sabato 21 settembre 2019

Quella del portavoce 5 Stelle non è una battaglia, è una guerra. - Roberta Labonia



Certo sporcarsi le mani non è piacevole, certo si rischia di essere fraintesi, di sbagliare, certo devi camminare spalle al muro perché sai che qualcuno, pronto ad accoltellarti alle spalle, può celarsi là dove meno te lo aspetti. E, come non bastasse, ad ogni incidente di percorso sai di doverti sorbire anche i signori del “telavevodetto”. Sono una categoria a parte costoro: saccenti, boriosi, si accomodano sul trespolo, si siedono fra le giurie, lontani dal campo di battaglia, al riparo dagli schizzi di fango e con finta bonomia dispensano le loro perle di saggezza. Puntano il dito ma, come tanti Ponzio Pilato, non offrono soluzioni, loro.
Ma tu che nell’arena ha scelto di starci, vivaddio, combatti per ciò in cui credi, ti inventi strategie, magari qualche cosa la sbagli, ma tante altre volte vai a segno. Non sei un professionista della politica te, l’esperienza te la stai facendo sul campo e vale più di 10 master MBA. E le piccole/grandi vittorie sono quelle che ti danno la forza di sopportare i lividi, le offese, le derisioni, le sconfitte. Perché ciò che ti muove è la sete di giustizia. Tu ti batti (illuso/a?), per un mondo dove non ci siano più né oppressi né oppressori. Ti danni per riportare pulizia la dove si è incrostato il letame. I lividi, le ferite fanno male ma sai che non puoi fermarti, sai che è cosa buona e giusta andare avanti.
Te, che molti derubricano come il/la sempliciotto/a di turno, affronti a viso aperto un nemico con cui sai di dover scendere a patti pur di portare a casa qualcosa di utile, di maledettamente necessario, non solo per te, ma per tutta la collettività che hai l’onere e l’onore di rappresentare.
Qualcosa che da tanto tempo chi ha creduto in te aspettava che si realizzasse.
Ma non ti illudi, sai che anche quel qualcuno, forse, neanche ti dirà grazie. Anzi, forse quel qualcuno, alla prima battaglia che perderai, ti volterà le spalle, dimenticando o facendo finta di non sapere, che quella che tu stai combattendo non è una singola battaglia, è una guerra.
E le guerre, si sa, durano anni.

Un paraculo da Oscar. - Mario Giordano



Come faccia di tolla è da Oscar. Farinetti, grande difensore del cibo made in Italy, ha avuto infatti il coraggio di cedere l’ acqua minerale Lurisia, quella dell’ antica fonte termale di Roccaforte di Mondovì, alla Coca Cola. Niente meno. E come se non bastasse, subito dopo, ha avuto il coraggio di concedere un’ intervista in cui ha rivendicato con orgoglio l’ operazione.
Ha detto che lui non ha affatto «venduto l’anima al diavolo», perché questa è «una grande opportunità per l’Italia». Sicuro: vendere un prodotto tipico italiano alla Coca Cola è un’opportunità per l’Italia. Esattamente come vendere la Madonnina di Milano all’ emiro del Kuwait sarebbe una grande opportunità per il cristianesimo. Basta crederci.
E l’Oscar ci crede. O, almeno, fa finta di crederci. Lui è fatto così, le spara grosse e poi sorride, siccome ha il cuore a sinistra, gliele fanno passare tutte. La Coca Cola, garantisce, «salvaguarderà lo stile e le radici tricolori del marchio». In effetti, si sa: è proprio la caratteristica delle multinazionali quella di salvaguardare le radici e i prodotti locali. Sono nate per quello. Non fanno altro. E per dimostrarsi coerente fino in fondo con questa dichiarazione di amore per l’Italia (anzi per l’Eatalia), Farinetti conclude annunciando che i soldi che incasserà dalla vendita della Lurisia li investirà tutti.
Ma proprio tutti. Dove? Negli Stati Uniti, ovviamente.
L’impressione, alla fine della lettura, è che Oscar avrà pure venduto l’ acqua, ma gli è rimasto il vino. Californiano, probabilmente. In ogni caso ad alta gradazione di scemenze.
C’ è solo una cosa, infatti, peggiore di un sedicente difensore dei prodotti tipici italiani che vende uno dei suoi tesori alla Coca Cola: un sedicente difensore dei prodotti tipici italiani che vende uno dei suoi tesori alla Coca Cola e poi cerca di spiegarlo con un’ intervista a Repubblica. Soprattutto se cerca di convincerci che si tratta di «un ottimo segnale per il nostro Paese».
Ottimo segnale? Ora: va bene che in un Paese che crede a Eataly può credere a tutto, ma non bisogna esagerare. Esageruma nen, come diciamo noi piemontesi. Anche se forse ora Farinetti preferirebbe dire «don’ t push it», chiedendosi se c’ è qualche multinazionale pronta a comprarsi pure il dialetto.
Avrebbe potuto essere sincero, Oscar. Avrebbe potuto dire che l’ ha fatto per quegli 88 milioni (prezzo di vendita di Lurisia) che schifo di certo non fanno. Oppure avrebbe potuto scegliere il silenzio. Ma non ce la fa. È più forte di lui. Ama le luci della ribalta. E così s’ è avventurato su strade più scivolose dell’ olio (ovviamente tunisino).
Prima ha descritto la Coca Cola come una succursale delle Giovani marmotte (hanno «grande responsabilità sociale nei confronti dell’ ambiente e del pianeta e si muovono di conseguenza», ha detto, facendo venire il sospetto ad Atlanta comandi Greta Thunberg). Poi ha annunciato che tratterà ancora con le grandi multinazionali, cominciando a elogiare la Nestlè. E infine, il colpo di scena: ha detto infatti che userà tutti i soldi incassati dalla vendita di Lurisia per aprire sei negozi. Negli States. Quando si dice amare l’ Italia. Anzi, l’Eatalia.
Gli ex amici di Farinetti, quelli dello Slow food, Carlin Petrini & C., hanno subito preso le distanze dall’ Oscar delle multinazionali. Lurisia sponsorizzava gli eventi Slow food legati al territorio e ai prodotti tipici, ma la collaborazione è stata troncata di netto. «Non condividiamo questa filosofia», hanno tagliato corto.
Ma Oscar se ne fa un baffo: «Siederanno anche loro al tavolo con la Coca Cola», ha profetizzato nell’ intervista. Del resto non è la prima volta che viene accusato dai suoi compagni di cordata di tradimento: tre anni fa, la cooperativa rossa Novacoop cedette tutte le quote che aveva da sempre in Eataly, imputando a quest’ ultimo di essere «diventato un supermercato come tutti gli altri». Farinetti non si è lasciato deprimere.
Dopo aver chiuso l’ ultimo bilancio in rosso (17 milioni di euro), infatti in nome del cibo italiano s’ è messo alla ricerca di un nuovo socio. Cinese, ovviamente. La coerenza, del resto, per lui è sempre stata un optional.
Quando Roberto Maroni si candidò per la Regione Lombardia disse: «Se vince lui non aprirò Eataly a Milano». Maroni vinse e lui aprì Eataly a Milano. «Diventerò amico del governatore», giurò. Poi preferì diventare amico di Renzi, anche perché si avvicinava la stagione dell’ Expo, dove la fece da padrone. Quando però Renzi è caduto in disgrazia, Farinetti s’ è scoperto improvvisamente fan di Zingaretti, salvo tornare prontamente renziano ai primi vagiti di riscossa di quest’ ultimo. In ogni caso, per non sbagliare, è andato in Sardegna con Flavio Briatore, per salvare il pecorino della Barbagia (lo venderanno alla Monsanto? O alla Dow Chemical? Sempre per il bene dell’ Italia, s’ intende).
E ha scritto pure un libro con Piergiorgio Odifreddi (Dialogo fra un cinico e un sognatore), leggendo il quale, chissà perché, tutti hanno pensato che lo scienziato Odifreddi fosse diventato all’ improvviso un sognatore. Ovviamente, essendo molto di sinistra, Farinetti ha una casa a Saint Tropez (proletari di tutto il mondo, unitevi a Brigitte Bardot), ha fatto il condono (e chi non lo fa?) ed è stato accusato dai sindacati di sfruttare lavoratori e precari.
Lui non s’ è lasciato intimidire e ha aperto Fico, un super Eataly a Bologna senza incontrare troppo successo («la Disneyworld del cibo», scrisse Der Spiegel; «un megamarket in stile americano», scrisse il Guardian). «Mi rottamo da solo, lascio tutti gli incarichi in azienda», giurò alla stampa nel 2015. E invece eccolo ancora lì, che compra e vende (soprattutto vende) e giustifica la Coca Cola. Figlio di un partigiano, dice che ama molto la Resistenza. Lui, però, non sa resistere molto. Soprattutto alle telecamere. E alle lusinghe dei soldi. Perciò ha scelto di sventolare bandiera rossa.

Quella della Coca Cola, ovviamente.

https://infosannio.wordpress.com/2019/09/21/un-paraculo-da-oscar/

Il centro dilettevole. - Marco Travaglio


La tentazione di accostare Italia Viva al Psdi di Nicolazzi era fortissima: sia in omaggio a Fortebraccio, sia perché Teresa Bellanova nei panni di Vincenza Bono Parrino con le sue “borzette” era irresistibile.
Poi Matteo Cariglia ha rivelato a Vespa la vera essenza della sua catastrofica creatura: “C’è bisogno di una cosa allegra e divertente”. Accipicchia, ci siamo detti: è la prima volta, a memoria d’uomo, che un politico (si fa per dire) fonda un partito non per realizzare un programma qualsiasi, ma per farsi quattro risate.
Poi ci è apparso, come un’illuminazione, il Bertinotti di Corrado Guzzanti. Quello della “sinistra che non deve governare, ma fare scherzi telefonici, rompere i coglioni e divertirsi”. Quello che rimpiangeva i bei tempi di Prodi, che lavoravano tutto il giorno, mentre lui giocava a biliardo e poi “alle 3 del mattino andavamo sotto casa di Veltroni, ci appendevamo al campanello e poi via a correre e ridere per la strada”. Perché “la sinistra è gioco, è divertimento, è fantasia. ‘Alabarda spaziale!’: è questo lo slogan di una sinistra moderna”. Programma semplice: “Suonare ai citofoni citando Lenin e schivando la secchiata d’acqua: ‘Andate a dormire!’, ‘La rivoluzione non dorme mai!’”. E strategia precisa: “Diventare la forza più irresponsabile del Paese, opponendo al voto utile il voto dilettevole”.
Ora, con la crisi delle ideologie, la Sinistra sta poco bene ed è affollatissima, fra 5Stelle, Pd e LeU. Ed ecco l’ideona: fondare il Centro del gioco e degli scherzi per rompere i coglioni a Conte & C..
Fino a una settimana fa, Renzi controllava i gruppi parlamentari Pd. Ma si annoiava: vuoi mettere invece una miniditta ad personam? Conta molto meno, perché metà dei renziani non ci entrano. Ma se ne parla molto di più. Anzi tutti dicono che adesso Renzi è il padrone del governo, come se prima non ci fosse e come se i cosiddetti “renziani” lo fossero per convinzione e non per convenienza (altri 4 anni di poltrona e di pensione).
Basta scorrere i nomi dei 41 italo-vivi: Bonifazi, sempre e ovunque tesoriere; la Boschi, e-ho-detto-tutto; Migliore, detto Genny ‘a Poltrona; Rosatellum; De Filippo, per non lasciare solo Bonifazi in rappresentanza degli indagati; Ferri, perché il gemello Lotti per ora non viene; una di FI, che giustamente non vede la differenza; e Socialistanencini (si chiama così, una parola sola), che porta in dote il glorioso marchio del Psi (di Craxi, sia chiaro, non certo dei putribondi Turati, Nenni e Pertini).
Più che un partito, pare il bar di Guerre Stellari. Quindi basta dare del bugiardo a Renzi: stavolta è stato di parola. Il Centro Dilettevole è appena partito e già fa scompisciare.

Corsi d'oro a Messina, l'ex sindaco Genovese condannato a 6 anni e 8 mesi. - Nuccio Anselmo

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Sei anni e 8 mesi di reclusione, con l'assoluzione da alcuni capi d'imputazione. E' questa la condanna decisa stasera in corte appello per l'ex parlamentare Francantonio Genovese, ex sindaco di Messina. Rispetto agli undici anni inflitti in primo grado.

È lui il principale imputato al processo d'appello "Corsi d'oro 2" sulla formazione professionale a Messina e in Sicilia, una delle più clamorose inchieste degli ultimi anni che ha coinvolto politici di primo piano, faccendieri e portaborse. Al centro la "galassia" familiare, amicale e politica costruita nel tempo da Genovese, che fu anche segretario regionale siciliano del Pd, per poi passare a Forza Italia negli ultimi tempi.

Riduzioni di pena hanno registrato anche Grazia Feliciotto, Roberto Giunta, Elio Sauta, e le sorelle Chiara ed Elena Schirò. Una condanna più dura rispetto al primo grado invece è stata decisa per l'ex parlamentare regionale Franco Rinaldi, cognato di Genovese.

Nei mesi scorsi il sostituto procuratore generale Adriana Costabile aveva chiesto al collegio presieduto dal giudice Alfredo Sicuro dodici aggravamenti di pena rispetto alle 21 condanne inflitte in primo grado, con pene da 2 anni e 2 mesi a 12 anni.

La modifica di pena più alta (12 anni e 20mila euro di multa) era stata sollecitata proprio per l'ex parlamentare nazionale. In primo grado, nel gennaio 2017, la prima sezione penale del tribunale presieduta dal giudice Silvana Grasso inflisse 11 anni di reclusione a Genovese.

La sentenza di primo grado coinvolse tutto il suo seguito tra familiari e adepti politici. Due anni e mezzo furono poi inflitti al cognato Franco Rinaldi, ex parlamentare regionale. I giudici inoltre condannarono le mogli di Genovese e Rinaldi, ovvero le sorelle Chiara ed Elena Schirò, rispettivamente a 3 anni e 6 mesi e 6 anni e mezzo.

Le altre condanne che vennero inflitte nel gennaio 2017: Salvatore Lamacchia 2 anni; Roberto Giunta 5 anni e 6 mesi più 9.000 euro di multa; Domenico Fazio 1 anno e tre mesi; Elio Sauta 6 anni e 6 mesi; Giovanna Schirò 2 anni e 3 mesi; il commercialista Stefano Galletti 3 anni e 6 mesi; Giuseppina Pozzi 2 anni; Liliana Imbesi 1 anno e 4 mesi; Concetta Cannavò 2 anni; Natale Lo Presti 3 anni; Graziella Feliciotto 4 anni e 6 mesi; l’ex assessore comunale Carmelo Capone e il fratello Natale Capone 3 anni; l’imprenditore Orazio De Gregorio 2 anni e 6 mesi; Antonino Di Lorenzo 1 anno e 4 mesi; Carmelo Favazzo 3 anni e 3 mesi.

Furono invece assolti «per non aver commesso il fatto» da tutte le accuse contestate inizialmente altri tre imputati: Paola Piraino, Francesco Buda e Salvatore Natoli.

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