Biscione e cioè da Berlusconi. “Una volta venne il Guastella (il killer Pino Guastella ndr) , non mi portò il denaro, ma mi disse di annotare 250 milioni di lire, dice: Scrivici u sirpiente, che queste sono le antenne televisive di Berlusconi che si trovano a Monte Pellegrino. Il serpente stava per il Biscione, insomma, volgarmente il Biscione che c’era nella pubblicità di Mediaset e invece di scrivere Biscione mi ha detto scrivi u sirpiente, in siciliano, per capire che si trattava delle antenne televisive”. A che periodo si riferisce Di Natale? “Siamo a fine anno, le grosse cifre entravano ogni volta a fine anno: ’94 siamo … nel fatto delle antenne televisive. Ogni gruppo di estorsioni, ogni estorsione aveva il suo referente diciamo”. E il referente di quell’estorsione è Vittorio Mangano.
“Dell’Utri parlava con Mangano parlava di legge” – Se Dell’Utri è la cinghia di trasmissionedella minaccia di Cosa nostra al governo Berlusconi, nel 1994 Mangano – lo stalliere di Arcore – rappresenta direttamente la volontà della Piovra. “Dell’Utri interloquiva con Berlusconi anche riguardo al denaro da versare ai mafiosi ancora nello stesso periodo temporale (1994) nel quale incontrava Vittorio Mangano per le problematiche relative alle iniziative legislative oggetto dei suoi colloqui con il medesimo Mangano, così che non sembra possibile dubitare che Dell’Utri abbia informato Berlusconi anche di tali colloqui e, in conseguenza, della pressione o dei tentativi di pressione che, come si detto, anche secondo la Corte di Cassazione, erano inevitabilmente insiti negli approcci di Vittorio Mangano e che, altrettanto inevitabilmente per la caratura criminale dei richiedenti, portavano seco l’implicita minaccia di ritorsioni, d’altra parte, già espressamente prospettata, come si è visto sopra, durante la precedente campagna elettorale”. Per i giudici è il passaggio fondamentale, cioè la prova che effettivamente il governo Berlusconi percepì la minaccia mafiosa.

Le leggi a favore dei boss raccontate “in anteprima” ai boss – Talmente tanto che – in almeno un’occasione – il primo esecutivo guidato da Forza Italia portò avanti iniziative legislative favorevoli a Cosa nostra. E Cosa nostra venne informata prima degli stessi ministri del governo Berlusconi. “Ci si intende riferire al fatto che in quella occasione del giugno – luglio 1994 Dell’Utri ebbe a riferire a Mangano ‘in anteprima’ di una imminente modifica legislativa in materia di arresti per gli indagati di mafia(lo racconta il pentito Salvatore Cucuzza: “Per quanto riguardava il 416 bis, per quanto riguarda l’arresto sul 416 bis c ‘era stata una piccola modifica … “) senza clamore, o per meglio dire nascostamente tanto che neppure successivamente fu rilevata, inserita nelle pieghe del testo di un decreto legge che rimase pressoché ignoto, nel suo testo definitivo, persino ai Ministri sino alla vigilia, se non in qualche caso allo stesso giorno, della sua approvazine da parte del Consiglio dei Ministri del Governo presieduto da Berlusconi”. In pratica Mangano sapeva di modifiche di legge decise dal governo prima che ne fossero informati gli stessi ministri. Di che cosa si parla? “È stato effettivamente riscontrato che tra le pieghe nascoste del decreto 14 luglio 1994 n. 440, v’era anche una ‘piccola modifica‘ dell’art. 275 c.p.p. nella parte in cui stabiliva che per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. dovesse essere sempre applicata la misura della custodia cautelare in carcere salvo che non fossero acquisiti elementi tali da escludere la sussistenza delle esigenze cautelari. Si trattava, in sostanza, di quella presunzione di legge che, di fatto, imponeva sempre il carcere per gli indagati di mafia arrestati”. Tradotto: Mangano sapeva prima di molti ministri che il governo voleva alleggerire la norme antimafia e lo sapeva nonostante si trattasse di una norma “mai pubblicizzata e, anche per la sua tecnicalità, non ricavabile dalla lettura di giornali”.
“Leggi anticipate a Mangano per provare il rispetto degli impegni” – Cosa nostra sapeva di proposte di legge che non conosceva nessuno. E lo sapeva perché gliele raccontava Dell’Utri. “A ciò si aggiunga che quel decreto legge era stato deciso per intervenire su reati del tutto diversi da quelli di mafia (v. anche testimonianza Maroni, già riportata,a proposito della sua sorpresa quando gli fu fatta notare dal Procuratore Caselli la modifica concernente la comunicabilità delle iscrizioni nel registro degli indagati: “E io gli chiesi: come è possibile, che cosa c’entra la corruzione e la concussione, la custodia cautelare?”) e che, pertanto, non vi era ragione per la quale un soggetto estraneo al Governo, qual era Dell ‘Utri, fosse informato sino ai più minuti – e, si ripete, nascosti – dettagli di quel provvedimento idonei ad incidere anche sui reati di mafia”, sottolineano i giudici. E ancora: “Ora, il fatto che, invece, Dell’Utri fosse informato di tale modifica legislativa, tanto da riferirne a Mangano per provare il rispetto dell’impegno assunto con i mafiosi, dimostra ulteriormente che egli stesso continuava a informare Berlusconi di tutti i suoi contatti con i mafiosi medesimi anche dopo l’insediamento del Governo da quest’ultimo presieduto, perché soltanto Berlusconi, quale presidente del Consiglio, avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo quale quello che fu tentato con l’approvazione del decreto legge del 14 luglio 1994 n. 440 e, quindi, riferirne a Dell’Utri per “tranquillizzare” i suoi interlocutori, così come il Dell’Utri effettivamente fece”.

“B. destinatario finale” – Cosa vuol dire tutto questo? “Si ha definitiva conferma, pertanto, che anche il destinatario finale della pressione o dei tentativi di pressione, e cioè Berlusconi, nel momento in cui ricopriva la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri, venne a conoscenza della minaccia in essi insita e del conseguente pericolo di reazioni stragiste (d’altronde in precedenza espressamente già prospettato) che un’inattività nel senso delle richieste dei mafiosi avrebbe potuto fare insorgere”. Silvio Berlusconi, presidente del consiglio, già definito “utilizzatore finale” e da oggi anche destinatario finale della pressione di Cosa nostra. Pagata anche dopo le stragi. Dall’uomo che sedeva a Palazzo Chigi. È nata così la Seconda Repubblica italiana.
I soldi che Berlusconi elargiva a Cosa Nostra erano, in effetti, di Cosa nostra, L'impero economico che Berlusconi ha creato era il frutto della fideiussione ricevuta da Banca Rasini, la banca dei mafiosi che conservava e custodiva i soldi di Reina, Provenzano, Mangano e Calò. Praticamente, ne sono convinta, l'impero creato dal Berlusca era il riciclaggio del denaro sporco della mafia e Forza Italia è il partito voluto dalla mafia..

lunedì 4 dicembre 2017

Truffa, false fatture, riciclaggio: l’onlus della moglie di De Mita sotto inchiesta: quella pioggia di milioni pubblici dove sono finiti? - Marco Staglianò


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TSUNAMI AIAS: TRUFFA, FALSA FATTURAZIONE, ABUSO D’UFFICIO, ASSOCIAZIONE A DELINQUERE FINALIZZATA AL RICICLAGGIO E ALL’EVASIONE. COINVOLTA LA SIGNORA DE MITA.
Le perquisizioni degli uomini della Guardia di Finanza negli uffici dell’Aias Avellino, di cui vi abbiamo dato notizia ieri, vanno ricondotte, a quanto pare, ad un’inchiesta molto più ampia di quanto si potesse immaginare. Un’inchiesta che per un verso riguarda la gestione fiscale della struttura e per altro verso la questione, denunciata da queste colonne carte alla mano, della non accreditabilità della struttura.
Secondo indiscrezioni attendibili, infatti, le perquisizioni, scattate nelle prime ore della mattina di ieri anche presso le abitazioni di otto dei dieci indagati, oltre che nelle sedi Aias di Avellino, Nusco e Calitri e nelle sedi di quattro società collegate a movimenti bancari sospetti, sono state precedute dalla notifica di ben dieci avvisi di garanzia per ipotesi di reato gravissime che vanno dalla truffa per ottenere l’erogazione di fondi pubblici alla falsa fatturazione per operazioni inesistenti, passando per l’abuso di ufficio in concorso relativo al case accreditabilità, fino all’associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio e all’evasione delle imposte.
Convolti a vario titolo due nomi eccellenti: Gerardo Bilotta, rappresentante legale di Aias Avellino, quindi Anna Maria De Mita, moglie di Ciriaco, a capo di “Noi con Loro”, ovvero della Onlus che gestisce da sempre la struttura. Con loro anche Massimo Preziuso, ritenuto dagli inquirenti il vero amministratore di Aias, a cui, secondo gli inquirenti, sarebbero riconducibili diverse società, in particolare due, che nel corso degli anni avrebbero avuto rapporti anomali con “Noi con Loro”, per un giro di diverse centinaia di migliaia di euro.
L’associazione sarebbe contestata solo a Bilotta e Preziuso. Per quel che riguarda l’abuso d’ufficio in concorso, tale contestazione, come detto, va ricondotta alla questione accreditabilità, ovvero al caso dei fondi concessi dalla Regione all’Aias da quattro anni a questa parte, un milione e duecentomila euro all’anno, nonostante una delibera Asl risalente al 2014 che definisce la struttura non accreditabile. Questa ipotesi di reato è contestata alla signora Anna Maria De Mita, così come la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche e le false fatturazioni per operazioni inesistenti.
Maggiori dettagli emergeranno nelle prossime ore, a partire dai nomi di tutte le persone coinvolte e dalle relative ipotesi di reato contestate.
2 – SCANDALO AIAS, IL BLITZ IN REGIONE DELLE FIAMME GIALLE E QUEI MILIONI DI EURO PIOVUTI DAL CIELO…
L’inchiesta sul caso Aias è ancora in una fase embrionale. Tuttavia, con il passare delle ore, il quadro comincia ad essere più chiaro.
Cominciamo col dire, ed eccoci alla vera notizia, che le perquisizioni operate dagli uomini della Guardia di Finanza nelle sedi Aias di Avellino, Calitri e Nusco, oltre che nelle sedi delle società – tra cui una che gestisce un bar – che secondo gli inquirenti avrebbero avuto rapporti anomali con la onlus “Noi con Loro” di Anna Maria De Mita, quindi in diverse abitazioni private tra cui quella di Gerardo Bilotta, legale rappresentante di Aias, sono state precedute da un blitz negli uffici di Regione Campania, a cui sarebbe seguita nella giornata di ieri una ulteriore “visita”, che ha consentito agli uomini delle Fiamme Gialle di ricostruire, sin dal principio, i passaggi che hanno garanito all’Aias di Avellino, nel corso degli ultimi quattro anni, fondi dalla Regione per un totale di un milione e due all’anno nonostante la struttura non fosse accreditabile così come stabilito, nel 2013, dall’Asl di Avellino.
Era il 22 ottobre del 2013 quando gli uffici di via Degli Imbimbo completarono l’istruttoria per l’accreditamento dell’Aias deliberando l’assenza dei requisiti necessari e, dunque, la non accreditabilità. A distanza di un anno o poco più, ovvero il 31 ottobre del 2014, la Regione Campania, con decreto numero 133, chiudeva la partita dell’accreditamento pubblicando l’elenco di tutte le strutture accreditate dell’area riabilitativa ambulatoriale. C’era l’Aias di Nusco, c’era l’Aias di Calitri ma non c’era l’Aias di Avellino.
Il punto è che, pochi mesi prima della pubblicazione del decreto regionale 133, il dottor Lucio Podda, Referente Giuridico della Struttura Commissariale per la Sanità Campana, preso atto della delibera Asl che dava parere negativo sull’accreditabilità dell’Aias di Avellino, scrisse immediatamente al Commissario di allora, il dottor Morlacco, segnalando la situazione e chiedendo specifiche indicazioni. Morlacco non si degnò di rispondere e, a distanza di pochi mesi, arrivò il decreto regionale con l’elenco delle strutture accreditate. E se è vero che in quell’elenco l’Aias di Avellino non c’era, è altrettanto vero che nessun formale pronunzia arrivò né dal Commissario né dagli uffici.
In questo vuoto, da allora ad oggi, l’Aias, in ragione di una miracolosa inerzia, ha continuato a beneficiare di quei fondi che, lo ricordiamo, sono stati sottratti ad altre strutture che avrebbero potuto e dovuto fornire prestazioni di riabilitazione. E questo è accaduto nonostante i solleciti formali arrivati sia ai livelli amministrativi che alla giunta regionale, sia quella di Caldoro che quella di De Luca.
In questa verità c’è la genesi del filo rosso che tiene in piedi buona parte dell’inchiesta messa in campo dalla Procura della Repubblica, un’inchiesta che porterà, con ogni probabilità, a nuovi avvisi di garanzia coinvolgendo certamente funzionari pubblici regionali che per adesso sono in corso di individuazione.
Allo stato, restano i dieci avvisi di garanzia per reati gravissimi che vanno, ricordiamo anche questo, dalla truffa per ottenere l’erogazione di fondi pubblici alla falsa fatturazione per operazioni inesistenti, passando per l’abuso di ufficio in concorso, relativo al caso accreditabilità, fino all’associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio e all’evasione delle imposte.
L’associazione è contestata solo a Bilotta e Preziuso, mentre l’abuso d’ufficio in concorso è contestato anche ad Anna Maria De Mita. Alla quale gli inquirenti contestano il reato di false fatturazioni per operazioni inesistenti, quindi la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. Gli altri otto indagati a vario titolo sono tutti parenti di Massimo Preziuso riconducibili alle società che secondo gli inquirenti avrebbero intrattenuto rapporti anomali con “Noi con Loro” per un giro di diverse centinaia di migliaia di euro.
Restano tanti nodi ancora da sciogliere, quel che sappiamo è che certamente siamo solo all’inizio, che le attività delle Fiamme Gialle sono continuate anche nella giornata di ieri e continueranno nei giorni a venire, sappiamo che verranno certamente iscritti nuovi nominativi nel registro degli indagati, a partire da funzionari regionali senza escludere, ovviamente, anche il coinvolgimento di personale Asl. Staremo a vedere.

mercoledì 28 gennaio 2015

‘Ndrangheta, maxi operazione: 117 arresti. C’è anche consigliere Forza Italia.

 © ANSA

A coordinare la prima grande inchiesta nella regione, denominata "Aemilia", è la procura distrettuale antimafia di Bologna. Altri 46 provvedimenti sono stati emessi dalle procure di Catanzaro e Brescia. In manette anche il consigliere comunale di Reggio Emilia Giuseppe Pagliani. Al centro dell'indagine i rapporti e le infiltrazioni della cosca dei Grande Aracri.

Scacco alla ‘ndrangheta in Emilia Romagna. La Direzione distrettuale antimafia di Bologna ha disposto 117 arresti: dando vita all’inchiesta “Aemilia“, la prima maxi operazione che ha smascherato le infiltrazioni della criminalità organizzata nella regione del nord, così come già avvenuto in Lombardia (Crimine-Infinito), Piemonte (Minotauro) e Liguria (Maglio). Altri 46 provvedimenti sono stati emessi dalle procure di Catanzaro e Brescia – in inchieste collegate – per un totale di oltre 160 arresti.In manette anche il consigliere comunale di Reggio Emilia Giuseppe Pagliani (Forza Italia). I carabinieri lo hanno prelevato dalla sua abitazione di Arceto di Scandiano. L’operazione, oltre all’Emilia, ha interessato la Lombardia, il Piemonte, il Veneto, la Calabria e la Sicilia. Migliaia i carabinieri impiegati, appartenenti ai Comandi Provinciali di Modena, Parma, Piacenza e Reggio Emilia.

Le misure cautelari sono state richieste dal sostituto procuratore Marco Mescolini e firmate dal gip Alberto Ziroldi. Le 117 persone finite in carcere sono accusate, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, estorsione, usura, porto e detenzione illegali di armi, intestazione fittizia di beni, reimpiego di capitali di illecita provenienza, emissione di fatture per operazioni inesistenti ed altro. Tutti reati commessi con l’aggravante di aver favorito l’attività dell’associazione mafiosa.
Tra le persone coinvolte ci sono anche i fratelli del boss già detenuto dal 2013 Nicolino Grande Aracri, Domenico ed Ernesto. Domenico Grande Aracri, avvocato penalista, è stato arrestato nell’ambito delle misure emesse dall’antimafia bolognese. Mentre Ernesto Grande Aracri è uno dei destinatari dei 37 provvedimenti di fermo emessi dalla Dda di Catanzaro. I Grande Aracri sono uno storico clan originario di Cutro (Catanzaro), da anni radicato nella provincia di Reggio Emilia, con infiltrazioni in molteplici settori economici ed imprenditoriali, soprattutto nel business dell’edilizia.
Dall’inchiesta, secondo quanto si è appreso, è emersa la diffusione capillare in Emilia Romagna, e in parte della Lombardia e del Veneto, delle attività della cosca di ‘ndrangheta dei Grande Aracri sotto il diretto controllo e la guida di Nicolino Grande Aracri. In manette anche diversi imprenditori calabresi, alcuni già noti alle forze dell’ordine, tra cui Nicolino Sarcone, considerato anche da indagini precedenti il reggente della cosca su Reggio Emilia. Sarcone, già condannato in primo grado per associazione mafiosa, è stato recentemente destinatario di una misura di prevenzione patrimoniale che gli aveva bloccato beni per 5 milioni di euro.
Sul versante calabrese delle indagini emergono alcuni dettagli sul potere e l’influenza del “locale” di Cutro, feudo dei Grande Aracri. Secondo il procuratore di Catanzaro Vincenzo Antonio Lombardo, Nicolino Grande Aracri aveva intenzione di costituire una grande provincia di ‘ndrangheta in autonomia a quella reggina. Questo secondo il magistrato – evidenzia l’importanza che Cutro aveva ormai assunto nella geopolitica delle cosche di tutto il distretto giudiziario di Catanzaro – che comprende anche le province di Crotone, Cosenza e Vibo Valentia – e poteva inoltre contare sui contatti anche con le cosche del Reggino. “Grande Aracri – ha detto Lombardo – si atteggia a capo di una struttura al di sopra dei singoli locali. E’ sostanzialmente il punto di riferimento anche delle cosche calabresi saldamente insediate in Emilia Romagna dove c’era una cellula dotata di autonomia operativa nei reati fine. I collegamenti tra Emilia Romagna e Calabria erano comunque continui e costanti e non si faceva niente senza che Grande Aracri lo sapesse e desse il consenso”. Legami, quelli tra la terra d’origine e il nord, che rappresentano la linfa vitale per i clan lontani dalla Calabria, così come è emerso già in altre inchieste antimafia in Lombardia.
Nell’ambito dell’inchiesta, nel 2012, venne ascoltato come persona informata sui fatti Graziano Delrio, attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio e all’epoca ex sindaco di Reggio Emilia. Assieme all’allora presidente della Provincia Sonia Masini e al consigliere regionale del Pdl Fabio Filippi (nessuno dei tre è coinvolto nelle indagini). Sotto la lente dell’antimafia di Bologna era finita una cena del 21 marzo 2012 tra alcuni politici reggiani – fra cui l’allora capogruppo in Provincia del Pdl Giuseppe Pagliani, oggi arrestato, e il consigliere comunale Rocco Gualtieri – e personaggi ritenuti vicini alla criminalità organizzata. Pagliani spiegò di essere stato invitato alla cena da alcuni imprenditori calabresi per discutere della crisi e delle difficoltà nel settore dell’edilizia e dei trasporti. Tra i presenti Alfonso Diletto, i fratelli Nicolino, Gianluigi e Giuseppe Sarcone Grande ritenuti vicini al clan Grande Aracri, Gianni Floro Vito, Michele Colacino: tutte persone considerate vicine al clan ‘ndranghetista.
Ma gli inquirenti, nel 2012, avrebbero chiesto chiarimenti a Delrio, Masini e Filippi anche sulla processione del Cristo a Cutro datata 2009, quando scesero in Calabria l’ex sindaco Antonella Spaggiari, lo stesso Delrio e Fabio Filippi: la terna dei candidati sindaci che proprio quell’anno dovevano sfidarsi alle elezioni comunali.
Dall’inchiesta di oggi, sottolineano gli investigatori, emerge che la ‘ndrangheta in Emilia ha assunto una nuova veste, grazie all’appoggio degli imprenditori locali. I dettagli dell’operazione saranno resi noti in una conferenza stampa in programma alle 10:45 presso la procura di Bologna, alla presenza del procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti.

giovedì 1 maggio 2014

Morte Magherini, 4 carabinieri tra i 9 indagati.

Riccardo Magherini morte Firenze 2
Riccardo Magherini


Si profila una nuova autopsia. I militari sono indagati con l'ipotesi di accusa di omicidio preterintenzionale.

Sono indagati i quattro carabinieri che intervennero per arrestare Riccardo Magherini, morto il 3 marzo scorso a Firenze. Hanno ricevuto un avviso di garanzia anche i cinque sanitari che portarono i primi soccorsi. Per i militari l'accusa sarebbe di omicidio preterintenzionale mentre per i sanitari di omicidio colposo. La conferma dell'avviso di garanzia per i nove indagati arriva dall'avvocato Francesco Maresca, a cui si sono rivolti i quattro carabinieri. Il legale  ribadisce "totale e assoluta fiducia nel lavoro del pm Luigi Bocciolini, che farà chiarezza".
L'iscrizione nel registro degli indagati dei quattro carabinieri e dei cinque sanitari coinvolti nell'inchiesta sulla vicenda è la conseguenza della denuncia presentata dalla famiglia Magherini, in procura a Firenze. La denuncia, presentata con il legale della famiglia Magherini, l'avvocato Fabio Anselmo, era stata annunciata domenica scorsa. Nel documento venivano ipotizzati i reati ora contestati dalla procura: omicidio preterintenzionale per i carabinieri e omicidio colposo per i sanitari. L'iscrizione nel registro degli indagati consentirà ai carabinieri e ai sanitari di nominare propri consulenti in caso di nuovi accertamenti tecnico-scientifici  Dopo la denuncia, la procura di Firenze ha deciso di sequestrare la salma e di bloccare il permesso per la sua sepoltura. Lo dice Fabio Anselmo, legale della famiglia Magherini, per il quale questo presuppone che "sarà effettuata una nuova autopsia".
Attraverso il loro legale, intanto, i carabinieri coinvolti invitano tutti "ad abbassare i toni e a non speculare sulla vicenda del povero Magherini", ritenendo che "debba cessare questo battage mediatico". I militari negano "ogni addebito" e Maresca annuncia la nomina di un consulente per effettuare ulteriori accertamenti.
''L'intervento dei carabinieri - spiega Maresca - è stato svolto nell'interesse del cittadino e dei cittadini, con tutte le precauzioni del caso, secondo il protocollo, nel pieno rispetto della legge come sempre fa l'Arma dei carabinieri. Magherini appariva fortemente alterato - prosegue il legale - e i militari sono intervenuti prima di tutto nel suo interesse, per mettere in sicurezza la situazione e consentire, prima possibile, l'intervento dei sanitari''. Ribadendo la vicinanza alla famiglia Magherini, Maresca, insieme ai carabinieri, ritiene ''si debba immediatamente interrompere questa ripetuta diffusione mediatica circa comportamenti non consoni dei militari che negano fortemente ogni addebito, e si mettono a disposizione del pm per ogni accertamento''. L'avvocato diffida, pertanto, ''chiunque anche sui social network, dove è stata sviluppata una campagna di attacco verso i militari, che va ad offendere l'onore e il decoro personale e professionale degli stessi. Ognuno risponderà delle dichiarazioni che fa e del modo con il quale vengono utilizzate queste dichiarazioni''

mercoledì 8 maggio 2013

Mafia, azzerati vertici cosche Bagheria. Indagato sindaco leghista: voto di scambio.


Carabinieri


Un'operazione dei carabinieri di Palermo ha portato a decine di arresti a vario titolo. Le accuse sono di associazione mafiosa, estorsione, rapine, detenzione illecita di armi da fuoco, scambio elettorale politico mafioso e traffico internazionale di stupefacenti. Tra gli indagati. Giuseppe Scrivano, primo cittadino di Alimena, candidato del Carroccio.

Azzerati i vertici delle cosche di Bagheria, oltre 30 milioni di euro sequestrati e un sindaco della Lega Nord indagato. E’ questo il bilancio di una vasta operazione antimafia dei carabinieri di Palermo e del Ros, che ha portato a decine di arresti all’alba. Il sindaco è Giuseppe Scrivano, candidato del Carroccio alle ultime elezioni politiche e ora attuale primo cittadino di Alimena, in provincia del capoluogo siciliano. Per lui è arrivato un avviso di garanzia per voto di scambio. Dalle indagini coordinate dalla Dda di Palermo è emerso che alle ultime elezioni regionali dell’ottobre scorso il sindaco, candidato nella Lista Musumeci, ha contattato persone ritenute vicine a Cosa Nostra per ottenere dei voti.
In manette sono finiti i capi storici della cosca di  Bagheria, accusati a vario titolo, di associazione mafiosa, estorsione, rapine, detenzione illecita di armi da fuoco, scambio elettorale politico mafioso. Tra gli arresti, anche il reggente e il cassiere del mandamento e i capi delle famiglie mafiose di Villabate, Ficarazzi e Altavilla Milicia. Dall’inchiesta, inoltre, che è stata condotta con la collaborazione della Royal Canadian Mounted Police, è emersa l’esistenza di un accordo tra Cosa nostra di Bagheria e la famiglia mafiosa italo-canadese dei Rizzuto. I legami oltreoceano erano legati al traffico internazionale di stupefacenti.
Le indagini hanno dimostrato come ancora l’organizzazione mafiosa sia strutturata secondo il tradizionale assetto verticistico. Continuano ad essere usati inoltre i vecchi rituali di affiliazione: la ‘punciuta’ e la presentazione dei nuovi affiliati ai mafiosi più anziani. In un’intercettazione ambientale, un uomo d’onore, discutendo con un altro affiliato, paragona le nuove leve a giovani cavalli da trotto, da addestrare – se necessario – anche ricorrendo alle maniere forti: “Quando vedi che nella salita fanno le bizze… piglia e colpisci con il frustino…. sulle gambe… che loro il trotto non lo interrompono… purtroppo i cavalli giovani così sono”, dice.
Le indagini hanno inoltre messo in luce una mafia aggressiva e sempre più camaleontica che, se da una parte continua a vedere nell’imposizione del pizzo la manifestazione più visibile della sua autorità sul territorio, dall’altra è consapevole che, complice anche la crisi economica, è più che mai necessario ricorrere ad altre fonti illecite di guadagno, come, ad esempio, la gestione del gioco d’azzardo. Resta forte la capacità del clan di condizionare le dinamiche politico-elettorali locali.
Dall’inchiesta, infine, condotta con la collaborazione della Royal Canadian Mounted Police, è emersa l’esistenza di un raccordo operativo nel settore degli stupefacenti tra Cosa nostra bagherese e la famiglia mafiosa italo-canadese dei Rizzuto. Documentata, inoltre, la situazione di instabilità interna alle organizzazioni canadesi, degenerata negli ultimi anni in numerosi omicidi.
Nella lista dei beni sequestrati: locali notturni della movida palermitana, agenzie di scommesse, imprese edili e supermercati. Tra questi c’è anche il pub Villa Giuditta, noto in tutta la città.