giovedì 5 agosto 2021

Il Tesoro chiude ai partiti: “Mps andrà all’Unicredit”. - Marco Palombi

 


L’audizione - Il ministro difende il regalo, con dote pubblica, a Padoan e soci: “Banca in difficoltà, da sola non ce la farebbe. Ma tuteleremo Siena e Toscana”.

Lo stanco rito si compie quando ormai è ora di cena: Daniele Franco si presenta alle commissioni Finanze di Camera e Senato, come peraltro prescrive la legge, per informarle che per il Monte dei Paschi si sta seguendo la via maestra del mercato – indicata anche dalla Bce, giuste le linee guida di un Dpcm del governo Conte-2 e della Commissione Ue –, che l’unica offerta in campo è quella di UniCredit e che il governo vigilerà sulle ricadute sociali ed economiche dell’eventuale vendita, e lotterà come un leone per difendere l’interesse pubblico. Seguono raccomandazioni, critiche, un po’ di “se”, qualche “ma”, alcuni “Padoan” assortiti delle forze politiche: infine la promessa di non far mancare informazioni al Parlamento da parte del ministro dell’Economia. Pace e bene, ci si rivede dopo le ferie.

Il senso è questo: a tempo debito, e comunque entro l’anno, come da accordo con Bruxelles, la banca presieduta da Pier Carlo Padoan – cioè il ministro che nazionalizzò Mps e poi si fece eleggere deputato proprio a Siena – si prenderà le parti buone del Monte dal Tesoro con cospicua dote pubblica, la cui entità è ancora da definire. Nessuno ha la forza di opporsi e soprattutto nessuno può garantire che l’istituto senese potrebbe restare in piedi da solo senza diventare un inceneritore di risorse pubbliche. In ogni caso, “non si tratterà di una svendita di proprietà statali”.

Il ministro Franco, con tono monocorde e retorica in grisaglia, non lascia spazi a rinvii e ripensamenti. La tesi è questa: il Monte dei Paschi è messo male, le sue performance sono assai sotto la media, gli obiettivi del piano industriale definito con l’ingresso dello Stato “sono stati conseguiti solo parzialmente”, soprattutto quanto a “redditività ed equilibrio tra costi e ricavi”. E dunque i fan dell’opzione “stand alone”, cioè di Mps che va avanti da sola, devono sapere che già così gli esuberi previsti sono 2.500 e la Commissione chiederà di aumentarli perché Mps ha ancora troppi costi; l’aumento di capitale da 2,5 miliardi ipotizzato finora, poi, è oggi largamente insufficiente (e non a caso la Bce non si è ancora espressa). Insomma, secondo Franco e Mario Draghi, dire no a UniCredit costerebbe assai di più dell’operazione che si va definendo. Quanto alla scelta di vendere, dice Franco, è prevista da “un Dpcm del 16 ottobre 2020” (epoca Conte), che affida al Tesoro il compito “di dare avvio alla procedura” e indica tra le strade “una operazione straordinaria di integrazione”. È dall’autunno scorso, dice il ministro, che il Mef e la banca cercano un partner, tanto è vero che “la data room è aperta da gennaio”. Perché UniCredit? Perché l’unico altro interlocutore, il Fondo Apollo, dopo un sondaggio a febbraio è sparito: è l’unica offerta in campo e “non ci sono le condizioni per mettere in discussione la cessione della banca”.

I termini dell’eventuale accordo con la banca guidata da Orcel e Padoan sono quelli noti: niente danni al capitale di UniCredit, esclusione del vecchio contenzioso e dei crediti deteriorati, accordo sul personale, via libera dell’Ue (che dovrà garantire che il tutto avvenga a “condizioni di mercato”). L’apporto dello Stato? Ancora non si sa, ma se UniCredit non deve metterci capitale sarà di sicuro cospicuo e alla fine il Mef potrebbe ritrovarsi azionista di UniCredit.

Ora le rassicurazioni. Franco non vede “rischi di smembramento della banca” e quanto agli esuberi (5-6mila su 21mila secondo indiscrezioni) attenuarli, così come tutelare il marchio della più antica banca del mondo, è “una priorità del governo”: “Garantiremo la massima attenzione alla tutela dei lavoratori nell’ambito degli spazi negoziali e una pluralità di strumenti e iniziative” per chi resterà fuori. Infine il comma Letta, cioè la frase che ammicca all’uscita di ieri del segretario Pd e candidato a Siena alle Suppletive: “La valorizzazione e il rilancio di Siena e della provincia è una priorità indiscussa e incomprimibile per il governo”.

Insomma, a poco servirà – per fermare il treno della vendita all’acquirente unico (difficile strappare qualcosa in una trattativa se non ci sono alternative) – l’utile che oggi la banca senese riporterà nella sua semestrale: Mps doveva morire, Mps morirà annegata nel secondo polo bancario italiano. Chi ha avuto ha avuto…

ILFQ

Se è lecito. - Marco Travaglio

 

In un Paese senza bussola, ogni tanto è il caso di mettere i puntini sulle “i”. A cominciare da quel che si dice in giro del Fatto. Noi giudichiamo tutti in base alle cose che dicono e fanno alla luce delle nostre idee. Che sono piuttosto note e non usiamo cambiarle appena gira il vento. Ai blocchi di partenza, tutti i governi sono uguali (salvo quelli guidati da delinquenti): poi sono le loro azioni a fare la differenza. Questa è l’imparzialità: applicare le proprie idee a tutti. Il governo Renzi, da quel che diceva il premier nel 2014 (molto simile a ciò che dicevamo noi), partì sotto i migliori auspici. Poi fece l’opposto: Italicum, schiforma costituzionale, Jobs act, Buona scuola, norme pro-evasori e anti-magistrati, rilancio del Ponte sullo Stretto e altre porcate di B., inerzia sui crac bancari. Tutte cose che combattemmo perché erano l’opposto delle nostre idee. Il Conte-1 fece molte cose che reclamavamo anche prima che nascesse il Fatto: spazzacorrotti, blocca-prescrizione, reato di voto di scambio, Reddito di cittadinanza, Quota 100, blocca-trivelle, dl Dignità, analisi costi-benefici sulle grandi opere, taglio dei parlamentari e dei vitalizi, politica estera meno appiattita sugli Usa e più multilaterale verso Est, economia a forte presenza pubblica: applausi. Varò pure il mini-condono fiscale, la (il)legittima difesa e i decreti sicurezza: fischi.

Anche il Conte-2 fece molte cose buone, alcune riprese dalle battaglie del Fatto (e non viceversa): manette agli evasori, limiti al contante e incentivi alla moneta elettronica (cashback), fuori i Benetton da Autostrade, Green new deal; poi bloccò l’aumento dell’Iva, diede più soldi a sanità e istruzione, gestì bene pandemia e i ristori fino al miracolo del Recovery fund: applausi. Ma fece anche una Sblocca-cantieri spericolata e svuotò il reato di abuso d’ufficio: fischi. Ora c’è Draghi: sulla persona e sui trascorsi di banchiere europeo, nulla da dire. E sulla lotta al virus, applausi. Ma, oltre a riportare al potere B. e la sua banda più Salvini&C., ha fatto il condono fiscale, la sanatoria dei precari della scuola, una “riforma” della giustizia da far impallidire B. (anche se alla fine Conte ha evitato i danni peggiori), cancellato cashback e salario minimo, sbloccato i licenziamenti, ingaggiato i responsabili e gli ideologi dei disastri del passato (Brunetta, Gelmini, Fornero, Giavazzi e turboliberisti minori), riasservito l’Italia agli Usa, riesumato il Ponte, avviato politiche anti-ambientali, rallentato a suon di stop&go la campagna vaccinale, rimesso a tavola le lobby e ancora dorme sulla scuola. Perciò speriamo che duri il meno possibile. Non perché siamo vedovi di chi c’era prima: perché – parlando con pardòn, se è ancora lecito – non siamo d’accordo.

IlFQ

Riecco il ponte: altri 50 milioni per lo studio. - Carlo Di Foggia

 

La storia infinita del grande spreco.

Nella pluridecennale vicenda del Ponte sullo Stretto di Messina, sembra di rivivere il “giorno della marmotta”. Quasi dieci anni fa, il governo Monti ha archiviato la mega-opera perché considerata un inutile spreco di denaro, scatenando un maxi-contenzioso con il consorzio Eurolink, capeggiato da Salini-Impregilo, vincitore della gara. Oggi si riparte dal più classico “studio di fattibilità tecnico-economica”. L’ufficialità è arrivata ieri dal ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini, in audizione alle Camere. Due ore surreali in cui la parola “ponte” non si è sentita per 40 minuti, sostituita da un più laico “attraversamento stabile dello Stretto di Messina”. È toccato al renzianissimo deputato Luciano Nobili, dire pane al pane e vino al vino: “Possiamo togliere l’ipocrisia del lavoro degli ultimi mesi e parlare di ponte?”.

Giovannini è riuscito nell’impresa di scontentare pure i pasdaran dell’opera, che in realtà si spendono per Pietro Salini e Webuild, il colosso delle costruzioni nato dopo che la Cassa depositi e prestiti ha messo in sicurezza con soldi pubblici la Salini-Impregilo.

Breve premessa. Il mese scorso, la Camera ha approvato a larghissima maggioranza (tranne Leu e M5S) una mozione che “impegna il governo ad adottare le opportune iniziative al fine di individuare le risorse necessarie per realizzare un collegamento stabile, veloce e sostenibile dello Stretto di Messina estendendo, così, la rete dell’Alta velocità fino alla Sicilia”. Il ponte è la conclusione logica del mega-progetto dell’Alta velocità Salerno-Reggio Calabria (22 miliardi, di cui 10 già finanziati nel fondo complementare al Pnrr) anch’esso fermo allo “studio di fattibilità tecnico-economica”.

Giovannini si è presentato per elogiare il lavoro consegnato dalla commissione di esperti nominata a suo tempo da Paola De Micheli. L’illustre task force è stata chiamata a rifare una discussione chiusa 40 anni fa: meglio un ponte, un tunnel sotto il fondale (sub alveo) o solo ancorato al fondale (alveo)? Vale a dire, le opzioni del concorso internazionale di idee del 1969, chiuso 20 anni dopo con la scelta del ponte, l’unica considerata percorribile. Il team di esperti ministeriali – dove non compare nessun ingegnere strutturista esperto di costruzioni di ponti – ha concluso che in effetti il ponte è l’unica soluzione, ma ha ipotizzato che forse invece di quello a un’unica campata, oggetto della gara del 2006, si può fare a più campate. Il costo, però, deve sobbarcarselo tutto lo Stato. Quanto? I 10 miliardi del vecchio progetto? Non si sa, e per questo serve lo studio. Giovannini ha annunciato che ci sono già 50 milioni stanziati nella vecchia legge di Bilancio, e a farlo sarà Italferr, controllata di Fs: si dovrebbe chiudere entro la primavera 2022 per arrivare poi al dibattito pubblico e a stanziare i fondi in autunno con la legge di Bilancio.

Ai parlamentari di Lega, Forza Italia e Italia Viva, che lo accusavano di prender tempo per non fare nulla, il ministro ha replicato che lui l’opera la vuole fare e di averne discusso con Mario Draghi e il resto del governo: “Sposando la linea del gruppo di lavoro non riteniamo affatto che quest’opera sia inutile, anzi: motivazioni di carattere trasportistico, economico e sociale la giustificano”. E quindi si farà e “verrà chiesto alla Ue di partecipare al finanziamento”. Sembra una barzelletta: in studi, lavori, consulenze e altro, per il ponte sono stati spesi già 960 milioni (300 nel solo 2010-2013); intanto la concessionaria, la Stretto di Messina Spa, da 10 anni in liquidazione, è ancora lì. Ora si riparte.

Nelle slide illustrate da Giovannini, tra le “motivazioni socio-economiche” che giustificano il ponte c’è l’arretratezza dell’area: calo ventennale della popolazione (-1,2% tra 2000 e 2019 rispetto al Nord); dell’occupazione (-11,7% rispetto al Centro-Nord e allo stesso Mezzogiorno) e del Pil (-15,3% rispetto al Centro-Nord). Dati che dovrebbero migliorare grazie a una mega-opera di cui non si conoscono nemmeno le stime di traffico. Giovannini ha spiegato che “l’assenza di un collegamento stabile penalizza in modo rilevante il traffico ferroviario, gli spostamenti di breve distanza e quelli da e per il Mezzogiorno” e che l’attraversamento “potrebbe modificare nel tempo le scelte di approdo di taluni traffici”. Quali? Non si sa, ma a braccio (il testo non compare nelle slide) il ministro ammette che “analisi condotte mostrano che gran parte del traffico merci marittimo non si fermerebbe in Sicilia, ma proseguirebbe verso scali del Centro-Nord, Genova e Trieste per i costi decisamente più bassi”.

Curioso, visto che la mozione parlamentare motiva il ponte con la possibilità di “intercettare il traffico merci che, dal Canale di Suez, oggi si dirige verso Gibilterra per puntare sui porti del Nord Europa, quando invece la Sicilia col porto di Augusta collegato all’Alta velocità potrebbe rappresentare un hub strategico nel Mediterraneo”. Giovannini è costretto ad ammettere che il ponte lo deve pagare lo Stato, perché “se anche partecipassero i privati il costo di realizzazione e manutenzione imporrebbe dei canoni di utilizzo estremamente elevati che finirebbero per scaricarsi sulla finanza pubblica”. Tradotto: il progetto non sta in piedi a meno di chiedere dei pedaggi ad auto e treni così elevati da renderli anti-economici (e quindi, alla fine, pagherebbe comunque lo Stato).

Centrodestra e Iv, come detto, si sono scagliati contro il ministro. Vorrebbero che si ritornasse al progetto di Eurolink. Subito. “Si mette in discussione un iter iniziato da qualche decennio, con atti che sono ancora validi – dice Stefania Prestigiacomo (Fi) –. Il progetto ha superato tutti i vagli di legge”. La realtà è ovviamente diversa. Giovannini ha dovuto ricordare che il vecchio progetto ha problemi enormi: non ha mai ottemperato a tutte le prescrizioni della valutazione di impatto ambientale e che per una parte dell’anno il ponte a campata unica dovrebbe stare chiuso a causa del vento, costringendo comunque a mantenere in vita il sistema dei traghetti.

L’impatto ambientale, peraltro, è assente nella relazione dei tecnici ministeriali: verrà approfondito più avanti, pare, visto che la commissione non aveva al suo interno tecnici del settore. Senza considerare il fatto che il progetto, in qualunque caso, non potrà essere finanziato dal Pnrr o altro, perché “non rispetta il requisito di non danneggiare l’ambiente”.

Vale la pena, a questo punto, ricordare che Eurolink ha fatto causa allo Stato. Mentre Renzi e Di Maio lo elogiavano, Salini chiedeva 700 milioni di danni: in primo grado ha perso, la sentenza d’appello è attesa a breve. Ora ha delle ragioni in più: il suo progetto potrebbe essere recuperato. Mal che vada, c’è comunque qualche decina di milioni in nuove consulenze…

ILFQ

Superbonus 110%, da oggi la super Cila: per cosa si può usare e per cosa no. - Saverio Fossati

 

Resta comunque aperta la via ai controlli da parte dei Comuni sugli abusi edilizi, la cui presenza blocca la concessione del bonus.

Da oggi 5 agosto sarà possibile utilizzare la “Cilas”, cioè il modello di «Comunicazione inizio lavori asseverata - superbonus» che la Conferenza unificata Stato-Regioni-Autonomie locali ha definitivamente approvato il 4 agosto, in tempi brevissimi, dopo la conversione in legge del Dl 77/2021.

I cardini della semplificazione

Come anticipato dal Sole 24 Ore dei giorni scorsi, con il nuovo modello sono tre i cardini della semplificazione:
1) non occorre documentare lo «stato legittimo» degli immobili per avviare i lavori nell’ambito del superbonus; resta naturalmente aperta la via ai controlli da parte dei Comuni sugli abusi edilizi, la cui presenza blocca la concessione del bonus;

2) il professionista incaricato attesterà l’esistenza del titolo abilitativo, dell’esistenza di eventuali condoni edilizi o del fatto che la costruzione sia precedente al 1° settembre 1967;

3) sarà possibile presentare anche varianti in corso d’opera.

La Cilas, a sua volta, potrà anche essere presentata come variante a quella già esistente per i lavori già in corso per lavori da superbonus.

Il modello è già disponibile

La compilazione del modello (già disponibile online (www.funzionepubblica.gov.it/sites/funzionepubblica.gov.it/files/Modulo_CILA_Superbonus.pdf) è semplice. Nella parte iniziale della nuova Comunicazione saranno indicati i dati del titolare dell’intervento ed, eventualmente, quelli del condominio, ente, Onlus che presenta la Cila.

In caso di interventi trainati su parti private, i dati relativi alle unità interessate saranno riportati in un modello allegato. Il titolare dell’intervento dichiarerà che le opere oggetto della Cila riguardano o meno parti comuni di un fabbricato condominiale ed, eventualmente, anche singole unità abitative. In caso di lavoro condominiale, servirà la delibera dell’assemblea.

L’elaborato progettuale consiste nella mera descrizione, in forma sintetica, dell’intervento da realizzare. Solo se necessario il progettista potrà allegare elaborati grafici illustrativi.

Gli interventi esclusi.

In ogni caso, come ricordato anche nella guida “Quaderno Cila superbonus” preparata da Anci in tempo record, le misure di semplificazione non potranno essere applicate agli interventi di super sismabonus con demolizione e ricostruzione integrale.

Tra l’altro, sempre in tema di sismabonus, la nuova normativa consente l’utilizzo della Cilas anche per gli interventi su parti strutturali dell’edificio, considerati manutenzione straordinaria.

Fabrizio Pistolesi, che ha partecipato ai lavori sul modello per il Cna-Rete professioni, ricorda che per le opere di miglioramento sismico «ci vuole il deposito al Genio Civile di un progetto o relazione, a seconda delle Regioni». Inoltre, in caso di immobili assoggettati a vincolo in base al Dlgs 42/04, resta ferma la necessità di acquisire l’assenso dell’Ente competente.

Del resto, più in generale, come spiegato dall’Anci, se la realizzazione degli interventi preveda la richiesta di atti o autorizzazioni di enti sovraordinati rispetto alle amministrazioni comunali (come per la prevenzione incendi) la Cilas non supera, ovviamente, la vigente normativa in materia.

L’azione congiunta.

Al successo dell’operazione hanno concorso molti attori, coordinati dalla Funzione pubblica: Regioni, Anci (che avrebbe voluto nel Dl una semplificazione maggiore e ha ottenuto la possibilità di omettere allegati e di effettuare varianti), Upi, Ance, Entrate, Transizione ecologica, Infrastrutture e Rete delle professioni tecniche.

IlSole24Ore

Mps, Franco: «C’è il rischio di oltre 2.500 esuberi. Possibile che Mef diventi azionista di Unicredit»

 

Il ministro dell’Economia è intervenuto davanti alle Commissioni riunite Finanze di Camera e Senato: nuovo piano banca non conforme con impegni presi con l’Ue. Unicredit soluzione strategicamente superiore per interesse paese.

«Sin dall’autunno dello scorso anno sia il ministero sia la banca si sono attivati per la ricerca di un partner per Mps. È possibile che il Mef riceva azioni del gruppo Unicredit» a fronte della cessione del Montepaschi alla banca milanese, «ma tale eventuale partecipazione al capitale non dovrebbe alterare gli equilibri di governance. Lo Stato parteciperà comunque a tutti i benefici economici in termini di creazione di valore derivanti dall’operazione», ha chiarito il ministro dell’Economia Daniele Franco, in audizione a Borsa chiusa davanti alle Commissioni riunite Finanze di Camera e Senato sul dossier Mps. Il nuovo piano industriale di Mps, ha sottolineato, «presenta obiettivi non conformi alle richieste della Commissione europea in particolare la riduzione costi fissata al 51% dei ricavi da Bruxelles, mentre in base al piano si prevede il 74% nel 2021 e ancora il 61% al 2025».

Il chiarimento nella replica: non chiuderemo con Unicredit a ogni costo.

Nella replica finale agli interventi, a proposito dell’eventuale aggregazione con Unicredit, il ministro ha poi precisato «non chiuderemo con Unicredit a qualsiasi costo». Per il Montepaschi, ha detto, «abbiamo un’unica controparte che si è fatta avanti» ma «proporremo un pacchetto finale solo se convinti che sarà adeguato ma se dovessimo pensare non lo sia, non cercheremo di chiuderlo a tutti i costi». «Auspico che si chiuda e lo auspico fortemente - ha affermato Franco -, e credo ci siano margini per le soluzioni ma non chiuderemo a qualsiasi costo, né noi né Unicredit».

Rischio di ben oltre 2.500 esuberi con paletti Ue.

«Non ci sono i presupposti per una richiesta a Ue su rinvio termini - ha spiegato il ministro nel suo intervento -. Non vi sono rischi di smembramento della banca. Nel caso probabile in cui l’interlocuzione con la commissione richiedesse di fissare un obiettivo costi-ricavi più ambizioso gli esuberi di personale potrebbero essere considerevolmente più elevati» rispetto ai 2.500 volontari attualmente fissati». Franco ha parlato di «massima attenzione a 21mila dipendenti con pluralità strumenti». «Non si tratterà di svendita di proprietà statale - ha poi assicurato -. Unicredit è soluzione strategicamente superiore per interesse paese», ha assicurato.

Serve aumento superiore a quello del piano.

«L’esito dello stress test - ha detto Franco - conferma l’esigenza di un rafforzamento strutturale di grande portata» per Mps e per «portarla su valori medi delle banche europee» servirebbe «un aumento bene superiore a quello previsto dal piano 2020-2025» da 2,5 miliardi di euro. «Ai fini di un eventuale aumento di capitale di banca Mps, che si rendesse necessario nell’ambito della complessiva struttura dell’operazione, potranno essere utilizzate le risorse stanziate dall’articolo 66 del decreto legge 104 del 2020, cosiddetto decreto agosto, vale a dire fino a 1,5 miliardi. Il piano stand alone - ha continuato il responsabile dell’Economia - sarebbe esposto a rischi ed incertezze considerevoli e a seri problemi di competitività».  

Ad oggi con Unicredit nessun rischio spezzatino.

Il ministro ha chiarito che «non vi sono al momento indicazioni che facciano intravedere rischi di smembramento» di Montepaschi con un’aggregazione con Unicredit. «Le attività escluse, ad ora, sono individuate nei crediti deteriorati per circa quattro miliardi al lordo delle rettifiche», ha detto Franco, oltre al contenzioso giudiziale e stragiudiziale di carattere straordinario in essere, nei contenziosi e rischi legati alle cessioni a terzi dei crediti deteriorati.

Se Mps resta autonoma forti rischi e incertezze.

Franco ha ricordato che gli stress test europei hanno evidenziato per Mps «l’esigenza di un rafforzamento strutturale di elevata portata con un aumento di capitale ben superiore a quello previsto dal piano industriale». «Se la banca restasse soggetto autonomo - ha aggiunto -, sarebbe esposta a rischi e incertezze considerevoli e avrebbe seri problemi», e «non si ravvisano le condizioni per una interlocuzione» con l’Unione europea per cambiare le condizioni che prevedono la dismissione da parte del Mef. «Non vi sono le condizioni per mettere in discussione la cessione» del Montepaschi, è la conclusione del ministro.

La richiesta di riferire in parlamento.

Il ministro è intervenuto in parlamento dopo che sia la maggioranza sia l’opposizione hanno chiesto che fornisse chiarimenti sull’operazione.In quanto informativa, non è previsto alcun voto. I Cinque Stelle avevano chiesto che l’audizione di Franco avvenisse davanti alla Commissione di inchiesta sulle banche, presieduta dalla pentastellata Carla Ruocco.

IlSole24Ore