venerdì 30 maggio 2014

La casa su Monte Sole Marzabotto - Piero P.

Mettevamo la sveglia presto, molto presto.
Anche se ere piena estate, quando ci alzavamo era ancora buio, come a notte fonda.
Avevo 16 o 17 anni e passavo le mie lunghissime estati di studente bravo a scuola lontano da Bologna, con i miei nonni.
Dividevo quei mesi in due parti: una era a Montese, sull'appennino di Modena, con i nonni paterni, una era a Vado di Setta,  neanche trenta chilometri da Bologna, quasi fuori porta.
Ma allora era come passare in un altro mondo. E quella, con i nonni materni, era forse l'estate che vivevo di più.
Come in quell'alba appunto.
Ci vestivamo in silenzio, io e i miei compagni di scorribande, per non svegliare i "grandi" che dovevano andare a lavorare. Eravamo tanti . Dieci, dodici, a volte di più.
Il più grande era uno dei miei cugini: poco più di venti anni. Il più piccolo un altro dei miei cugini: 14 anni. Era quello più emozionato di tutti, quello che aveva fatto fatica ad addormentarsi, poche ore prima. Perchè era la sua prima volta sul Monte.
La casa dove vivevo con i miei nonni e i miei parenti faceva parte di un gruppo di case, un pò fuori dal paese. Un pugno di case alcune delle quali molto antiche, fra la montagna a strapiombo e il fiume.
Il fiume Setta. Sì, proprio quello che da più di duemila anni da l'acqua potabile a Bologna.
Ci vivevano gli Etruschi una volta da quelle parti e ci avevano scavato una galleria nella roccia viva, dal fiume a Felsina, per portarci l'acqua da bere. Non si fidavano del Reno, un fiumaccio alluvionale, col fondo limaccioso e sabbioso, di acqua scura e pesante, sempre pronto a far danni o andare in secca.
Il Setta no. Era un fiume placido, dalle acque chiarissime, pulite. Diventavano così scorrendo su sassi e roccia, per chilometri, fino a buttarsi in Reno vicino a Sasso Marconi.
 fiume Reno                     
Ma la galleria nasceva prima e a Bologna arrivava solo l'acqua del Setta.
Quella galleria esiste ancora e , come allora, anche se aiutata dalla tecnologia moderna, ci porta l'acqua in casa.
Le acque di Bologna - dall’Appennino alla pianura Ponte della ferrovia sul Setta
E' una delle poche cose rimaste intatte, perchè ormai quasi tutto è stato distrutto dall'uomo, che in quel fiume di paradiso, dove mi piaceva camminare sulle pietre lisce del fondo, vicino a canneti e prati, ci ha scavato per decenni. Ci ha trovato la ghiaia, l'ha sventrato, gli ha rubato la carne e l'anima. Se l'è inghiottito, l'uomo, quel fiume. E ha risputato fuori casermoni di periferia, che con quella ghiaia e con il cemento si costruivano a centinaia negli anni sessanta e settanta.
E ancora lo fanno, ancora non si sono stancati di massacrarlo. Gli hanno lasciato appena lo scheletro.
Ma in quegli anni, quelli di cui ti scrivo, no.
Il fiume era intatto e io ci passavo sulle sue rive metà estate.
E la gita al Monte non poteva mancare, in ogni estate.
Dunque , dopo esserci vestiti a modo e aver fatto  una colazione molto abbondante - con la nonna e il nonno immancabilmente già alzati per preparare le ultimo cose -, si partiva, nel buio più fitto.Noi ragazzi e ragazze e il cane: Lupo, il meraviglioso cane dei miei cugini. Quasi un'altra persona da quanto era intelligente.
Avevamo le torce elettriche per vedere il sentiero. Avevamo gli zaini, i bastoni da camminata, il coltellino in tasca, quello che fa mille cose. I più grandi portavano la roba da mangiare : salsiccia, fiorentine, bistecche. E le griglie.
Perchè si andava sul Monte per starci a pranzare, mica a mangiare un panino.
All'inizio c'erano solo le nostre voci e le risate. Oltre il cerchio di luce delle lampade non si vedeva nulla. Il cane girava attorno al gruppo, quasi si preoccupasse di tenerlo unito. Dopo un poco però si faceva silenzio: ascoltavamo l'acqua, là, davanti a noi, sempre più vicina.
Attraversavamo il fiume dove l'acqua era bassa, tirandoci alle ginocchia i calzoni. Tenevamo calze e scarpe. Si bagnavano è vero, ma si sarebbero asciugare in fretta al sole del mattino di luglio.
Perchè era oltre il fiume, oltre i ruderi di un vecchio cantiere lasciato lì dai lavori dell'autostrada più di dieci anni prima, che cominciava la terra sconosciuta, quella dove la realtà e le storie sentite per anni si confondeva, la terra dove ogni anno volevamo tornare.
Il sentiero si arrampicava subito, ripidissimo, su per i fianchi del monte enorme e nero contro il cielo che piano piano si tingeva di blu, poi di azzurro scuro scuro, poi, quai d'improvviso si illuminava con la luce del sole, che spuntava alla nostra destra, dall'altro crinale, oltre il fiume che avevamo appena attraversato.
LA RUPE DI SASSO MARCONI   parete rocciosa delle "Rupe"
E con le ombre lunghissime dell'alba cominciava la nostra fatica. 
L'Appennino era e ancora in gran parte è, il vero lato selvaggio di questo Paese. Le montagne non sono alte e scenografiche come le Alpi, ma sono molto, molto più inaccessibili.
Quelli che percorrevamo li chiamavamo sentieri, ma erano a mala pena tracce nel bosco libere da sterpaglie. Bisognava conoscerli bene, esserci già stati.
Non c'erano come adesso i cartelli del CAI a indicare direzioni, numeri e tempi di percorrenza. Ci si perdeva facile in quelle gole e su per quei fianchi coperti da un bosco selvatico e fittissimo, pieno di rovi e di rami intrecciati, quasi legati uno all'altro ai nostri fianchi, sulle nostre teste.
A volte , dove le tracce sparivano, dovevamo  farcelo noi  il sentiero , a colpi di bastone contro il muro di sterpi, felci e rovi spinosi. E il cane serviva, eccome se serviva. Lui il sentiero lo ritrovava sempre.
Una fatica pazzesca, con il sudore che cominciava ad inzuppare le maglie, a colare lungo il collo,con  lo zaino che pesava sempre di più mano a mano che si saliva, le scivolate, a volte le cadute.
Ma era la parte indispensabile e voluta di quella camminata.
Perché su quei sentieri, trenta anni prima , in condizioni molto simili a quelle nostre di adesso , erano passati altri, più o meno della nostra età. E quelli invece facevano parte delle storie che i vecchi e i grandi ci raccontavano alla sera. Anzi, facevano parte della Storia.
Ad un certo punto, quando il sole era già abbastanza alto nel cielo, si arrivava sul crinale. E ci si fermava un pò.
Il panorama e la nostra stanchezza lo meritavano, ma c'era un altro motivo per fermarsi.
Da quella specie di terrazza strapiombante, laggiù in fondo, si vedeva un paese , mezzo avvolto nella foschia della mattina di estate: Marzabotto.
Era da lassù che quei ragazzi, trenta anni prima, avevano visto tutto.
Avevano visto le case bruciate, sentivano gli spari, le raffiche di mitragliatrice, le esplosioni delle bombe. E le urla delle persone. Decine, centinaia, migliaia di persone che venivano uccise sotto i loro occhi. Milleottocento alla fine, circa, dove quel circa era la vera cifra dell'orrore. Non si sapeva neanche il numero esatto di quei morti. Vecchi donne e bambini. Tanti bambini. Di pochi anni, di pochi mesi, di pochi giorni.
Da lassù si vedeva e si sentiva tutto, ma non si poteva - o voleva secondo qualcuno - fare niente.
A Cà di Serra, la frazione dove abitavo con i nonni e da cui eravamo partiti, abitava una signora. Si chiamava L.... I suoi due figli erano con noi quel giorno, avevano più o meno la mia età, quella che aveva lei trenta anni prima.
La sua storia ce la aveva raccontata una sera, dopo cena, quando ci si ritrovava nella piazzetta fra le case a parlare e giocare, sperando che non arrivasse mai l'ora di andare a dormire.
Erano in sette nella sua famiglia, giù a Marzabotto.
Erano morti tutti, ammazzati a colpi di mitra. Lei si era salvata perché si era finta morta, sotto i corpi  degli altri e nessun soldato si era preso la briga di controllare. Perché ce n'erano altri da ammazzare. Bisognava fare in fretta e non si poteva perdere tempo a contare i morti.
Lei adesso odiava tutti. Nazisti e partigiani, in egual maniera. I Nazisti perché avevano fatto quello che avevano fatto, i Partigiani perché, diceva lei, non avevano fatto niente per impedirlo. E poi, diceva sempre lei, erano i Partigiani che cercavano. Perché non erano scesi dal Monte, quello dove eravamo noi adesso, a combattere ? Sì , è vero, sarebbero forse morti tutti, ma avrebbero portato un bel po' di nemici con loro e, forse, si sarebbe evitato il terribile  massacro della sua gente.
Non lo so. Non so cosa dire. Non lo so adesso che di anni ne ho sessanta, figurati allora.
Quello che però sentivo allora, chiarissimo, era il rumore spaventoso della Storia, quella con la maiuscola, quella che travolge tutto e tutti se, magari per caso, sei sulla sua strada.
E sentivo il dolore di certe cicatrici, che forse si sarebbero chiuse solo con la morte di tutti quelli che allora erano testimoni vivi, qualsiasi fosse la loro parte.
Marzabotto.
Un nome tremendo, già entrato nei libri di Storia.
Ma non era quella la nostra meta.
Cominciava adesso la camminata lungo il crinale. A destra del sentiero c'era la valle del Setta, da dove eravamo partiti ore prima, a Sinistra Marzabotto.
Adesso il sentiero percorreva boschi sempre più radi.
C'erano degli spiazzi, i fantasmi di terreni una volta coltivati, adesso invasi da erbacce ingiallite dal sole sempre più alto , circondati da frutteti scarni, ma che il tempo e l'abbandono dell'uomo avevano trasformato in foresta.
Campi e frutteti.
Sì, perché lì, trenta anni prima, l'uomo viveva in pace e coltivava la terra.
Lì, poco più avanti, c'era un paese, anzi, un po' meno di un paese, una frazione : Monte Sole. La nostra meta.
La fine del nostro cammino.
Adesso è come un Santuario a ricordo forse perenne dell'orrore e della stupidità umana . La Storia se ne è impossessata di nuovo, ne ha riportato alla memoria di tutti il ricordo.
Fino alla prossima amnesia collettiva.
Ma allora no. La Storia non era ancora arrivata da quelle parti. Marzabotto sì, Monte Sole ancora no.
Era passata da lì trenta anni fa, aveva seminato la morte e se ne era andata.
Non era rimasto niente di vivo. I pochissimi che si erano salvati, quelli che abitavano nelle case più distanti, quelli che avevano sentito per tempo la tempesta arrivare, se ne erano andati per sempre da lì. Erano rimaste le storie, quelle con la s minuscola, quelle raccontate dalle persone come la L..., quelle che si volevano dimenticare, che si faceva fatica, una fatica bestia a raccontare.
Fatica, quella che avevamo voluto fare noi per arrivare fino lì, evitando il sentiero- adesso una strada - molto più comodo che partiva dal paese laggiù, quello che gli abitanti di Monte Sole percorrevano tanti anni prima per portare al mercato le loro cose.
Noi avevamo voluto ripercorrere il sentiero della Storia Crudele, non quello della quotidianità perduta.
Lì dunque ci fermavamo. Lì dove non c'era più niente, neanche la pietà del ricordo storico.
Lì accendevamo il fuoco, lì riportavamo per un paio d'ore la vita, mangiando, parlando, ridendo, scherzando con le ragazze, come i giovani fanno e devono fare.
Ma prima non potevamo mai fare a meno di camminare in silenzio fra quei ruderi coperti di rampicanti, guardando i tetti sfondati dal furore degli uomini e dalla carezza del tempo, in quelle che una volta erano strade dove camminavano persone svanite nel nulla.
Mi ricordo come se fosse adesso il contrasto fra il silenzio del posto e il rumore della Storia, quella che conoscevamo tutti. Un rumore silenzioso che si appoggiava ai muri delle case, si nascondeva in quello che restava della chiesa, dove era stata ammassata la gente, dove avevano ammazzato con le bombe a mano e il mitra e poi il fuoco decine e decine di persone, dopo averle ammassate come bestie prima del macello.
Adesso c'era il sole, c'eravamo noi e, per un poco ancora, la vita. Rompevamo finalmente quel silenzio di anni.
Era il nostro saluto a quelli che non c'erano più per nessuno.
Perché il ricordo ha bisogno di sopravvissuti, ma lassù non si era salvato nessuno.
E lassù, anche dal sentiero più facile, non saliva mai nessuno.
Si sapeva tutto, tutti sapevano, ma era meglio dimenticare tutto o almeno far finta di dimenticare.
Poi tornavamo a casa , con il sole a picco, per la strada più facile e là rimaneva solo il silenzio di un pomeriggio di piena estate, il solito silenzio di ogni giorno.
Ma tutti, tutti noi sapevamo che un pezzetto di noi era rimasto lassù e un pezzetto di lassù era rimasto dentro di noi. E non sarebbe mai più andato via, sarebbe sempre rimasto giovane in noi che invecchiamo.
Come questo ricordo, chiamato dal un tuo intenso ricordare, ha cercato di dire.
Ciao.
Piero P. 
PS questo brano è stato pubblicato su gentile concessione dell'autore.