Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
giovedì 7 agosto 2025
sabato 20 marzo 2021
“Era un collaboratore riservato di Falcone e fu testimone dell’abbraccio tra Stato e mafia: ecco perché è stato ucciso Nino Agostino.” - Giuseppe Pipitone
L'INTERVISTA - L'avvocato Fabio Repici è il legale della famiglia del poliziotto ucciso il 5 agosto del 1989 insieme alla moglie Ida Castelluccio. Per tre decenni un duplice omicidio senza colpevoli e privo di mandanti. Fino a ieri quando è stato condannato all'ergastolo il boss Nino Madonia. "Un risultato storico che arriva dopo 25 anni di depistaggi e di una vera e propria distruzione della verità", dice il legale. Che racconta quello che ha scoperto la procura generale di Palermo: il poliziotto aveva un "rapporto fiduciario" con il giudice ucciso a Capaci. E faceva parte di un "gruppo riservato" che si occupava di cacciare i latitanti.
C’erano i buoni che in realtà erano cattivi. E poi c’erano i cattivi che erano pure peggio. In mezzo c’era lui: un comune poliziotto che lavorava al servizio Volanti del commissariato San Lorenzo di Palermo. Apparentemente Nino Agostino si occupava di posti di blocco e contravvenzioni. In realtà dava la caccia al latitanti. Quelli di Cosa nostra, che all’epoca si chiamavano Totò Riina e Bernardo Provenzano e comandavano un esercito completamente mimetizzato nella vita di ogni giorno. Al bar, per strada, in banca: nel 1989 a Palermo la mafia non era un’anomalia, era routine. “Quest’omicidio è stato fatto contro di me“, dirà davanti alla bara di quell’agente di polizia, il magistrato Giovanni Falcone: avevano ucciso un investigatore che lavorava con lui, seppur in via riservata. Troppo riservata: fino a oggi di quella collaborazione non si sapeva nulla. Non si poteva: il principale testimone di tutta quella storia, cioè lo stesso Falcone, è stato fatto saltare in aria. E sull’omicidio di Nino Agostino e di sua moglie, Ida Castelluccio, sono calati tre decenni di silenzio.
Sembra una storia da film, di quelli americani col finale a sorpresa che arriva dopo, molto dopo, quello ufficiale. Questo, però, non è un film ma la storia di un duplice delitto quasi dimenticato, ingoiato dalle cronache di bombe e morte degli anni ’90. Agostino e la moglie li ammazzano poco prima, alla fine di una giornata di mare: il 5 agosto del 1989, davanti casa dei suoi genitori, a Villagrazia di Carini, spuntano in due su una motocicletta e cominciano a sparare. Nino apre il cancello e col suo corpo fa scudo a Ida. Che si volta, guarda in faccia i motociclisti e grida: “Io vi conosco“. Quelli rispondono e la colpiscono al cuore: era incinta da tre mesi e sposata da uno.
Trentadue anni: tanto ci è voluto per portare a processo e condannare all’ergastolo Nino Madonia, uno di quei killer che Cosa nostra usava per i delitti particolari. Quello di Agostino era particolarissimo, senza movente e senza colpevoli: perché assassinare in quel modo un semplice agente in servizio alla sezione Volanti del commissariato di San Lorenzo, a Palermo? Perché farlo mentre si trova insieme alla moglie nella casa sul mare? E poi: come è possibile che ci siano voluti 32 anni per arrivare a una condanna di primo grado? “Questa sentenza è un miracolo“, dice l’avvocato Fabio Repici, legale della famiglia Agostino. Vincenzo, il padre del poliziotto ammazzato, in Sicilia lo conoscono tutti perché ha una lunghissima barba bianca. Non la taglia dal 1989, dal giorno in cui gli hanno ammazzato il figlio e la nuora davanti casa: una sorta di fioretto laico che rispetterà, dice, fino a quando non emergerà tutta la verità.
Avvocato Repici, con la sentenza di oggi arriva un pezzettino di verità sul caso Agostino?
No, non è un pezzettino di verità. È un risultato storico per il distretto giudiziario di Palermo perché arriva dopo 25 anni di depistaggi e di una vera e propria distruzione della verità.
In che senso distruzione della verità?
Un collega di Nino Agostino fece scomparire gli appunti scritti dallo stesso Agostino, che prevedeva il suo assassinio, dormiva con la pistola sul comodino, e per questo si era tutelato. Ecco perché va sottolineato il risultato storico della procura generale di Palermo guidata da Roberto Scarpinato e dai sostituti Domenico Gozzo e Umberto De Giglio. Sono arrivati alla sentenza di condanna di Nino Madonia, il più pericoloso esponente della stagione corleonese di Cosa nostra a Palermo. Uno che ha avuto come principale capitale sociale le relazioni privilegiate con gli apparati deviati dello Stato e del Sisde.
Per molto tempo il caso Agostino è stato liquidato come un duplice omicidio senza colpevoli e senza moventi. Perché si dovuti attendere 32 anni prima di arrivare a una sentenza?
Perché l’omicidio Agostino è stato eseguito da due uomini di Cosa nostra, legati ad apparati dello Stato, e cioè Nino Madonia e Gaetano Scotto. Ma è stato commesso anche nell’interesse di apparati deviati dello Stato che poi sono intervenuti nell’attività di depistaggio.
In che modo?
L’attività di occultamento della verità è stata posta in essere in una maniera così spregiudicata tale da occultare e far sparire delle informazioni che erano emerse fin da subito. La sera stessa dell’omicidio un collega di Agostino, il poliziotto Domenico La Monica, aveva riferito al capo della Mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera, che proprio Nino Agostino si occupava della ricerca di latitanti. Informazione che è stata recuperata solo recentemente.
Già il giorno dopo, davanti alle bare di Agostino e della moglie, Falcone disse al commissario Montalbano: “L’omicidio di questi due ragazzi è stato commesso contro di me”. Che cosa significa?
Che fin dall’immediatezza il magistrato più esperto nei fatti di Cosa nostra aveva capito cosa fosse l’omicidio Agostino. Falcone era il principale testimone di quel duplice assassinio. Purtroppo venne eliminato il 23 maggio del 1992 con la strage di Capaci. E per la verità su Nino e Ida sono serviti altri trent’anni.
Chi era Nino Agostino? E perché è stato assassinato?
Era un umile agente di Polizia desidoroso di servire lo Stato. Ed era un poliziotto coraggioso. Negli ultimi tempi della sua carriera è stato accertato che aveva accettato di partecipare alla ricerca dei latitanti di Cosa nostra. Un’attività borderline, ma istituzionalmente organizzata col coordinamento dell’Alto commissariato antimafia, dei servizi di sicurezza e della polizia.
Un terreno minato.
Esatto. E infatti, mentre era impegnato in quest’attività, Nino Agostino divenne testimone scomodo delle contiguità di alti funzionari della polizia e dei servizi sicurezza con i mafiosi del mandamento di Resuttana, cioè quello di Nino Madonia, il suo killer. Bisogna considerare che il mandamento di Resuttana, per delega diretta di Riina, si occupava delle relazioni tra Cosa nostra e gli apparati istituzionali. Accadevano cose incredibili in quella zona di Palermo.
Per esempio?
Alcuni anni fa vennero intercettati due poliziotti della squadra Contrada che raccontavano dell’esistenza di un poligono di tiro in cui andavano a sparare poliziotti, mafiosi e uno come Pierluigi Concutelli, il neofascista che è stato “covato” personalmente dalla famiglia Madonia e che poi uccise il giudice Vittorio Occorsio.
Cosa nostra, apparati dello Stato ed eversione neofascista: tutti insieme nello stesso spicchio di Palermo.
Già, per questo io ho parlato di una trinità a monte dell’omicidio Agostino. Ma c’è un’altra cosa.
Quale?
Negli ultimi mesi di vita Nino Agostino, così come è stato dimostrato dalle indagini, era entrato in rapporti di collaborazione con il giudice Falcone.
Che tipo di collaborazione?
Collaborava sia nell’attività prestata per la scorta di un testimone che veniva sentito in quel momento da Falcone, cioè l’estremista di destra Alberto Volo. Sia per le attività di cui si occupava personalmente Falcone, che si era circondato in modo riservato dell’aiuto di alcuni esponenti della Polizia.
Tra questi Nino Agostino?
È stato accertato che Falcone aveva un rapporto fiduciario con Agostino. L’uccisione del poliziotto avviene nel momento più incandescente dell’estate del 1989, cioè l’estate in cui ebbe la stura la stagione stragista. Fu il periodo in cui a causa di uno scontro feroce che scoppiò all’interno degli apparati dello Stato, uomini come Falcone – a cui tutti i cittadini italiani sono debitori – si trovarono in condizioni di sovraesposizione. Furono obbligati a doversi tenere al riparo dall’attività di altri organi istituzionali e allo stesso tempo dovettero affidarsi alla collaborazione di soggetti fiduciari. Tra questi, sicuramente, c’era Nino Agostino.
Quella fu l’estate dell’attentato all’Addaura, delle polemiche contro Falcone accusato di essersi messo da solo l’esplosivo sotto casa, e anche delle “menti raffinatissime” come le definì lo stesso giudice. Secondo lei, a cosa si riferiva?
A quell’assetto di interessi che porterà anche all’uccisione di Nino Agostino. Putroppo dopo l’omicidio Agostino, Falcone operò riservatamente e riservatamente cercò di trovare il bandolo della verità. Ma nulla di questo venne reso ufficiale in documenti formalmente utilizzabili: con la strage di Capaci venne fatto fuori non solo il nemico numero uno di Cosa nostra, ma anche il principale testimone dell’omicidio Agostino.
Questa è una storia di ombre e luci che s’intersecano. Per esempio la procura generale sostiene che Agostino lavorasse in un “gruppo riservato”, una sorta di squadra speciale di cattura latitanti. Ma dentro questa squadra c’erano anche personaggi come Giovanni Aiello, meglio noto come “Faccia da mostro”, che prima di morire – nel 2017 – fu pure indagato per l’omicidio del poliziotto.
Se è per questo in quel gruppo c’era anche Guido Paolilli, il poliziotto intercettato mentre diceva di aver stracciato “una freca di carte” dall’armadietto di Agostino. Venne indagato per favoreggiamento e archiviato per prescrizione, ma la famiglia lo ha citato in giudizio in sede civile.
Dunque Agostino lavorava con le persone che depistarono le indagini sul suo omicidio?
Agostino iniziò l’attività di poliziotto sotto l’egida del più anziano ispettore Paolilli, che era non solo suo collega ma anche suo amico. Ed era un uomo di assoluta fiducia di Bruno Contrada. Il problema di Agostino è che iniziò a svolgere quell’attività di ricerca di latitanti sotto l’egida di Paolilli e di quello che c’era dietro Paolilli, ma la svolgeva da poliziotto onesto. Si trovava in un osservatorio che gli consentì, putroppo, di vedere quello che è stato poi raccontato da collaboratori di giustizia e testimoni istituzionali: un abbraccio continuo tra alcuni esponenti dello Stato e Cosa nostra. Questo è stato uno dei due motivi per i quali fu ucciso Nino Agostino.
Quale è l’altro?
Quello più vicino all’interesse di Cosa nostra: proteggere i latitanti. Agostino negli ultimi tempi di vita era sulle tracce di Riina e Provenzano. Dal giorno dopo il suo matrimonio andava costantemente a San Giuseppe Jato dove in quel momento si trovava latitante Riina. Tutto questo nella consapevolezza di un personaggio che era lo zio acquisito della moglie, mafioso e uomo dei Brusca. Per questo motivo l’omicidio di Nino Agostino e Ida Castelluccio è un omicidio commesso a mezzadria tra uomini di Cosa nostra e dello Stato.
Il caso Agostino è stato legato alla figura di Emanuele Piazza, ex poliziotto che collaborava col Sisde nella ricerca dei latitanti, scomparso nel nulla nel marzo ’90. Secondo gli inquirenti anche Piazza lavorava nel “gruppo riservato” di Agostino. Quanti sono i “casi Agostino” che non abbiamo capito negli ultimi trent’anni anni?
Ci furono sicuramente almeno quattro personaggi attivi nella ricerca di latitanti che furono uccisi tra il maggio del 1989 e il marzo del 1990. Si tratta di Nino Agostino, di Emanuele Piazza, di Giacomo Palazzolo, di Gaetano Genova. Agostino, però, era l’unico a indossare una divisa in quel momento.
Madonia ha preso ergastolo in abbreviato, ma il giudice ha ordinato anche un duplice rinvio a giudizio: per il boss Gaetano Scotto e per Francesco Paolo Rizzuto, un vicino di casa degli Agostino, accusato di favoreggiamento. Questo sarà un processo che sarà celebrato in aula coi testimoni.
E noi chiameremo a testimoniare tutti i soggetti istituzionali, ancora vivi, per dimostrare quella verità spaventevole che è stato l’omicidio Agostino-Castelluccio. Cioè un omicidio commesso nell’interesse anche di settori infedeli dello Stato.
Il Fatto Quotidiano
giovedì 26 novembre 2020
Il Cazzaro in fuga. - Marco Travaglio
Nel Paese dei Senzamemoria, giornaloni e giornalini continuano a spacciare la fiaba del centrodestra che diserta l’Antimafia e chiede le dimissioni del presidente Nicola Morra per le inesistenti offese a Jole Santelli. E nessuno ricorda il vero motivo della guerra di Salvini&C. a Morra. La frase sulla defunta presidente della Calabria viene usata come pretesto (questo sì oltraggioso) per nascondere ben altro: il 5Stelle ha il grave torto di aver convocato Salvini in Antimafia ormai due anni fa, nel dicembre 2018, appena la commissione si insediò. All’epoca era per un’audizione di routine sulle strategie antimafia dell’allora ministro dell’Interno, ovviamente inesistenti (per fortuna se ne occupò il suo collega Bonafede). Poi la Lega, a furia di riciclare il peggio della vecchia politica, finì invischiata in vari scandali di criminalità organizzata. E Morra riconvocò più volte il Cazzaro Verde, non più come ministro, ma come capopartito. Lui il 12 giugno 2019 dichiarò: “Certo che andrò in commissione Antimafia”. Lo stanno ancora aspettando. Quel giorno era stato arrestato a Palermo Francesco Paolo Arata, ex deputato FI, consulente di Salvini che l’aveva candidato a direttore dell’Arera (l’autorità di controllo sull’energia), nonché padre di Federico, consulente di Giorgetti a Palazzo Chigi e organizzatore del viaggio di Salvini negli Usa: l’accusa era di corruzione in concorso col compare Vito Nicastri (pregiudicato per tangenti e indagato – e poi condannato in primo grado – per mafia come amico di Messina Denaro), mentre un’inchiesta della Procura di Roma gli contestava una tangente al sottosegretario Siri, poi cacciato da Conte.
Di questo Morra lo chiamava a rispondere, ma anche delle rivelazioni del pentito Agostino Riccardo sull’appoggio elettorale dato alla lista Noi per Salvini dal clan rom dei Di Silvio a Latina per le Comunali del 2016. Tra i politici non indagati ma citati nell’inchiesta per l’appoggio del clan Di Silvio c’erano Francesco Zicchieri, vice-capogruppo leghista alla Camera, e Matteo Adinolfi, eletto a Terracina, poi promosso coordinatore provinciale della Lega e ora eurodeputato. Figurarsi l’imbarazzo di Salvini a rispondere in Antimafia del sostegno degli odiati “zingari” ai suoi fedelissimi; a giustificare la scelta di un consulente come Arata per il programma energetico della Lega; e anche a spiegare perché non costituì parte civile il Viminale al processo Montante (l’ex presidente di Confindustria Sicilia poi condannato a 14 anni in primo grado). Infatti scappa dall’Antimafia da due anni: mai messo piede. E ora vuol farci credere che ce l’ha con Morra per una frase sulla Santelli. Come si dice dalle sue parti: ma va a ciapa’ i ratt.
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/26/il-cazzaro-in-fuga/6016998/
sabato 21 novembre 2020
L'avvocato del diavolo. - Massimo Erbetti
giovedì 22 ottobre 2020
No al nuovo San Siro: lo chiede l’antimafia. - Nando dalla Chiesa
Che Paese schizofrenico è questo. La scorsa settimana a Vienna la delegazione italiana all’Assemblea delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale ha presentato la “Risoluzione Falcone” per fare recepire in quel consesso i principi di lotta alla criminalità organizzata propugnati dal grande giudice palermitano. Approvazione all’unanimità e gioia, giustificata, del ministro Bonafede. Italia faro della lotta alla mafia. Poi guardi bene e vedi invece che troppe cose, in Italia, vanno in “direzione ostinata e contraria”.
Rappresentanti delle istituzioni impegnati 24 ore su 24 ad abbattere abusivamente il 41-bis. Procure passate per la cura Palamara trasformate in dormitori. E fantasmi di grandi affari che dovrebbero far schizzare le antenne al cielo. Tra i quali ce n’è uno che mi inquieta, quello del nuovo stadio di San Siro a Milano. Un affare che assomiglia al sarchiapone. Per dire, come nella gag di Walter Chiari, che mi appare un terribile animale al solo sentirlo evocare, pur senza averlo mai visto.
Amo San Siro, ho portato stranieri a visitarlo, senza partite in corso. Perché in mezzo secolo di calcio (e che mezzo secolo!) si è guadagnato l’appellativo di “Scala del calcio”. E dubito molto che se si facesse un referendum tra i milanesi i sì al sarchiapone supererebbero il 20 per cento. Certo ci sono interessi enormi che spingono in questa sciagurata direzione. E sappiamo anche bene che le economie arretrate stravedono per il cemento. Campano di quello. Fu così nella Milano che vedeva disfarsi velocemente la sua industria e chiuder bottega le grandi dinastie d’impresa. La moda e il design salvarono il côté urbano, per fortuna. Ma non fu poi casuale se proprio in quel passaggio esplose Tangentopoli.
Oggi però Milano è cambiata. Anche se il Covid incombe, è in salute e ha risorse formidabili nella progettazione, nella comunicazione, nelle scienze mediche, nel turismo, nell’intermediazione di mille cose, nelle università. Ha anche una preziosa risorsa immateriale, sviluppatasi nell’ultimo decennio: il suo spirito pubblico. Senza il quale nulla vale, e con il quale tutto vale di più. Ha preso forma nelle sindacature Pisapia e Sala. Città aperta, solidale, civile, che nella vicenda nazionale ha saputo alla fine da che parte stare. Anche sulla legalità, che è il versante più problematico per il paese (quello di Falcone…). Senza voler fare torto ai due sindaci, anzi dando loro un grande riconoscimento, direi che, al di là di cose non condivisibili, sia stato questo il più grande dono che hanno fatto a Milano. Dono che sarebbe criminoso buttare alle ortiche, basta un attimo. Perciò è fondamentale che nella vicenda San Siro, prima di discutere del sarchiapone, si sappia chi lo tiene al guinzaglio. Sapere cioè chi sono i veri proprietari di Milan e Inter. Cosa che pare difficilissima. Mentre sarebbe per certo la linea Maginot di Falcone, principio assoluto e insuperabile di uno Stato serio: le risorse pubbliche (territorio, spazi, architetture, paesaggio, clima umano) non si possono dare agli sconosciuti, esattamente come i bambini non devono prenderne caramelle. Punto e a capo.
I poteri pubblici non possono trattare con degli enigmi. Il presidente della commissione antimafia comunale, David Gentili, sta cercando da mesi di dare l’allarme. Il sindaco Sala è però incalzato da quei poteri visibili dietro i quali sta il potere invisibile con i suoi capitali. E la mia sensazione personale è che non tutti i suoi assessori lo appoggino e lo sorreggano come sarebbe doveroso in questo tornante infido. Per fortuna, seguendo l’esempio di Pisapia, il sindaco si è dotato della consulenza di un comitato antimafia formato da esperti non lottizzati. I quali, richiesti di un parere, gliel’hanno scritto. Nitido, colto, garbato e perentorio come consentono dottrina e buon senso: non si può.
Si attenga a quel parere. Non passi ora la palla all’Anac, come sento dire che voglia fare. No, sindaco, quel comitato che è un suo fiore all’occhiello vale più dell’Anac di oggi, anche se lavora senza prendere un euro mentre l’altro è pagato profumatamente dagli italiani. Quest’Anac sarà la tomba di tutte le authorities, lo ricordi, mentre il suo comitato è credibile: non ha carneadi politicizzati. L’ha costituito lei, lo ascolti in nome della città e del suo spirito pubblico.
L’economia si riprenderà per altre vie: con il green, che lei stesso caldeggia, con gli investimenti nella sanità, con la cultura cosmopolita, con il commercio multiforme, con le professioni e le università. E poi con il suo capitale civico, stroncando ogni abuso amministrativo, per dare finalmente aria ai giovani talenti della città e a quelli pronti a venire da fuori, nella fioritura di vitalità che esploderà dopo questo Covid maledetto. Così scommettono i primi della classe.
giovedì 15 ottobre 2020
Li riconoscete? - Andrea Scanzi
Ieri Leonardo Guarnotta ha presentato il suo libro, lo splendido "C’era una volta il Pool antimafia”, alla tenuta di Suvignano (Siena). Un luogo molto simbolico, perché quella tenuta fu confiscata una prima volta nel 1983 da Falcone. Apparteneva all’”immobiliarista di Cosa Nostra”, definitivamente condannato nel 2005 proprio da Guarnotta, che non aveva mai visto quel luogo prima di ieri.
Ho assistito alla sua presentazione con trasporto e commozione. Ho avuto anche la fortuna di conoscerlo un po’ e di riportarlo con sua moglie in hotel (dormivamo nella stessa struttura). Non nascondo l’emozione e l’orgoglio.
Quello che ha fatto il pool antimafia di Chinnici prima e Caponnetto poi è straordinario. Anni di eroismo, senso dello Stato, coraggio, martirio e utopia puri. Ascoltare e leggere Guarnotta è come guardare la storia dal di dentro.
Ogni suo aneddoto ti colpisce al cuore. Come quando ha raccontato di un rito di Borsellino. “A maggio, quando si poteva prendere il primo caffè freddo a Palermo, mi invitava sempre. Lo beveva, mi guardava e rideva: ‘Leonardo, anche per quest’anno al caffè freddo ci siamo arrivati’. Era come dire: “Siamo ancora vivi”. Il senso del rischio costante era in loro fortissimo.
Ieri Guarnotta (colui che è poi stato tra i giudici del processo Dell’Utri) ha anche detto: “Giovanni (Falcone) è stato uno dei più grandi giudici che abbiamo avuto. Forse il più grande. Ma è stato anche il più trombato”. Una frase durissima, che fa capire come Falcone sia stato sì santificato dopo la morte, ma pure osteggiato in vita da quasi tutti: pezzi dello Stato, magistratura, intellettuali (Sciascia), non pochi cittadini (che si lamentavano del suo eccessivo “esibizionismo”.
Oggi Guarnotta sarà a Firenze e domani a Viareggio ed Empoli. Poi rientrerà a Palermo. Il suo “tour” è simile a quello di Caponnetto: parlare affinché tutti, anzitutto i giovani, conoscano e non dimentichino.
Un paese senza storia e senza memoria non ha speranze. Un paese che non conosce Leonardo Guarnotta non va da nessuna parte.
Che uomini straordinari.
martedì 5 maggio 2020
Carceri, Forza Italia ora usa Di Matteo per attaccare Bonafede. Ma fino a sei mesi fa lo insultava (perché parlava di Dell’Utri e i boss mafiosi). - Giuseppe Pipitone

Tutto il centrodestra, guidato dai berlusconiani, è andato all'attacco del Guardasigilli sfruttando il botta e risposta col pm antimafia in diretta televisiva. Ma fino a pochi mesi fa sono molteplici gli attacchi e gli insulti (soprattutto dei forzisti) indirizzati proprio all'ex pm di Palermo, che ha indagato sulla Trattativa Stato-mafia, ha ottenuto la condanna di Dell'Utri a 12 anni di carcere, e ha spesso ricordato pubblicamente come Forza Italia sia stata fondata da un uomo riconosciuto colpevole di concorso esterno a Cosa nostra.
Chiedono le dimissioni del guardasigilli, vogliono che l’intero governo vada in Parlamento a spiegare, definiscono “gravi” le accuse al ministro e vorrebbero fosserro addirittura sollevate “nelle sedi opportune”. Il primo giorno della cosiddetta Fase due della lotta al coronavirus si fa segnalare per un fatto inedito che però nulla ha a che fare con l’epidemia: tutto il centrodestra si schiera compatto a difesa del più noto magistrato antimafia del Paese. Persino Forza Italia che in passato ha parecchio polemizzato con lo stesso pubblico ministero, arrivando più volte a insultarlo. Tutto pur di avere l’occasione di attaccare il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Anche usare le parole di Nino Di Matteo, l’ex pm della procura di Palermo ora consigliere del Csm, che i berlusconiani definivano “mitomane” non più tardi di sei mesi fa. D’altra parte Di Matteo è il magistrato che ha indagato sulla Trattativa Stato-mafia, che ha ottenuto la condanna di Marcello Dell’Utri a 12 anni di carcere, che ha spesso ricordato pubblicamente come Forza Italia sia stata fondata da un uomo che la Cassazione ha riconosciuto colpevole di concorso esterno a Cosa nostra.
L’assist per il centrodestra – La vicenda che fa da assist al centrodestra, con i berlusconiani tornati a guidare la coalizione almeno nella guerra di comunicati stampa, è quella che si consuma nello studio di Non è l’Arena su La7. In studio si discute di carceri, e si evoca la nomina di Di Matteo a capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria nel giugno del 2018, poi mai concretizzatasi. Il consigliere del Csm chiama in diretta per raccontare che nel 2018 il ministro gli aveva effettivamente offerto di dirigere il Dap. Alcuni giorni prima era iniziata a circolare la relazione con le reazioni rabbiose esternate dai boss mafiosi al 41bis sull’ipotesi di Di Matteo al capo del Dap. Quell’offerta sarebbe poi venuta meno. “Andai a trovare il ministro – è la ricostruzione di Di Matteo – dicendo che avevo deciso di accettare l’incarico al Dap, ma improvvisamente mi disse che ci aveva ripensato e nel frattempo avevano deciso di nominare il dottor Basentini. Mi chiese di accettare il posto di direttore generale del ministero, ma il giorno dopo gli dissi di non contare su di me”. Sempre in diretta ecco la replica di Bonafede: Non sono uno stupido sapevo chi è Di Matteo, sapevo chi stavo per scegliere, e tra l’altro l’altro quella intercettazione era già stata pubblicata sul Fatto Quotidiano e sono intercettazioni di cui il ministro dispone perché le fa la polizia penitenziaria. Il fatto che il giorno dopo avrei ritrattato quella proposta in virtù di non so quale paura sopravvenuta non sta né in cielo né in terra. E’ una percezione del dottor Di Matteo”.
Gelmini: da “supposizioni infamanti” a “gravissime accuse” – È su questo botta e risposta che il centrodestra tutto si è trovato unito vicino al magistrato ed è andato all’attacco del Guardasigilli. “Riassumendo: prima Bonafede permette che diversi boss escano dal carcere. Poi Di Matteo dichiara di non essere stato nominato a capo del Dap per le pressioni della mafia e i 5s non ne chiedono le dimissioni? Il Governo deve riferire in Aula e dare spiegazioni agli italiani”, twitta Gabriella Giammanco, vicepresidente del partito azzurro al Senato. “Dopo le parole di Nino Di Matteo da Giletti a Non è l’arena, Alfonso Bonafede venga immediatamente in Parlamento. Le gravissime accuse del pm non possono cadere nel vuoto: o Di Matteo lascia la magistratura o Bonafede lascia il Ministero della Giustizia”, scrive sempre sui social Mariastella Gelmini, capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati. La stessa che il 3 novembre scorso definiva quelle di Di Matteo “le solite farneticanti teorie“, “ancora una volta ridicole accuse“, “supposizioni infamanti” “illazioni inaccettabili e insultanti“. Quel giorno il magistrato aveva ricordato in diretta televisiva su Rai3 il patto tra le famiglie mafiose e Silvio Berlusconi, durato almeno fino al 1992 e al centro di una sentenza definitiva della Cassazione che ha condannato il braccio destro del Cavaliere e fondatore di Forza Italia per concorso esterno in associazione mafiosa.
lunedì 4 maggio 2020
Di Matteo: “Bonafede mi propose di dirigere il Dap. Poi ci ripensò. I boss al 41bis contrari”. Il ministro: “Esterrefatto. Solo sue percezioni”.

Botta e risposta, durante la trasmissione Non é l’Arena su La7, tra il magistrato e il guardasigilli. Il primo ha affermato che nel 2018 il ministro gli aveva offerto di dirigere il Dipartimento amministrazione penitenziaria, offerta che sarebbe poi venuta meno, dopo la reazione di alcuni boss detenuti al 41 bis, intercettati. Il ministro ha controreplicato: la circostanza che lui avrebbe cambiato decisione dopo aver saputo dell’intercettazione ("che peraltro era già stata pubblicata") "non sta né in cielo né in terra". Il centrodestra all'attacco del guardasigilli: "Si dimetta". Il Pd lo difende. Renzi: "Sfiducia? Vediamo".





