Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
sabato 5 novembre 2022
giovedì 27 ottobre 2022
"Marcello Dell’Ut…" … e il microfono si spegne… - Massimo Erbetti
giovedì 2 dicembre 2021
Forza Italia contro Di Matteo per spingere Berlusconi al Colle: “Mai accertate collusioni con la mafia”. Da Bontade ai soldi ai boss: cosa dice la sentenza Dell’Utri. - Giuseppe Pipitone
Rispondendo a una domanda sulla corsa al Quirinale, il magistrato ha ricordato in tv che lo storico braccio destro dell'ex premier è stato condannato per essere stato intermediario di un patto tra i clan e Arcore: "In cambio della protezione personale e imprenditoriale di Berlusconi prevedeva il versamento di somme ingenti di denaro da parte di Berlusconi a Cosa Nostra". L'attacco dei berlusconiani: "Accuse infamanti e infondate, l'ex premier è il più degno candidato alla presidenza della Repubblica". Ecco cosa c'è scritto nella sentenza definitiva sull'ex senatore.
Più si avvicina la fatidica data dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica e più ad Arcore aumenta la tensione. Nonostante pubblicamente dribbli l’argomento, infatti, Silvio Berlusconi continua sul serio a coltivare il sogno del Quirinale. Sarà per questo motivo che Forza Italia ha reagito in modo rabbioso, attaccando il magistrato Nino Di Matteo, reo di aver ricordato i rapporti tra Arcore e Cosa nostra. È già successo più volte in passato, ma questa volta c’è il Colle ad aumentare la reazione nervosa dei berlusconiani. Intervistato da Lucia Annunziata, infatti, Di Matteo ha ricordato cosa c’è scritto nella sentenza su Marcello Dell’Utri. Nel 2014 lo storico braccio destro di Berlusconi fu condannato in via definitiva a sette anni di carcere per concorso esterno a Cosa nostra. Dopo un breve periodo da latitante in Libano, Dell’Utri ha scontato la sua pena tra carcere e domiciliari: ora è tornato alla corte di Arcore, dove – secondo vari retroscena – è uno dei consiglieri più ascoltati in relazione a una possibile candidatura del leader di Forza Italia al Colle.
Le parole del magistrato Di Matteo – Insomma: può un uomo che ha il braccio destro condannato per mafia (e quello sinistro, cioè Cesare Previti, per corruzione in atti giudiziari) correre per il Quirinale? E infatti è proprio rispondendo a una domanda sul Colle che Di Matteo ha ricordato l’esistenza della sentenza Dell’Utri .“Io non ho titolo per esprimere giudizi politici mi limito a ricordare due dati di fatto. Il primo è che il presidente della Repubblica è anche presidente del Csm e nei confronti della magistratura non dovrebbe avere interessi e rancori di tipo personali. Poi ricordo che Dell’Utri fu intermediario di un accordo tra il 1974 e il 1992 con le famiglie mafiose palermitane, che in cambio della protezione personale e imprenditoriale di Berlusconi prevedeva il versamento di somme ingenti di denaro da parte di Berlusconi a Cosa Nostra, e questo è emerso da una sentenza definitiva”, ha detto il consigliere del Csm a Mezz’ora in Più su Rai3. Di Matteo si è astenuto da ogni ulteriore dichiarazione sulla corsa al Quirinale: “Non voglio commentare – ha aggiunto – ma questo sta diventando un paese in cui qualche fatto va ricordato. Il vizio della memoria dovrebbe essere coltivato in maniera più incisiva e generalizzata”.
I berlusconiani: “Nessuna sentenza ha mai accertato collusioni con la mafia” – Dichiarazioni che hanno fatto scendere sul piede di guerra i berlusconiani di stretta osservanza. I capigruppo delle commissioni Giustizia di Forza Italia alla Camera e al Senato Pierantonio Zanettin e Giacomo Caliendo, insieme con i componenti delle commissioni, la senatrice Fiammetta Modena e i deputati Matilde Siracusano e Roberto Cassinelli, hanno diffuso una nota per attaccare il magistrato. “Il consigliere del Csm Nino di Matteo – scrivono – si è scagliato contro la candidatura di Silvio Berlusconi al Quirinale, lanciando accuse tanto infamanti, quanto infondate. Occorre ricordare che nessuna sentenza ha mai accertato collusioni del presidente Berlusconi con la mafia. Forza Italia continua a ritenerlo il più degno candidato alla presidenza della Repubblica”. A sentire i berlusconiani “il magistrato Di Matteo non ha alcun titolo per intervenire nel dibattito politico sulle candidature al Quirinale. Al contrario, essendo comunque un magistrato, oltre che un rappresentante dell’organo di autogoverno della magistratura, dovrebbe avere rispetto per il ruolo che ricopre e mostrare quel poco di imparzialità che gli rimane”.
L’incontro con Bontade e l’assunzione di Mangano ad Arcore – Nessuno tra gli altri partiti politici è intervenuto per fare notare come le dichiarazioni di Di Matteo non contenessero alcuna accusa infamante e soprattutto infondata. E’ vero che Silvio Berlusconi non è mai stato processato o condannato per fatti di mafia, anche se è ancora oggi indagato a Firenze per un reato ancora più grave come il concorso nelle stragi del 1993. I rapporti tra il leader di Forza Italia e Cosa nostra, però, sono cristallizzati in una sentenza definitiva: quella emessa nel 2014 a carico di Dell’Utri. Le motivazioni di quella sentenza sono lunghe 75 pagine e il nome di Berlusconi viene citato 137 volte. Spiegando perché ha deciso di confermare la seconda sentenza di Appello (la prima era stata annullata dalla Cassazione due anni prima) la Suprema corte ripercorre il rapporto tra Dell’Utri e Cosa nostra: l’ex senatore fu il garante di un accordo tra i clan ed Arcore durato quasi vent’anni: dal 1974 al 1992. La mafia, in pratica, garantiva protezione all’inquilino di villa San Martino dove venne spedito Vittorio Mangano. In cambio ai boss arrivavano centinaia di milioni di lire dal gruppo imprenditoriale berlusconiano. Era il prezzo di un “accordo di protezione stipulato nel 1974 tra gli esponenti mafiosi (Bontade e Teresi) e Silvio Berlusconi per il tramite di Dell’Utri, espressivo dell’importanza e della solidità dello stesso, dell’affidamento reciproco tra le due parti che lo avevano stipulato grazie alla mediazione dell’imputato, il quale rappresentava la persona in cui entrambe riponevano fiducia”. Quell’accordo, ricostruiva la prima sezione penale presieduta da Maria Cristina Siotto, venne siglato durante un incontro, che si è svolto a Milano tra “il 16 e il 29 maggio 1974” e al quale avevano partecipato Berlusconi, Dell’Utri, il suo amico Gaetano Cinà, uomo della “famiglia” mafiosa di Malaspina, Stefano Bontade, il principe di Villagrazia che era al vertice di Cosa nostra, Girolamo Teresi di Santa Maria del Gesù e Francesco Di Carlo, boss di Altofonte che poi diventerà un collaboratore di giustizia. “In quell’occasione veniva concluso l’accordo di reciproco interesse, in precedenza ricordato, tra Cosa nostra, rappresentata dai boss mafiosi Bontade e Teresi, e l’imprenditore Berlusconi, accordo realizzato grazie alla mediazione di Dell’Utri che aveva coinvolto l’amico Gaetano Cinà, il quale, in virtù dei saldi collegamenti con i vertici della consorteria mafiosa, aveva garantito la realizzazione di tale incontro”, si legge nella sentenza della corte di Cassazione. “L’assunzione di Vittorio Mangano (all’epoca dei fatti affiliato alla “famiglia” mafiosa di Porta Nuova, formalmente aggregata al mandamento di S. Maria del Gesù, comandato da Stefano Bontade) ad Arcore, nel maggio-giugno del 1974, costituiva l’espressione dell’accordo concluso, grazie alla mediazione di Dell’Utri, tra gli esponenti palermitani di Cosa nsotra e Silvio Berlusconi ed era funzionale a garantire un presidio mafioso all’interno della villa di quest’ultimo. In cambio della protezione assicurata Silvio Berlusconi aveva iniziato a corrispondere, a partire dal 1974, agli esponenti di Cosa nostra palermitana, per il tramite di Dell’Utri, cospicue somme di denaro che venivano materialmente riscosse da Gaetano Cinà”, proseguiva la giudice relatrice Margherita Cassano.
Da Arcore soldi alla mafia tra il 1974 e il 1992 – Quell’accordo, secondo i giudici, è andato avanti negli anni, anche dopo l’omicidio di Bontade e l’arrivo al potere dei corleonesi di Totò Riina. “La sistematicità nell’erogazione delle cospicue somme di denaro da Marcello Dell’Utri a Gaetano Cinà sono indicative della ferma volontà di Berlusconi di dare attuazione all’accordo al di là dei mutamenti degli assetti di vertice di Cosa nostra nella consapevolezza del rilievo che esso rivestiva per entrambe le parti: l’associazione mafiosa che da esso traeva un costante canale di significativo arricchimento; l’imprenditore Berlusconi, interessato a preservare la sua sfera di sicurezza personale ed economica”, si legge nella sentenza della Suprema corte. I giudici scrivevano che “la Corte d’appello di Palermo ha, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, dimostrato che anche nel periodo compreso tra il 1983 e il 1992, l’imputato (cioè Dell’Utri ndr), assicurando un costante canale di collegamento tra i partecipi del patto di protezione stipulato nel 1974, protrattosi da allora senza interruzioni, e garantendo la continuità dei pagamenti di Silvio Berlusconi in favore degli esponenti dell’associazione mafiosa in cambio della complessiva protezione da questa accordata all’imprenditore, ha consapevolmente e volontariamente fornito un contributo causale determinante, che senza il suo apporto non si sarebbe verificato, alla conservazione del sodalizio mafioso e alla realizzazione, almeno parziale, del suo programma criminoso, volto alla sistematica acquisizione di proventi economici ai fini della sua stessa operatività, del suo rafforzamento e della sua espansione”.
“Quei 20 miliardi di Cosa nostra per i film di Canale 5” – Per dimostrare che Dell’Utri si sia posto nei confronti di Cosa nostra come rappresentante di Berlusconi pure quando non era un dipendente del gruppo di Arcore, i giudici citano un precedente del 1980. “Il perdurante rapporto di Dell’Utri con l’associazione mafiosa anche nel periodo in cui lavorava per Filippo Rapisarda e la sua costante proiezione verso gli interessi dell’amico imprenditore Berlusconi veniva logicamente desunto dai giudici territoriali anche dall’incontro, avvenuto nei primi mesi del 1980, a Parigi, tra l’imputato, Bontade e Teresi, incontro nel corso del quale Dell’Utri chiedeva ai due esponenti mafiosi 20 miliardi di lire per l’acquisto di film per Canale 5“. Questa sentenza, come detto, è passata in giudicato: è accertato, dunque, che “l’imprenditore Berlusconi” ha pagato Cosa nostra tra il 1974 e il 1992 grazie all’intermediazione del suo storico braccio destro. Addirittura, secondo i giudici della corte d’Assise di Palermo che hanno celebrato il processo di primo grado sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra, quei pagamenti da Arcore sarebbero proseguiti fino al dicembre del 1994, cioè quando Berlusconi era già a Palazzo Chigi. Quella sentenza, però, è stata ribaltata in Appello: dopo la condanna in primo grado, Dell’Utri è stato assolto in secondo. Avendo già finito di scontare la sua pena per concorso esterno, è tornato a essere tra gli ospiti più ascoltati ad Arcore. Raccontano i bene informati che ci sarebbe proprio Dell’Utri dietro l’incontro a cena tra Gianfranco Micciché e Matteo Renzi. Nel menù, a sentire Micciché, ci sarebbe stata anche l’elezione di Berlusconi al Quirinale.
lunedì 13 settembre 2021
Una pagina del “Corriere” per gli 80 anni di Dell’Utri. - Valeria Pacelli
“Un omaggio a un vecchio amico”, che prende la forma di un’intera pagina sul Corriere della Sera, perché quello di ieri non era un compleanno qualunque. Marcello Dell’Utri, ex dirigente di Publitalia, ex fondatore di Forza Italia, ex senatore con nel curriculum una condanna definitiva (e già scontata) per concorso esterno, ha compiuto 80 anni.
E proprio da coloro che lo hanno conosciuto e ne hanno condiviso una parte del percorso in Publitalia è arrivata l’iniziativa: un augurio che ha preso le sembianze di un avviso a pagamento sul quotidiano di via Solferino. Circa 200 firme intorno alla scritta “Auguri caro Marcello” a caratteri cubitali.
L’idea è partita da una pagina Facebook che raccoglie ex dirigenti e lavoratori di Publitalia. “Sono tutti ex dipendenti dell’azienda rimasti amici di Marcello – spiega uno dei firmatari –. Sono vecchi dirigenti, impiegati e qualche segretaria che hanno deciso di fargli gli auguri in maniera abbastanza visibile”. Ma, viene ribadito più volte, “l’azienda non c’entra nulla e allo stesso modo il partito”. E quanto è costato questo regalo? “La cifra da versare non mi è stata ancora comunicata. Mi risulta che costi parecchio, però sono sempre 200 firme, eh”. E via dunque con la colletta, ma ci tiene a sottolineare chi ha firmato “è solo una cosa fra amici, non c’è bisogno di strumentalizzare”. Non è la prima volta che il Corriere pubblica avvisi a pagamento (come quello di ieri) su Dell’Utri. Era già successo nel giugno del 2014 quando era apparsa una pagina “Al tuo fianco, Marcello”, costellata da messaggi. All’epoca l’ex senatore era detenuto a Parma e ci fu una reazione del Comitato di redazione, con i giornalisti che criticarono la scelta della direzione di accettare la pagina. Ieri di nuovo, e tra tra i firmatari del “tanti auguri” non sono mancati Giancarlo Galan, ex governatore veneto ed ex ministro (che ha patteggiato una pena a due anni e 10 mesi nell’inchiesta Mose). E ancora: l’ex sottosegretario Giancarlo Innocenzi Botti e l’ex senatore Massimo Palmizio. Volevano far sentire la propria vicinanza a Dell’Utri, il quale – racconta chi lo sente spesso – “da tempo non ha rapporti né con il partito né con l’azienda”. Condannato in via definitiva a sette anni per concorso esterno, a dicembre 2019 l’ex senatore è tornato in libertà dopo aver scontato poco meno di sei anni grazie alla liberazione anticipata. Ora vive a Milano, “si occupa solo delle vere passioni: i libri antichi. È un vero collezionista e lo hanno anche assolto…” racconta un ex collega di partito facendo riferimento a un’indagine napoletana: Dell’Utri accusato di una presunta appropriazione di tredici volumi della Biblioteca dei Girolamini di Napoli a gennaio è stato assolto. C’è poi la grana della condanna a 12 anni in primo grado nell’ambito del processo sulla Trattativa. La sentenza d’appello è attesa per il 20 settembre, nel frattempo l’ex senatore ha potuto trascorrere un compleanno sereno.
ILFQ
sabato 6 marzo 2021
Graviano “canta” coi pim: nuova indagine su B. - Marco Lillo
Le origini. I soldi del capo di Forza Italia. Cose loro “Mio nonno era in contatto con l’ex Cavaliere”: e i pm di Firenze scavano sui patrimoni iniziali di Silvio. Volano a Palermo. Risentono l’ex gelataio Baiardo.
Si muove come un fiume carsico l’ inchiesta fiorentina per strage su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. L’ipotesi più volte sollevate e più volte scartata è che ci siano stati rapporti tra Silvio Berlusconi e Marcello dell’Utri con i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, poi condannati definitivamente per le stragi del 1992 e 1993.
Berlusconi e Dell’Utri sono stati già indagati e archiviati negli anni novanta e duemila. Sono di nuovo indagati da più di tre anni per le parole dette contro Berlusconi in carcere da Giuseppe Graviano nel 2016 e 2017 poi ribadite dal boss con affermazioni, tutte da riscontrare, sui suoi rapporti con Berlusconi risalenti al 1993 in aula al processo Ndrangheta Stragista.
L’indagine è stata rivitalizzata dalle dichiarazioni di Giuseppe Graviano del febbraio 2020 in aula sugli investimenti fatti negli anni settanta dalla sua famiglia materna nelle imprese milanesi di Berlusconi. Parole di un boss che non è un collaboratore e non si è mai pentito e sembrano più messaggi minacciosi che rivelazioni. Al Fatto risulta che nell’ inchiesta è stato sentito anche Salvatore Baiardo, l’ex gelataio ad Omegna, condannato per favoreggiamento più di venti anni fa perché ospitò quando erano latitanti i due fratelli di Brancaccio, arrestati nel gennaio 1994.
Dopo la scossa della trasmissione Rai Report che ha intervistato a gennaio il favoreggiatore sui presunti rapporti tra Berlusconi e dell’Utri con i due boss, qualcosa si muove. Anche Baiardo è un soggetto dalle rivelazioni carsiche. Nel 1995 aveva accennato qualcosa sui rapporti tra il gruppo Berlusconi e i Graviano ai Carabinieri che avevano arrestato i due boss a Milano. Fu ritenuto inattendibile. Poi l’inchiesta passò a Francesco Messina, attuale Direttore centrale Anticrimine della Polizia di Stato, allora capo della Dia di Milano. Messina andò a sentire Baiardo e scrisse un’informativa basata sulle sue rivelazioni che Baiardo non firmò per paura. Baiardo parlava vagamente dei rapporti tra dell’Utri e i Graviano, mai riscontrati. Messina in tv a Report ha detto che non ricevette nemmeno un impulso a indagare dai magistrati su quell’informativa. Era il novembre del 1996, quasi 25 anni fa.
Poi Salvatore Baiardo, ormai una decina di anni fa si è fatto vivo con Il Fatto, che lo ha intervistato. Tirò il sasso alludendo alle vacanze in Sardegna nel 1992 e 1993 dei fratelli Graviano a poca distanza dalla villa di Berlusconi, facilmente raggiungibile via mare da villa Certosa. Poi tirò indietro la mano dicendo che comunque da lì a dire che si erano incontrati “c’è di mezzo il mare”.
Infine Baiardo ha parlato a Report nell’intervista trasmesa due mesi fa. Secondo lui i rapporti finanziari tra i Graviano e Berlusconi sarebbero stati reali ma più importanti di come li racconta Giuseppe Graviano. Affermazioni non riscontrate e talvolta fumose e discordanti che sono senza alcun fondamento per i legali di Berlusconi. Al Fatto risulta che, dopo quelle affermazioni a Report, Baiardo è stato sentito a verbale dai pm di Firenze. Di nuovo. Era già stato sentito in gran segreto nei mesi scorsi altre tre volte e avrebbe parlato a lungo.
Secondo L’espresso i pm fiorentini sarebbero scesi in trasferta a Palermo per cinque giorni tra 8 e 12 febbraio per fare verifiche sul territorio proprio nel filone dell’inchiesta che riguarda i presunti rapporti economici del passato tra la famiglia Graviano e il gruppo Berlusconi. Inoltre i pm di Firenze prima sono andati a interrogare in carcere a Terni Giuseppe Graviano per chiedergli conto delle sue rivelazioni fatte al processo Ndrangheta Stragista su suoi presunti rapporti con Silvio Berlusconi. Il boss di Brancaccio è stato ascoltato il 20 novembre e il giorno prima era stato ascoltato il fratello Filippo Graviano nel carcere di L’Aquila. Da più di dieci anni Filippo a differenza di Giuseppe dice di essersi dissociato. Il boss ha ammesso di essere stato un associato a Cosa Nostra anche se nega di essere mai stato il capo del mandamento o di aver preso parte alle stragi del 1992 e 1993 per le quali è stato condannato.
I due fratelli Graviano sono stati condannati per le stragi del 1992 (costate la vita ai giudici Giovanni Falcone, con la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta e al giudice Paolo Borsellino con 5 agenti di scorta) nonché per le stragi del 1993 a Firenze e Milano, costate la vita a 10 persone in tutto tra le quali due bambine, nonché per gli attentati contro le basiliche e contro il conduttore Maurizio Costanzo e la moglie Maria De Filippi, nonché per l’esecuzione del beato don Pino Puglisi, parroco del loro quartiere Brancaccio. Nonostante tutte le condanne definitive i due fratelli che hanno ormai 57 (Giuseppe, il boss vero del clan) e 59 anni (Filippo, il più grande che però era in realtà più l’uomo dei conti) continuano a sperare di potere uscire. Filippo Graviano ha chiesto recentemente un permesso premio motivandolo con la sua dissociazione. Nel 2010 Giuseppe Graviano e Filippo Graviano furono convocati al processo di appello contro Marcello Dell’Utri per concorso esterno. Alla domanda se lo conoscessero, Filippo ha risposto di no raccogliendo i complimenti di dell’Utri sul suo ravvedimento mentre Giuseppe si è avvalso della facoltà di non rispondere. Dell’Utri, che era stato ritenuto colpevole in primo grado anche per la fase politica del suo impegno pubblico, in appello è stato assolto anche perché il racconto di Spatuzza in quel processo non è stato ritenuto attendibile.
Nell’agosto del 2013 Giuseppe Graviano scrisse dal carcere una lettera all’allora ministro Beatrice Lorenzin, che al Fatto disse di non averla letta. Nella lettera, svelata ieri da L’espresso, chiedeva un miglioramento delle sue condizioni carcerarie e sosteneva di essere in carcere “perché dal primo giorno del mio arresto mi è stato detto che se non avessi accusato il presidente di Forza Italia e collaboratori venivano accusato di tutte le stragi del 1993 in poi, lo stesso i miei fratelli, per i parenti altre accuse di 416 bis”. Il boss sosteneva di esser stato spinto “a confermare le accuse dei collaboratori di giustizia nei confronti del senatore Berlusconi, (…) per la provenienza dei capitali per formare il patrimonio della famiglia Berlusconi e in questi ultimi 20 anni altri che conoscete anche tramite i mass-media per ultimo Spatuzza che accusa il senatore Berlusconi e l’ex senatore dell’Utri delle stragi del 1993 e il senatore Renato Schifani per affari con i fratelli Graviano”. Il boss però scriveva “ho la forza di non cedere ai ricatti”.
giovedì 14 maggio 2020
Mafia, il capo dell’Anticrimine: “Fu Baiardo e dirci dei rapporti tra i Graviano e Dell’Utri. Informammo i pm nel ’97, nessuno si mosse”. - Lucio Musolino
I rapporti con i Graviano - Al processo ’ndrangheta stragista il capo dell’Anticrimine Messina spiega: “Non ci fecero indagare”.
martedì 5 maggio 2020
Carceri, Forza Italia ora usa Di Matteo per attaccare Bonafede. Ma fino a sei mesi fa lo insultava (perché parlava di Dell’Utri e i boss mafiosi). - Giuseppe Pipitone
Tutto il centrodestra, guidato dai berlusconiani, è andato all'attacco del Guardasigilli sfruttando il botta e risposta col pm antimafia in diretta televisiva. Ma fino a pochi mesi fa sono molteplici gli attacchi e gli insulti (soprattutto dei forzisti) indirizzati proprio all'ex pm di Palermo, che ha indagato sulla Trattativa Stato-mafia, ha ottenuto la condanna di Dell'Utri a 12 anni di carcere, e ha spesso ricordato pubblicamente come Forza Italia sia stata fondata da un uomo riconosciuto colpevole di concorso esterno a Cosa nostra.
Chiedono le dimissioni del guardasigilli, vogliono che l’intero governo vada in Parlamento a spiegare, definiscono “gravi” le accuse al ministro e vorrebbero fosserro addirittura sollevate “nelle sedi opportune”. Il primo giorno della cosiddetta Fase due della lotta al coronavirus si fa segnalare per un fatto inedito che però nulla ha a che fare con l’epidemia: tutto il centrodestra si schiera compatto a difesa del più noto magistrato antimafia del Paese. Persino Forza Italia che in passato ha parecchio polemizzato con lo stesso pubblico ministero, arrivando più volte a insultarlo. Tutto pur di avere l’occasione di attaccare il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Anche usare le parole di Nino Di Matteo, l’ex pm della procura di Palermo ora consigliere del Csm, che i berlusconiani definivano “mitomane” non più tardi di sei mesi fa. D’altra parte Di Matteo è il magistrato che ha indagato sulla Trattativa Stato-mafia, che ha ottenuto la condanna di Marcello Dell’Utri a 12 anni di carcere, che ha spesso ricordato pubblicamente come Forza Italia sia stata fondata da un uomo che la Cassazione ha riconosciuto colpevole di concorso esterno a Cosa nostra.
L’assist per il centrodestra – La vicenda che fa da assist al centrodestra, con i berlusconiani tornati a guidare la coalizione almeno nella guerra di comunicati stampa, è quella che si consuma nello studio di Non è l’Arena su La7. In studio si discute di carceri, e si evoca la nomina di Di Matteo a capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria nel giugno del 2018, poi mai concretizzatasi. Il consigliere del Csm chiama in diretta per raccontare che nel 2018 il ministro gli aveva effettivamente offerto di dirigere il Dap. Alcuni giorni prima era iniziata a circolare la relazione con le reazioni rabbiose esternate dai boss mafiosi al 41bis sull’ipotesi di Di Matteo al capo del Dap. Quell’offerta sarebbe poi venuta meno. “Andai a trovare il ministro – è la ricostruzione di Di Matteo – dicendo che avevo deciso di accettare l’incarico al Dap, ma improvvisamente mi disse che ci aveva ripensato e nel frattempo avevano deciso di nominare il dottor Basentini. Mi chiese di accettare il posto di direttore generale del ministero, ma il giorno dopo gli dissi di non contare su di me”. Sempre in diretta ecco la replica di Bonafede: Non sono uno stupido sapevo chi è Di Matteo, sapevo chi stavo per scegliere, e tra l’altro l’altro quella intercettazione era già stata pubblicata sul Fatto Quotidiano e sono intercettazioni di cui il ministro dispone perché le fa la polizia penitenziaria. Il fatto che il giorno dopo avrei ritrattato quella proposta in virtù di non so quale paura sopravvenuta non sta né in cielo né in terra. E’ una percezione del dottor Di Matteo”.
Gelmini: da “supposizioni infamanti” a “gravissime accuse” – È su questo botta e risposta che il centrodestra tutto si è trovato unito vicino al magistrato ed è andato all’attacco del Guardasigilli. “Riassumendo: prima Bonafede permette che diversi boss escano dal carcere. Poi Di Matteo dichiara di non essere stato nominato a capo del Dap per le pressioni della mafia e i 5s non ne chiedono le dimissioni? Il Governo deve riferire in Aula e dare spiegazioni agli italiani”, twitta Gabriella Giammanco, vicepresidente del partito azzurro al Senato. “Dopo le parole di Nino Di Matteo da Giletti a Non è l’arena, Alfonso Bonafede venga immediatamente in Parlamento. Le gravissime accuse del pm non possono cadere nel vuoto: o Di Matteo lascia la magistratura o Bonafede lascia il Ministero della Giustizia”, scrive sempre sui social Mariastella Gelmini, capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati. La stessa che il 3 novembre scorso definiva quelle di Di Matteo “le solite farneticanti teorie“, “ancora una volta ridicole accuse“, “supposizioni infamanti” “illazioni inaccettabili e insultanti“. Quel giorno il magistrato aveva ricordato in diretta televisiva su Rai3 il patto tra le famiglie mafiose e Silvio Berlusconi, durato almeno fino al 1992 e al centro di una sentenza definitiva della Cassazione che ha condannato il braccio destro del Cavaliere e fondatore di Forza Italia per concorso esterno in associazione mafiosa.