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mercoledì 30 marzo 2022

Sanità, scuola, ricerca, fisco e molto altro. Ecco cosa si potrebbe fare con i 13 miliardi che il Governo vuole buttare in spese militari. - Stefano Iannaccone

 

I 13 miliardi di euro previsti per l’aumento delle spese militari sono l’equivalente di una manovra correttiva, anche con un bel peso specifico. I numeri, del resto, parlano chiaro: la somma è un terzo dell’ultima Legge di Bilancio approvata, che – dati alla mano – ha avuto una movimentazione di 40 miliardi di euro complessivi.

Spese militari, mentre l’esercito viene armato fino ai denti, la Sanità viene lasciata senza strumenti per lavorare

Si parla dunque di un gruzzolo di risorse che potrebbe avere numerose destinazioni. Quali? L’elenco è lungo: dalla Sanità al fisco, dalla scuola al welfare. Per non dimenticare le misure contro l’aumento delle bollette che sta funestando i bilanci delle famiglie. Le risorse in più che il governo dei Migliori vuole prevedere per l’acquisto di nuove armi, facendo passare la cifra da 25 a 38 miliardi, sono insomma un tesoretto prezioso.

Per rendere l’idea delle proporzioni: è sei volte e mezzo più grande del fondo previsto, ogni anno, per finanziare degli enti di ricerca, tra cui il Cnr. Ma questo è solo un esempio tra i tanti. Eppure il presidente del Consiglio, Mario Draghi, che pure di professione è economista e sicuramente capace con i numeri, è fermamente intenzionato ad accontentare la Nato, portando le spese militari al 2 per cento del Pil. Un progetto che lo vede andare in tandem, con il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. E in pochi sono davvero pronti a dire no, come fa il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte.

Mentre l’esercito viene armato fino ai denti, la Sanità viene lasciata senza le armi per lavorare al meglio. Il sistema, negli ultimi due anni di pandemia, ha mostrato tutti i suoi limiti. La tenuta è stata possibile solo grazie all’impegno eroico di medici e infermieri. Il Piano nazionale di riprese e resilienza investe sulla salute 15 miliardi e 600 milioni di euro. In pratica l’incremento dei fondi per le spese militari sarebbe equiparabile alle risorse messe a disposizione dal Recovery plan su uno dei capitoli ritenuti fondamentali, specie dopo la tragedia del Covid-19.

Peraltro, già attualmente, per avere una macchina pienamente efficiente, occorrerebbero – stando alle stime della Fnopi (Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche), oltre 63mila infermieri. Ma all’appello mancano già più di 1.300 medici e per il 2027 la prospettiva è quella di 35mila pensionamenti totali, che potranno essere rimpiazzati solo per metà, nella migliore delle ipotesi. Servono dunque forze fresche e per immetterle è fondamentale fornire risorse strutturali. Altrimenti sono dolori, nel vero senso della parola.

Nell’ultima Legge di Bilancio il governo ha realizzato una riforma dell’Irpef. In totale ha speso 7 miliardi di euro per rivedere le aliquote, peraltro avvantaggiando in maniera palese i redditi più alti. Un esempio è arrivato dai dati, forniti dal Mef, sulle pensioni. Su questo specifico capitolo la spesa è stata di 2 miliardi 100 milioni. Per i redditi fino a 15mila euro, praticamente nella soglia di povertà, la riforma ha portato un “guadagno” di 177 euro all’anno, pari a 14,75 euro al mese. Chi ha fatto una dichiarazione tra 50mila e 55mila euro, può contare su un incremento di 744 euro annui.

Rinunciando alle armi si potrebbe prevedere un intervento molto più incisivo sulla tassazione

Un calcolo semplice che dimostra come la rinuncia all’acquisto di bombe potrebbe determinare un intervento molto più incisivo sulla tassazione, magari a sostegno dei più poveri. E che dire poi della delega fiscale, che al di là dell’Irpef è chiamata a ridisegnare l’architrave dell’imposizione sui contribuenti, a cui sono stati destinati solo 8 miliardi? Il lavoro in Parlamento è portato avanti con il bilancino per evitare che qualsiasi misura introdotta dai deputati possa avere un costo per le casse pubbliche. Il mantra, in questo caso, è che non ci sono soldi a sufficienza, così come mancano, a parole, quando si tratta di misure che potrebbero sostenere i redditi bassi.

La questione energetica è esplosa con la guerra in Ucraina. Il governo è intervenuto in due tempi, prima con il decreto bollette, da 7 miliardi di euro, e poi con il decreto energia, da 4 e passa miliardi. Messi insieme non arrivano alla fatidica cifra dei 13 miliardi. Ed è sotto gli occhi di tutti come l’intervento sulla riduzione dei costi del carburante di 25 centesimi sia da considerare alla stregua di una mancetta. Peraltro con l’aggravante che la misura ha un carattere molto limitato nel tempo: il 30 aprile 2022 si torna punto e daccapo.

Bisognerà inevitabilmente reperire nuove risorse, a meno di non dover sottoporre gli italiani a una risalita improvvisa dei costi per fare il pieno di benzina. Perché difficilmente nel prossimo mese la situazione potrà tornare sotto controllo in termini di approvvigionamenti energetici. Anzi l’ipotetico distacco dal gas russo imporrebbe un intervento statale ancora più significativo.

Il caro-energia, con tutti gli annessi, è solo uno dei problemi scoppiati con il conflitto in Ucraina. Le sanzioni inflitte al governo di Mosca hanno messo in affanno intere filiere finite.“La guerra commerciale mette in pericolo le esportazioni agroalimentari Made in Italy in Russia e in Ucraina per un valore che nel 2021 ha superato il miliardo di euro”, ha riferito la Coldiretti. Una contrazione che colpisce in maniera particolare il settore enologico: secondo una stima di Nomisma, nello scorso anno sono stati esportati in Russia vini per 340 milioni di euro, una somma che cresce di altri 60 milioni considerando il mercato ucraino.

Non va poi dimenticato l’export di olio, caffè e pasta. E ancora: la filiera del legno perde qualcosa come 400 milioni di euro con la chiusura dello sbocco russo. Un business che viene a mancare per le aziende italiane e a cui bisogna sopperire in qualche modo. Così come si dovrebbe far riflettere il rincaro delle materie prime per le costruzioni. L’Ance ha evidenziato che il prezzo dell’acciaio “tra novembre 2020 e febbraio 2021 ha registrato un aumento eccezionale pari a circa il 130%”. A rischio ci sono i lavori pubblici, senza un supporto.

Un altro eterno problema italiano riguarda la scuola. Basti pensare all’edilizia scolastica. Secondo quanto riferito da un dossier della Camera, il fondo unico prevede uno stanziamento ulteriore di 500 milioni di euro per gli interventi sugli edifici. Una cifra che è insufficiente rispetto a quanto effettivamente potrebbe servire per garantire una maggiore sicurezza agli studenti. Una ricerca della fondazione Agnelli indica che sarebbero addirittura necessari 200 miliardi di euro per un piano di effettivo ammodernamento. Certo, sarà una stima al rialzo.

Ma un elemento risulta certo: per il triennio 2018-2020, l’investimento sull’edilizia scolastica è stato di 10 miliardi in totale. Non va meglio, poi, se si parla di ricerca. Il Foe (il fondo assegnato agli enti controllati dal Ministero dell’università e della ricerca) è cresciuto nel 2021, ma è fermo a un miliardo e 900 milioni di euro. In confronto al 2011 l’incremento è stato di appena 200 milioni. Per superare la soglia ormai “mitica” dei 13 miliardi che il governo intende investire in spese militari, bisogna mettere insieme le risorse date ai ricercatori in 8 anni.

https://www.lanotiziagiornale.it/sanita-scuola-ricerca-fisco-e-molto-altro-ecco-cosa-si-potrebbe-fare-con-i-13-miliardi-che-il-governo-vuole-buttare-in-spese-militari/?fbclid=IwAR1rfvkKYafVKbMvqS5bEfrHNE74C3FZk_ctzUyiEmYFg1Uz0VZqJRi1_L0

martedì 9 novembre 2021

Matteo Renzi: soldi dall’Arabia, banche e Benetton per le conferenze. - Valeria Pacelli

 

TUTTI I CONTI DEL LEADER IV - In due anni il senatore ha incassato 2,6 milioni: a retribuire gli “speech”, dal “principale giornale coreano” al ministero delle Finanze saudita.

C’è una società di consulenza del Regno Unito e anche un quotidiano coreano. E ancora: due società italiane di cui una fondata da Alessandro Benetton e persino il ministero delle Finanze dell’Arabia Saudita. Ecco chi paga gli speech di Matteo Renzi. In totale, dal 2018 al 2020, il senatore oggi leader di Italia Viva, ha guadagnato (non solo con gli speech) oltre 2,6 milioni di euro in totale. Il dettaglio degli incassi (legittimi) dell’ex premier, sia per le conferenze ma anche per altro, ad esempio per i libri, sono finiti agli atti dell’indagine della Procura di Firenze. Qui Renzi è accusato di concorso in finanziamento illecito assieme agli ex ministri Luca Lotti e Maria Elena Boschi. Al centro dell’indagine ci sono i contributi volontari finiti nelle casse della Open, che i magistrati ritengono essere stata un’articolazione politico-organizzativa della corrente renziana del Pd. Sono migliaia gli atti depositati dai pm. Tra questi c’è anche un’informativa del 10 giugno 2020 della Guardia di Finanza che contiene anche gli estratti del conto corrente intestato a Renzi. Gli incassi dell’ex premier non sono oggetto di indagine: non è per questo che Renzi è finito sotto inchiesta. Leggendo l’informativa della Finanza però si scoprono i dettagli (alcuni finora inediti) dell’attività di speaker del senatore. “Svolgo attività previste dalla legge ricevendo un compenso sul quale pago le tasse in Italia – ha ribadito più volte in passato il leader di Italia Viva –. La mia dichiarazione dei redditi è pubblica. Tutto è perfettamente legale e legittimo”.

Nell’informativa della Finanza dunque è scritto: “Tra gli allegati alla segnalazione per operazioni sospette, risulta accluso l’estratto, dal 14 giugno 2018 al 13 marzo 2020, del conto corrente (…) Bnl – filiale Senato Roma, intestato a Matteo Renzi”. La lista dei bonifici in entrata è lunga: “Dalla disamina dell’estratto conto – scrivono le Fiamme Gialle –, si rilevano: in avere per complessivi 2.644.142,48 euro”. E poi aggiungono: “In dare, uscite per 2.543.735,66 euro, di cui 1.221.009 sono bonificati verso altro rapporto intestato allo stesso Renzi”. Vediamo dunque i dettagli degli incassi del premier dal 2018 al 2020.

Presta&Serra 653mila euro dalla Arcobaleno tre stl.

Oltre 653mila euro arrivano in totale in questi due anni dalla Arcobaleno Tre srl, società di cui è amministratore unico Niccolò Presta, figlio di Lucio, l’agente dei più noti volti della televisione. Tra Renzi e la Arcobaleno Tre, come già raccontato dal Fatto, ci sono sei scritture private: quattro per il documentario Firenze secondo me, una per conferire alla Arcobaleno Tre “mandato esclusivo” a rappresentarlo e una per la realizzazione di “opere dell’ingegno”. I rapporti tra la società e l’ex premier non sono oggetto dell’indagine fiorentina, bensì di un’altra Procura, quella di Roma dove Renzi è indagato per finanziamento illecito perché i pm capitolini ritengono che quelli con la Arcobaleno Tre siano stati “rapporti contrattuali fittizi” dietro i quali si celerebbe un presunto finanziamento alla politica. Ma questa è un’altra storia.

Torniamo a Firenze. Nell’elenco dei soldi finiti sul conto corrente di Renzi ci sono 507mila euro circa dalla Celebrity Speakers Ltd, “società global speaker del Regno Unito”. La somma di oltre mezzo milione sarebbe il totale di più pagamenti: comprende più speech svolti dall’ex premier per l’agenzia internazionale che promuove relatori famosi per le conferenze. “Questa è la società con la quale Renzi lavora di più – spiegano fonti vicine all’ex premier –. I suoi speech vanno da un minimo di 20 a un massimo di circa 50mila euro”.

147.300 euro invece arrivano da Algebris, “società di gestione del risparmio – la descrivono gli investigatori ma in un’altra informativa, quella del 17 febbraio 2021 – con sede a Londra (…) riconducibile a Davide Serra”, in passato finanziatore della Open (mai indagato). “La cifra pagata è la somma totale di almeno cinque o sei speech”, aggiungono le nostre fonti. Con Serra, Renzi figura tra i consiglieri dell’Algebris Policy & Research Forum.

Stanford e Usa L’ateneo e l’istituto di credito.

E non è finita. Dal 2018 al 2020 sul conto dell’ex premier sono arrivati in totale 83.679 euro dalla This is spoken Ltd, “società consulenza amm-gest. Regno Unito”. Altri 64mila euro arrivano dalla “Banca Usa” “Interaudi bank”.

La “società global speaker Regno Unito” Vbq Limited, ha pagato l’ex premier poco più di 44mila euro, sempre per alcuni speech. E poi c’è l’Arabia Saudita, la “culla del nuovo Rinascimento” secondo Matteo Renzi, come disse davanti a Mohammad bin Salman, il principe ereditario indicato in un rapporto della Cia come il mandante del rapimento o dell’omicidio di Jamal Khashoggi, il reporter ucciso nel consolato di Ryad in Turchia nel 2018.

Era già nota la partecipazione (pagata 80mila dollari l’anno lordi) di Renzi nel board del Future Initiative Investment, la fondazione saudita creata nel 2020 per decreto dal Re Salman. Ora si scopre che dal 2018 al 2020 sul conto di Renzi sono arrivati pagamenti direttamente dal “Ministry of Finance Arabia Saudita” per un totale di 43.807 euro, mentre altri 39.930 euro provengono dal “Saudi commission For Tourism Arabia Saudita”: “Anche questi sono i pagamenti degli speech”, spiegano sempre fonti vicine all’ex premier.

E la partecipazione a una conferenza sarebbe anche quella pagata da Chosun Ilbo, “il principale quotidiano coreano”, che versa 29mila euro circa.

E ancora. Nel periodo 2018-2020 arrivano sul conto corrente di Renzi in totale 26mila euro dal “Luxembourg Forum”. La “banca svizzera” Julius Baer International invece versa per gli speech 25.385 euro. Altri 25mila euro vengono sborsati da “Stanford University in Italy”. Dell’Università di Stanford Renzi parlava in una sua enews del 1º ottobre 2018: “Oggi riprendo l’attività di professore a contratto presso la sede fiorentina dell’Università di Stanford”.

I committenti Italiani E la causa contro Piero Pelù.

Nei conti di Renzi ci sono anche i 33.140 da parte della “Carlo Torino&associati srl”. Proprio per il pagamento di una sua partecipazione a una conferenza ad Abu Dhabi, Renzi è finito indagato sempre a Firenze ma nell’ambito di un’altra inchiesta – diversa da quella Open – che vede Renzi accusato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, in concorso con Carlo Torino, titolare della società di Portici che avrebbe fatto da tramite per la ricezione del compenso dell’ex premier.

La società – spiegavano in passato al Fatto fonti vicine all’ex premier – avrebbe fatto partecipare il leader di Italia Viva anche ad altre conferenze, oltre a quella di Abu Dhabi del dicembre 2019.

Tornando al conto di Renzi si trovano dunque altri 25.552 euro dalla Invest Industrial “private equity di Andrea Bonomi”, finanziere nato a New York. Anche in questo il pagamento, secondo quanto ricostruito dal Fatto, è per gli speech. Come pure lo sarebbero i 19mila euro dalla 21 Investimenti Sgr, società fondata da Alessandro Benetton.

Nei conti in entrata ci sono poi anche i soldi che non riguardano il suo ruolo di conferenziere. Come i 20 mila euro per un contenzioso civile pagati da Piero Pelù. Scrive la Finanza in un’informativa del 17 febbraio 2021: “È plausibile ritenere che il pagamento sia stato disposto quale composizione di una lite, dopo una querela per diffamazione presentata dal Senatore nei confronti del cantante”.

Il volo per Johannesburg Stavolta rimborsa il Pd.

Sul conto di Renzi arrivano anche 8.363 euro dal “Gruppo parlamentare Pd” per il “viaggio Johannesburg 15-17 luglio 2018”. Quella volta Renzi volò in Sudafrica per partecipare alle celebrazioni del centenario della nascita di Nelson Mandela. Era presente anche Barack Obama.

Per questa partecipazione Renzi non fu pagato, ma il biglietto del viaggio finì in capo al gruppo parlamentare del Partito democratico, quando l’attuale senatore ancora ne faceva parte.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/11/06/matteo-renzi-soldi-dallarabia-banche-e-benetton-per-le-conferenze/6381864/

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giovedì 5 agosto 2021

Riecco il ponte: altri 50 milioni per lo studio. - Carlo Di Foggia

 

La storia infinita del grande spreco.

Nella pluridecennale vicenda del Ponte sullo Stretto di Messina, sembra di rivivere il “giorno della marmotta”. Quasi dieci anni fa, il governo Monti ha archiviato la mega-opera perché considerata un inutile spreco di denaro, scatenando un maxi-contenzioso con il consorzio Eurolink, capeggiato da Salini-Impregilo, vincitore della gara. Oggi si riparte dal più classico “studio di fattibilità tecnico-economica”. L’ufficialità è arrivata ieri dal ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini, in audizione alle Camere. Due ore surreali in cui la parola “ponte” non si è sentita per 40 minuti, sostituita da un più laico “attraversamento stabile dello Stretto di Messina”. È toccato al renzianissimo deputato Luciano Nobili, dire pane al pane e vino al vino: “Possiamo togliere l’ipocrisia del lavoro degli ultimi mesi e parlare di ponte?”.

Giovannini è riuscito nell’impresa di scontentare pure i pasdaran dell’opera, che in realtà si spendono per Pietro Salini e Webuild, il colosso delle costruzioni nato dopo che la Cassa depositi e prestiti ha messo in sicurezza con soldi pubblici la Salini-Impregilo.

Breve premessa. Il mese scorso, la Camera ha approvato a larghissima maggioranza (tranne Leu e M5S) una mozione che “impegna il governo ad adottare le opportune iniziative al fine di individuare le risorse necessarie per realizzare un collegamento stabile, veloce e sostenibile dello Stretto di Messina estendendo, così, la rete dell’Alta velocità fino alla Sicilia”. Il ponte è la conclusione logica del mega-progetto dell’Alta velocità Salerno-Reggio Calabria (22 miliardi, di cui 10 già finanziati nel fondo complementare al Pnrr) anch’esso fermo allo “studio di fattibilità tecnico-economica”.

Giovannini si è presentato per elogiare il lavoro consegnato dalla commissione di esperti nominata a suo tempo da Paola De Micheli. L’illustre task force è stata chiamata a rifare una discussione chiusa 40 anni fa: meglio un ponte, un tunnel sotto il fondale (sub alveo) o solo ancorato al fondale (alveo)? Vale a dire, le opzioni del concorso internazionale di idee del 1969, chiuso 20 anni dopo con la scelta del ponte, l’unica considerata percorribile. Il team di esperti ministeriali – dove non compare nessun ingegnere strutturista esperto di costruzioni di ponti – ha concluso che in effetti il ponte è l’unica soluzione, ma ha ipotizzato che forse invece di quello a un’unica campata, oggetto della gara del 2006, si può fare a più campate. Il costo, però, deve sobbarcarselo tutto lo Stato. Quanto? I 10 miliardi del vecchio progetto? Non si sa, e per questo serve lo studio. Giovannini ha annunciato che ci sono già 50 milioni stanziati nella vecchia legge di Bilancio, e a farlo sarà Italferr, controllata di Fs: si dovrebbe chiudere entro la primavera 2022 per arrivare poi al dibattito pubblico e a stanziare i fondi in autunno con la legge di Bilancio.

Ai parlamentari di Lega, Forza Italia e Italia Viva, che lo accusavano di prender tempo per non fare nulla, il ministro ha replicato che lui l’opera la vuole fare e di averne discusso con Mario Draghi e il resto del governo: “Sposando la linea del gruppo di lavoro non riteniamo affatto che quest’opera sia inutile, anzi: motivazioni di carattere trasportistico, economico e sociale la giustificano”. E quindi si farà e “verrà chiesto alla Ue di partecipare al finanziamento”. Sembra una barzelletta: in studi, lavori, consulenze e altro, per il ponte sono stati spesi già 960 milioni (300 nel solo 2010-2013); intanto la concessionaria, la Stretto di Messina Spa, da 10 anni in liquidazione, è ancora lì. Ora si riparte.

Nelle slide illustrate da Giovannini, tra le “motivazioni socio-economiche” che giustificano il ponte c’è l’arretratezza dell’area: calo ventennale della popolazione (-1,2% tra 2000 e 2019 rispetto al Nord); dell’occupazione (-11,7% rispetto al Centro-Nord e allo stesso Mezzogiorno) e del Pil (-15,3% rispetto al Centro-Nord). Dati che dovrebbero migliorare grazie a una mega-opera di cui non si conoscono nemmeno le stime di traffico. Giovannini ha spiegato che “l’assenza di un collegamento stabile penalizza in modo rilevante il traffico ferroviario, gli spostamenti di breve distanza e quelli da e per il Mezzogiorno” e che l’attraversamento “potrebbe modificare nel tempo le scelte di approdo di taluni traffici”. Quali? Non si sa, ma a braccio (il testo non compare nelle slide) il ministro ammette che “analisi condotte mostrano che gran parte del traffico merci marittimo non si fermerebbe in Sicilia, ma proseguirebbe verso scali del Centro-Nord, Genova e Trieste per i costi decisamente più bassi”.

Curioso, visto che la mozione parlamentare motiva il ponte con la possibilità di “intercettare il traffico merci che, dal Canale di Suez, oggi si dirige verso Gibilterra per puntare sui porti del Nord Europa, quando invece la Sicilia col porto di Augusta collegato all’Alta velocità potrebbe rappresentare un hub strategico nel Mediterraneo”. Giovannini è costretto ad ammettere che il ponte lo deve pagare lo Stato, perché “se anche partecipassero i privati il costo di realizzazione e manutenzione imporrebbe dei canoni di utilizzo estremamente elevati che finirebbero per scaricarsi sulla finanza pubblica”. Tradotto: il progetto non sta in piedi a meno di chiedere dei pedaggi ad auto e treni così elevati da renderli anti-economici (e quindi, alla fine, pagherebbe comunque lo Stato).

Centrodestra e Iv, come detto, si sono scagliati contro il ministro. Vorrebbero che si ritornasse al progetto di Eurolink. Subito. “Si mette in discussione un iter iniziato da qualche decennio, con atti che sono ancora validi – dice Stefania Prestigiacomo (Fi) –. Il progetto ha superato tutti i vagli di legge”. La realtà è ovviamente diversa. Giovannini ha dovuto ricordare che il vecchio progetto ha problemi enormi: non ha mai ottemperato a tutte le prescrizioni della valutazione di impatto ambientale e che per una parte dell’anno il ponte a campata unica dovrebbe stare chiuso a causa del vento, costringendo comunque a mantenere in vita il sistema dei traghetti.

L’impatto ambientale, peraltro, è assente nella relazione dei tecnici ministeriali: verrà approfondito più avanti, pare, visto che la commissione non aveva al suo interno tecnici del settore. Senza considerare il fatto che il progetto, in qualunque caso, non potrà essere finanziato dal Pnrr o altro, perché “non rispetta il requisito di non danneggiare l’ambiente”.

Vale la pena, a questo punto, ricordare che Eurolink ha fatto causa allo Stato. Mentre Renzi e Di Maio lo elogiavano, Salini chiedeva 700 milioni di danni: in primo grado ha perso, la sentenza d’appello è attesa a breve. Ora ha delle ragioni in più: il suo progetto potrebbe essere recuperato. Mal che vada, c’è comunque qualche decina di milioni in nuove consulenze…

ILFQ

martedì 20 aprile 2021

49 milioni, la Lega paga i debiti con i soldi pubblici. - Stefano Vergine

 

La truffa allo stato. Nel 2018 l’accordo coi magistrati di Genova per restituire il denaro. La scoperta: il Carroccio ripiana col 2 x 1000 versato dai contribuenti.

Ufficialmente i partiti sono due, distinti e indipendenti fra loro. Da una parte c’è la vecchia Lega Nord per l’Indipendenza della Padania, la storica casa dei leghisti. Dall’altra parte c’è Lega Salvini Premier, il partito fondato da Matteo Salvini nel 2017. È sulla base di questa netta separazione che è stata decisa la vicenda dei 49 milioni di euro. Il debito con lo Stato è infatti in capo alla sola Lega Nord. Così è risultato da un accordo tra Salvini e la Procura di Genova, del settembre 2018, con cui il Carroccio ha ottenuto di poter restituire il maltolto ai cittadini italiani a condizioni speciali: rate da 600 mila euro all’anno, per una dilazione in quasi 80 anni, senza interessi. Condizioni rarissime, accordate in nome del rischio democratico, cioè di eliminare nei fatti un partito politico togliendogli tutti i soldi. C’è però qualcosa che stride con questa narrazione. Se i due partiti sono distinti e indipendenti tra loro, se cioè non esiste continuità giuridica, perché alle ultime elezioni politiche la Lega si è presentata con il simbolo del partito nuovo e con lo statuto di quello vecchio?

Lo raccontano i documenti depositati al ministero dell’Interno. Alle Politiche del marzo 2018, Salvini si è presentato con il nome e lo statuto del vecchio Carroccio, ma con il simbolo di Lega Salvini Premier. Il contrassegno del nuovo partito è stato depositato da Roberto Calderoli nel gennaio del 2018, quando la Lega Salvini Premier era appena stata creata. Per partecipare alle elezioni, un nuovo partito doveva raccogliere almeno 375 firme per ogni collegio elettorale (64 in totale). La decisione di Salvini fu di presentarsi come Lega Nord, ma di usare il nuovo marchio come vetrina. Come se i due partiti fossero la stessa cosa. Mossa contraria alla logica applicata pochi mesi dopo alla restituzione del debito verso lo Stato dei 49 milioni, rimasto invece in carico solo al vecchio Carroccio.

Oggi la Lega Nord è ormai a tutti gli effetti una bad company, con pochissime entrate e moltissimi debiti, mentre Lega Salvini Premier gode di ottima salute finanziaria. Lo raccontano gli ultimi bilanci disponibili, quelli del 2019. Lega Nord ha incassato in tutto 1,4 milioni. La metà arriva dal 2 x 1000, denaro che ogni cittadino può decidere di versare, invece che allo Stato sotto forma di Irpef, al proprio partito preferito. È con questi soldi che Salvini sta ripagando il debito dei 49 milioni. Un paradosso: così facendo Lega Nord ripaga allo Stato il suo debito usando denaro sostanzialmente pubblico: la norma sul 2 x 1000 prevede infatti che, nel caso in cui il contribuente non effettui una scelta sulla destinazione della quota Irpef, la somma vada allo Stato.

Nel bilancio della Lega dunque le entrate sono pari a 1,4 milioni. Ma le spese, 1 ,7 milioni in totale, portano il risultato finale in rosso per 292 mila euro.

Tutt’altra musica per Lega Salvini Premier: nel 2019 il nuovo partito ha incassato 9,7 milioni di euro. Qui ora arrivano buona parte delle donazioni fatte da cittadini e aziende (5,8 milioni) e del 2 x 1000 (3 milioni). Salvini ha insomma spostato quasi tutte le finanze sul nuovo partito, lasciando al vecchio i debiti e quelle minime entrate necessarie per saldare le rate da 600mila euro all’anno di debito verso lo Stato. Anche le spese sostenute da Lega Salvini Premier sono rilevanti (8,8 milioni), ma il risultato finale, cioè la differenza tra entrate e uscite, è positivo per 875 mila euro.

Numeri che contano, perché nell’accordo sulla rateizzazione del debito è previsto che, oltre ai 600 mila euro annui che Lega Nord deve restituire, venga anche sequestrata “la differenza tra i ricavi dati dalle somme future incassate e le spese, risultanti dal bilancio certificato o comunque accertato”. In altre parole, se la Lega Nord si ritrovasse con un po’ di utile a fine anno, il denaro avanzato andrebbe allo Stato. Cosa che però non succede, perché Lega Nord chiude in rosso. Proprio grazie allo spostamento di tutti gli incassi sulla nuova creatura, Lega Salvini Premier.

Su questo presunto gioco delle due carte potrebbe essere presto un giudice a esprimersi. In un atto di citazione indirizzato al Tribunale di Milano, in cui chiede che gli vengano pagate 6,3 milioni di euro di parcelle legali mai saldate, l’ex avvocato della Lega Nord e di Umberto Bossi, Matteo Brigandì, denuncia infatti la continuità finanziaria dei due partiti.

Brigandì – che si considera un creditore del movimento – chiede le parcelle mai saldate a entrambi i partiti, la vecchia e la nuova Lega. “La Lega Salvini Premier, in buona sostanza, è la stessa associazione di Lega Nord per l’indipendenza della Padania”, si legge nell’atto di citazione. Per l’ex avvocato di Bossi gli elementi per dimostrare la continuità giuridica tra i due movimenti sono parecchi: la coincidenza delle sedi (sono entrambi registrati al 41 di via Bellerio), il fatto che “l’intera dirigenza dei due partiti sia la medesima” e poi Brigandì allega alla causa civile un’intervista rilasciata da Salvini nel 2018 a uno studente per la sua tesi di laurea.

Rispondendo alla domanda “Si può dire che in questo momento esistano due Leghe?”, l’ex ministro ha argomentato: “Mi sento di rispondere di no. Esiste ‘la Lega’, con la sua storia, il suo presente e il suo futuro. Un movimento capace di aggiornare la sua agenda ai tempi che cambiano”. “Dal punto di vista elettorale”, chiede lo studente, “al momento esistono due Leghe. Quando e come verranno fuse in un unico partito?”. E Salvini: “Sarà un processo entusiasmante che prenderà il via a breve”. Per Brigandì è la dimostrazione che i debiti della Lega devono essere onorati anche da Lega Salvini Premier. La decisione del Tribunale di Milano dovrebbe arrivare il 28 luglio.

IlFQ

giovedì 1 aprile 2021

Documenti ad un ufficiale russo, arrestato un militare italiano.

Nella foto l'ufficiale della Marina militare Walter Biot

Ceduti documenti su telecomunicazioni militari, 5 mila euro per le carte segrete.

Un ufficiale della marina militare italiana, Walter Biot (questo il suo nome secondo quanto apprende l'ANSA da fonti inquirenti) è stato arrestato dai carabinieri del Ros, dopo essere stato fermato assieme ad un ufficiale delle forze armate russe: entrambi sono accusati di gravi reati attinenti allo spionaggio e alla sicurezza dello Stato. L'intervento è avvenuto in occasione di un incontro clandestino tra i due, che sono stati sorpresi mentre l'ufficiale italiano cedeva all'altro dei documenti 'classificati' in cambio di soldi.

La posizione del cittadino straniero è tuttora al vaglio in relazione al suo status diplomatico. Il capitano di fregata Biot, sempre secondo quanto si è appreso, è in servizio all'ufficio Politica Militare dello Stato maggiore della Difesa.

Biot e l'ufficiale accreditato presso l'ambasciata della federazione russa sono stati fermati martedì sera in un parcheggio a Roma. L'intervento è stato effettuato dai carabinieri del Ros, sotto la direzione della Procura di Roma, e l'attività informativa è stata condotta dall'Agenzia Informazioni Sicurezza Interna, con il supporto dello Stato maggiore della Difesa.

Documenti classificati esclusivamente di natura militare. E' quanto il capitano di fregata ha consegnato all'ufficiale dell'esercito russo. Lo scambio, in base a quanto si apprende, è avvenuto in cambio di denaro in un parcheggio della Capitale dove i due sono stati bloccati. Si tratta di copie di documenti che erano all'attenzione dello Stato Maggiore della Difesa. Biot fotografava documenti classificati dal monitor del computer e li scaricava su una pennetta da consegnare al militare dell'esercito russo. Questo il modus operandi -secondo l'accusa- del militare italiano. La pennetta è stata sequestrata ieri dai carabinieri del Ros. I documenti riguarderebbero i sistemi di telecomunicazione militare. Alle carte classificate, Biot avrebbe avuto accesso in quanto era in servizio allo Stato maggiore della Difesa.

Cinquemila euro in contanti. E' quanto il militare dell'esercito russo avrebbe dato al capitano di fregata in cambio dei documenti. In base a quanto si apprende i soldi gli sono stati consegnate in piccole scatole. Il denaro è stato sequestrato al momento dello scambio. Sembrerebbe che due si fossero accordati anche su una cifra più bassa, circa quattromila euro, per la cessione di documenti avvenuta in passato. Nei confronti del militare italiano, attualmente detenuto, l'accusa è di procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato, spionaggio politico e militare, diffusione di notizie di cui è vietata la divulgazione.

L'indagine. La Procura militare di Roma aprirà oggi formalmente un fascicolo d'inchiesta sull'arresto degli ufficiali italiano e russo. Lo ha confermato all'ANSA il procuratore militare di Roma, Antonio Sabino. Si terrà domani l'udienza di convalida di Walter Biot. L'atto istruttorio, a causa dell'emergenza coronavirus, si svolgerà da remoto dal carcere di Regina Coeli. Nei suoi confronti le accuse sono di di procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato, spionaggio politico e militare, spionaggio di notizie di cui è stata vietata la divulgazione.

In relazione a quanto riportato dagli organi di stampa circa l'operazione condotta dai carabinieri del ROS, sotto la direzione della Procura della Repubblica di Roma, la Farnesina rende noto che il Segretario Generale del Ministero degli affari esteri, Elisabetta Belloni, ha convocato al Ministero questa mattina - su istruzioni del Ministro Luigi Di Maio - l'Ambasciatore della Federazione Russa presso la Repubblica Italiana, Sergey Razov.

"Confermiamo il fermo il 30 marzo a Roma di un funzionario dell'ufficio dell'Addetto Militare. Si verificano le circostanze dell'accaduto. Per adesso riteniamo inopportuno commentare i contenuti dell'accaduto. In ogni caso ci auguriamo che quello che è successo non si rifletta sui rapporti bilaterali tra la Russia e l'Italia". Lo riferisce in una nota l'ambasciata russa a Roma.

"In occasione della convocazione al Ministero degli Affari Esteri dell'ambasciatore russo in Italia, abbiamo trasmesso a quest'ultimo la ferma protesta del governo italiano e notificato l'immediata espulsione dei due funzionari russi coinvolti in questa gravissima vicenda. Ringrazio la nostra intelligence e tutti gli apparati dello Stato che ogni giorno lavorano per la sicurezza del nostro Paese". Lo scrive su Fb il ministro degli Esteri Luigi Di Maio.

La cessione di documentazione classificata da parte di un ufficiale italiano a un ufficiale delle Forze Armate russe di stanza in Italia "è un atto ostile di estrema gravità" per il quale "abbiamo assunto immediatamente i provvedimenti necessari". Lo ha detto il ministro Di Maio durante una comunicazione al Senato. "Su mie istruzioni - ha ricordato Di Maio - , la Segretario Generale Belloni ha convocato al Ministero questa mattina l'Ambasciatore della Federazione Russa Razov per trasmettere con forza la nostra ferma protesta e notificare l'espulsione di due funzionari russi accreditati presso l'ambasciata a Roma. 

Russia e Cina "sono attori che hanno sistemi politici e valori diversi dai nostri", da cui "provengono anche sfide, e talvolta minacce. Lo dimostrano le accuse di spionaggio nei confronti degli ufficiali italiani e russi", ha aggiunto il ministro. Allo stesso tempo, ha sottolineato, "continueremo ad agire in linea con la nostra collocazione geopolitica e i nostri valori, ma anche a salvaguardare i nostri interessi fondamentali, che richiedono di mantenere un'interlocuzione critica ma costruttiva con la Russia e la Cina".

La Russia spera che i legami con l'Italia possano essere "preservati" nonostante la vicenda di Roma. Lo auspica il Cremlino citato da RIA Novosti.

"Ci dispiace per l'espulsione da Roma di due dipendenti dell'ambasciata russa. Stiamo approfondendo le circostanze di questa decisione. Faremo un ulteriore annuncio sui nostri possibili passi in relazione a questa misura, che non corrisponde al livello delle relazioni bilaterali". Lo ha fatto sapere all'ANSA il ministero degli Esteri russo.

Mosca dovrà rispondere in modo simmetrico alla decisione di Roma di espellere due diplomatici russi dall'Italia: lo ha detto il vice presidente della Commissione della Duma per gli Affari internazionali, Alexiei Cepa, ripreso dall'agenzia Interfax. "Naturalmente saremo costretti a rispondere in modo analogo. Vi sarà una risposta simmetrica", ha detto Cepa a Interfax.

La decisione delle autorità italiane di espellere i due funzionari russi è infondata e avrà un impatto negativo sulle relazioni italo russe. Lo ha detto il presidente della commissione della Duma per gli Affari Internazionali Leonid Slutsky. "La 'spiomania' è arrivata anche in Italia. L'espulsione dei diplomatici è un passo estremo. Sono sicuro che per questo non vi erano ragioni così forti", ha detto Slutsky a Interfax. A suo parere "un tale gesto non corrisponde ad un alto livello di relazioni bilaterali e, purtroppo, imporrà la sua impronta negativa sul dialogo russo-italiano".

ANSA

sabato 14 novembre 2020

Arrestato l’Idraulico della Lega “Da dove arrivano tutti i soldi?”. - Stefano Vergine

 

Film Commission - Domiciliari al fornitore del partito: gli fatturò oltre 1,5 milioni.

“Questo qui ha fatto lavori per la Lega per due milioni di euro in un anno e mezzo. Questo qui era un idraulico che aggiustava i tubi delle caldaie. Ma come mai?”. L’intercettazione riportata nell’ordinanza con cui ieri il Tribunale di Milano ha disposto gli arresti domiciliari per Francesco Barachetti, piccolo imprenditore bergamasco, non racconta molto più di quanto già noto sulla vicenda della Lombardia Film Commission e dei commercialisti della Lega, ma suggerisce che l’inchiesta della Procura di Milano sulla compravendita del capannone di Cormano potrebbe fare presto un salto di qualità.

Le 69 pagine firmate dal gip Giulio Fanales spiegano che Barachetti ha avuto un ruolo rilevante nell’affare immobiliare insieme ad Alberto Di RubbaAndrea Manzoni e Michele Scillieri, e che c’è il rischio che i reati commessi in quell’operazione vengano reiterati. Secondo la procura di Milano, attraverso la sua principale società, la Barachetti Service Srl di Casnigo, sede a 300 metri dalla casa di Di Rubba, Barachetti ha infatti avuto un duplice ruolo nell’ormai famosa operazione costata 800mila euro ai residenti lombardi. Da una parte lui e la moglie, cittadina russa, hanno beneficiato personalmente dei soldi pubblici pagati dall’ente controllato dalla Regione, intascando 55 mila euro e usandoli quasi tutti per comprare un appartamento a San Pietroburgo. Dall’altra parte, Barachetti ha permesso a Manzoni e Di Rubba, facendo da sponda attraverso un’altra società a lui riconducibile (la Eco Srl), di intascarsi 188mila euro della Fondazione, provvista che i due contabili leghisti hanno prontamente investito in due villette sul lago di Garda.

Fin qui niente di particolarmente nuovo. Barachetti era già indagato per concorso in peculato e false fatturazioni, ma il suo arresto potrebbe spingere l’inchiesta oltre i confini lombardi. Nella richiesta dei domiciliari il procuratore aggiunto Eugenio Fusco e il pm Stefano Civardi non lo citano mai direttamente, ma il partito di Matteo Salvini è il convitato di pietra. Appare solo in quell’intercettazione accennata sopra. È Scillieri a parlare al telefono con Luca Sostegni, presunto prestanome usato nell’operazione Lombardia Film Commission (è in attesa di essere scarcerato):“Questo qui (Barachetti, ndr) ha fatto lavori per la Lega (da intendersi il partito politico Lega per Salvini Premier, specificano i magistrati) per due milioni di euro in un anno e mezzo. Questo qui era un idraulico che aggiustava i tubi delle caldaie. Ma come mai?… Com’è che Di Rubba ha messo su un autosalone di macchine di lusso poco lì accanto a Barachetti che ha comprato un edificio dove ha fatto la sede grandiosa della sua società? Ma da dove arrivano i soldi? Ma come mai la società di noleggio auto ha fatturato quasi un milione di euro alla Lega in un anno?”.

Così Scillieri, che dovrebbe essere interrogato nei prossimi giorni per la seconda volta, potrebbe confermare quanto contenuto in alcune segnalazioni di operazione sospetta richieste alla Uif di Banca d’Italia dalla procura di Genova, che indaga da tempo per il presunto riciclaggio dei 49 milioni di euro della Lega. Le movimentazioni bancarie dicono infatti che Barachetti ha incassato molti soldi negli ultimi anni dal partito di Salvini e dalle sue società. Solo tra il 2016 e il 2018 la Barachetti Service ha fatturato circa 1,5 milioni di euro alla galassia leghista. Numeri da capogiro per l’idraulico di Casnigo, che da quando è diventato fornitore del partito ha visto schizzare verso l’alto il suo giro d’affari. Specializzata in impianti idraulici ed elettrici, la Barachetti Service è passata da un fatturato di 282mila euro nel 2011 a 2,1 milioni nel 2017, fino ai 4,3 milioni del 2019. Barachetti Service ha incassato soldi dalla Lega a fronte di fatture per lavori vari, e poco dopo li ha girati a società riconducibili a Di Rubba e Manzoni. Proprio come avvenuto nel caso della Lombardia Film Commission. Uno schema che sembra interessare anche i magistrati di Milano.

Ieri, mentre venivano disposti i domiciliari per l’imprenditore bergamasco, la Guardia di finanza del capoluogo lombardo ha infatti perquisito anche i rappresentanti della Sdc Srl, società emersa più volte nelle trame finanziarie leghiste. Negli ultimi anni la Sdc ha ricevuto infatti parecchi bonifici dal partito, e ha poi girato buona parte delle somme ai soliti Di Rubba e Manzoni. Non solo. In un solo anno, tra il 2016 e il 2017, anche il tesoriere e parlamentare della Lega Giulio Centemero ha ricevuto denaro dalla Sdc: 61.990,40 euro, con motivazione “saldo fatture”. I documenti sequestrati ieri alla società potrebbero permettere ai magistrati di capire meglio quali prestazioni ha fornito Centemero, il fedelissimo di Salvini.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/14/arrestato-lidraulico-della-lega-da-dove-arrivano-tutti-i-soldi/6003382/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=oggi-in-edicola&utm_term=2020-11-14

giovedì 29 ottobre 2020

SOLDI SOLDI SOLDI...... - Rino Ingarozza

Il governo ha emanato il decreto ristoro. Tutti gli interessati riceveranno una somma in denaro, a fondo perduto.

Tutti riceveranno qualcosa (una bella somma, direi).
I baristi 3.000 euro, i ristoratori 5.000 e così via, tutte le categorie.
3.000 e 5.000 euro per qualche ora di chiusura. Certamente quelle dei ristoratori sono ore significative, in quanto quelle serali e quindi quelle della cena ed è giusto che prendano qualcosa in più.
Tutto giusto. Giustissimo.
Vedo, però, che ancora ci sono delle lamentele. Mi chiedo e chiederei a loro: sono pochi? Caro barista, sono pochi 3.000 euro netti? Per qualche ora di chiusura? Mio padre aveva un bar e, sinceramente, non me li ricordo dei guadagni così. Saranno cambiati i tempi. Allora se si spende così tanto ad aperitivi e caffè, non è vero che si sta così male. Meglio così. Abbiate un po' di pazienza, lo Stato non può darvi di più, evidentemente. Non ci sono tutti questi soldi. Ve ne può dare una parte. La pandemia finirà (intanto lo Stato vi sta dando le risorse per poterci arrivare, alla fine della crisi) e quando tutto questo finirà, ritornerete a guadagnare i ......quanto? Diecimila, quindicimila euro al giorno? Vi auguro anche di più. Per voi e per lo stato, cosi incasserà bei soldini con le vostre tasse. Perché voi siete delle persone per bene e fatturate tutto, dichiarate tutto. Vero?
La mia non vuole certo essere una critica ai vostri guadagni, ma una domanda ve la voglio fare, a voi e a quei politici che, giustamente, vi difendono, dicendo che vi si deve aiutare.
C'è gente che andava alla caritas per mangiare. Lo faceva perché aveva perso il lavoro, non riusciva a trovarne un altro. Intere famiglie senza reddito, che erano costrette a rovistare nel bidone dell'immondizia. Padri di famiglia accettare lavori degradanti, sottopagati e in nero, per portare qualche euro a casa, magari per comprare delle medicine (e sono sempre di più) che il servizio sanitario non passa più.


Poi, finalmente, una forza politica, si è posta il problema. Si è chiesta come avrebbe potuto aiutare questa gente (in perenne pandemia economica) e, una volta al governo, ha fatto il reddito di cittadinanza.
La domanda è:
Perché voi e i politici, di cui sopra, l'avete selvaggiamente criticata?
Perché avete sempre detto che 400, 500, 600 euro erano dei soldi dati in modo assistenziale a dei parassiti?
Perché, signori?
Non hanno, forse, anche questi una famiglia da sfamare?
Non hanno diritto ad un reddito, che il lavoro non può loro assicurare?
Sono, forse, figli di un Dio minore?
O forse perché chi ha la pancia piena non può credere che ci sia gente digiuna?
O, ancora, forse perché queste persone non sono mai scese in piazza, per protestare?
I poveri vivono con dignità la loro condizione. Vedo gente ai supermercati che danno la tessera del RDC, di nascosto, cercando di non farsi vedere dagli altri. Quasi come se fossero dei ladri.
E questa gente è la prima che vi dà la loro solidarietà. Perché sa cosa vuol dire non avere un euro per comprare il latte al figlio piccolo.
Ravvedetevi, vi prego. Date il giusto peso al denaro. C'è gente che non sa nemmeno com'è fatto.
La pandemia finirà (come ho detto prima) e voi ritornerete più forti di prima. Gli ultimi, invece, resteranno sempre ultimi. Un giorno il RDC finirà di essere erogato. Andrà al governo la destra dei "padroni" e di " chi se ne frega degli ultimi" e allora, mentre voi servirete il millesimo aperitivo, ci sarà gente che riprenderà ad aprire i cassonetti.
Siate bravi, almeno, metteteci qualche cosa di più, dentro.

sabato 12 settembre 2020

Quella cena romana a maggio tra Salvini, Calderoli e Manzoni. - Davide Milosa

 Quella cena romana a maggio tra Salvini, Calderoli e Manzoni

Cena romana tra i vertici della Lega e uno dei commercialisti arrestati giovedì a Milano. Tavolo per quattro. Si discute di soldi e di un direttore di banca amico sulla via del licenziamento. L’annotazione della Guardia di finanza è del 29 maggio ed è agli atti dell’inchiesta Film Commission coordinata dal procuratore aggiunto Eugenio Fusco e dal pm Stefano Civardi. Al tavolo è presente il professionista Andrea Manzoni, amico di università del tesoriere del Carroccio Giulio Centemero. Siedono poi il capo del partito Matteo Salvini, il vicepresidente del Senato nonché coordinatore delle segreterie nazionali della Lega Roberto Calderoli e il senatore bresciano Stefano Borghesi, eletto nel 2018, commercialista di professione e già socio di studio con Manzoni, Alberto Di Rubba, altro indagato nell’indagine, e lo stesso Centemero.

La cena, stando alle indagini, si svolge tra il 24 e il 26 maggio. Al centro dell’incontro il futuro di Marco Ghilardi, amico di Di Rubba (che in passato aveva lavorato in banca e proprio alle dipendenze di Ghilardi). Ghilardi, dopo una contestazione disciplinare da parte dell’istituto bancario dove lavora, rischia il licenziamento da direttore della filiale di Ubi Banca di Seriate, Bergamo. La sua cacciata è legata al fatto di non aver segnalato alcune operazioni sospette relative a conti di società riconducibili a Di Rubba e Manzoni presso la stessa banca di Seriate. Operazioni anomale che erano state oggetto di alert da parte dell’Uif di Bankitalia già nel 2019. Su quei conti, secondo le indagini, in sei anni sarebbero passati circa 2 milioni di euro. Sempre Ghilardi (che non è indagato), subito dopo il 2015 era stato contattato dagli stessi commercialisti per aprire nella sua filiale conti dedicati alle articolazioni regionali della nuova Lega di Salvini il cui primo indirizzo è risultato identico a quello dello studio di Michele Scillieri, altro commercialista coinvolto nell’indagine. L’operazione dei conti associati alle leghe regionali, si ragiona in Procura, sarebbe stato un modo per creare casse esterne e così sottrarre i soldi del partito al rischio di sequestro collegato all’inchiesta della procura di Genova sui 49 milioni di rimborsi elettorali spariti. Quell’operazione però non andò in porto perché bloccata dai vertici di Ubi.

I soldi, dunque, sono il piatto forte della cena romana alla quale partecipa anche Salvini che, come Calderoli e Borghesi, non è al momento indagato. Il racconto della cena emerge, a quanto risulta al Fatto, dalle intercettazioni e dall’analisi dei tabulati. I brogliacci colgono la preoccupazione – riferita dagli indagati, intercettati anche col trojan – dei vertici del partito per le vicende della filiale Ubi di Seriate. L’affare è tanto delicato da scomodare per questo incontro riservato e lontano da luoghi istituzionali lo stesso Salvini.

Marco Ghilardi, dopo quella cena, sarà licenziato e i commercialisti della Lega si adopereranno per fargli avere un avvocato importante. L’episodio della cena sposta l’indagine oltre il recinto tracciato della vicenda Film Commission. Tra una portata e l’altra, infatti, il tema non sono solo i soldi, ma quel flusso di denaro che la stessa Unità di informazione finanziaria (Uif) presso la Banca d’Italia aveva segnalato un anno prima. Del resto, già Andrea Manzoni nelle sue spontanee dichiarazioni del 3 settembre aveva spiegato come era stato il tesoriere della Lega Giulio Centemero (non indagato, ma imputato per finanziamento illecito in un’altra inchiesta milanese, relativa all’associazione Più Voci) a coordinare la nomina di Di Rubba alla presidenza della fondazione regionale Lombardia Film Commission. Particolare confermato in un verbale dall’ex assessore regionale alla Cultura Cristina Cappellini. La vicenda che riguarda l’acquisto di un immobile da 800mila euro con soldi pubblici, amministrati allora da vertici regionali leghisti, è solo un capitolo di una romanzo più ampio. Che si svolge tra Roma, Milano, Bergamo e la Svizzera, dove la Procura sta tentando di tracciare i soldi riferibili al prestanome Luca Sostegni, arrestato a luglio. Per Sostegni, parte di quel denaro sarebbe servito per la campagna elettorale del partito. Particolare non confermato dai pm. Bisogna dunque continuare a cercare. Di certo tutto il risiko, Film Commission e presunte casse esterne, non era sconosciuto a Salvini durante quella cena romana.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/09/12/quella-cena-romana-a-maggio-tra-salvini-calderoli-e-manzoni/5928999/

venerdì 7 agosto 2020

Soldi mai spesi, bonifiche ferme e rimpallo di responsabilità: e Brindisi è ancora (troppo) inquinata. - Maria Cristina Fraddosio

Soldi mai spesi, bonifiche ferme e rimpallo di responsabilità: e Brindisi è ancora (troppo) inquinata

Una delle più ampie discariche di scarti industriali - con un danno ambientale stimato in 200 milioni di euro - è da trent'anni in attesa di una soluzione. Ma finora si sono registrati solo tumori, malattie cardiovascolari e respiratorie e malformazioni alla nascita.
Era l’8 marzo 1959 quando l’allora presidente del Consiglio, Antonio Segni, si recò a Brindisi, in Puglia, per deporre la prima pietra del polo petrolchimico di proprietà della società Montecatini. Disse che quella doveva essere “una pietra lanciata in uno stagno che (avrebbe dovuto allargarsi, ndr) in cerchi di benessere”. Nessuno immaginava che quell’area si sarebbe trasformata in una delle più grandi discariche di scarti industriali. Nel ’61 gli impianti entrarono in funzione. Veniva trattato il petrolio grezzo e si avviò la produzione di materie plastiche. Nel frattempo i rifiuti venivano sversati in prossimità degli impianti, nell’area a ridosso del mare che successivamente prese il nome di Micorosa dall’azienda subentrata in uno degli innumerevoli passaggi societari.
Fanghi di idrossido di calcio, acetilene, cloruro di vinile, dicloroetano si accatastarono al suolo, compromettendo anche la falda. Ma il sogno industriale continuò, fino al boato che la notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1972 stravolse la città. Lo scoppio dell’impianto di cracking causò la morte di tre operai e 50 feriti. Negli anni gli impianti passarono di società in società, ovvero da Edison a Eni, con un breve intervallo nel ’92 della srl Micorosa, poi fallita. Nel ’90 Brindisi fu dichiarata area ad alto rischio di crisi ambientale. Qualche anno dopo i nomi di circa 200 operai morti di cancro finirono agli atti della Procura. Il processo al petrolchimico durò un decennio e si concluse con l’archiviazione per l’infondatezza della notizia di reato (Allegato 3).
Il piano di risanamento (Allegato 1) e l’istituzione del Sito di interesse nazionale vennero approvati nel ’98. La perimetrazione per la bonifica fu fatta nel 2000 e incluse più di 11mila ettari, 5.700 di terra e 5.600 di mare. Ad oggi la caratterizzazione, ovvero la ricostruzione dettagliata della contaminazione, risulta effettuata per l’89% e i progetti di messa in sicurezza approvati riguardano il 16% della falda e il 12% della terra. In entrambi i casi si è concluso meno del 10%. All’interno del Sin vi è l’area industriale, il porto, 30 chilometri quadrati di costa, il petrolchimico e la centrale termoelettrica a carbone Enel di Cerano. Vi è pure un’ampia zona agricola, attraversata dall’asse attrezzato per il trasporto del carbone, che è stata oggetto di una lunga vicenda giudiziaria. E un Parco naturale regionale “Saline di Punta della Contessa”, istituito nel 2002, al cui interno c’è la discarica Micorosa. Un paradosso venuto alla ribalta nel 2014.
In quest’area di circa 50 ettari, l’unica al momento soggetta a bonifica, che in realtà consiste in un confinamento dei rifiuti, si calcolano 1,5 milioni di metri cubi di fanghi a cielo aperto fino a 5 metri di profondità. Con l’Accordo di Programma del 2007 (Allegato 4) si decise che lo Stato avrebbe realizzato la messa in sicurezza “rivalendosi sui soggetti obbligati che non vi provvedano direttamente o non richiedano di usufruire dei benefici del presente accordo”. Si stimò un danno ambientale di 200 milioni di euro, 135 sarebbero serviti per gli interventi di risanamento. Il costo sarebbe stato ripartito tra le società sulla base delle superfici di cui erano proprietarie e del livello di contaminazione. Le somme sarebbero state corrisposte al ministero dell’Ambiente “in 10 anni senza interessi”. “Vorremmo avere un chiarimento su dove siano finite, dovrebbero ammontare a 70 e 80 milioni,”, annuncia il sindaco di Brindisi e presidente della Provincia, Riccardo Rossi. Anche Il Fatto Quotidiano ha chiesto lumi al ministero, ma né il ministro Sergio Costa, né il sottosegretario Roberto Morassut si sono espressi. All’accordo del 2007 è seguita una convenzione tra Regione, Ministero e Sogesid, la società in house del suddetto dicastero, a cui è stata affidata la redazione dello studio di fattibilità, il progetto preliminare e il progetto definitivo della bonifica di Micorosa.
Nel 2013 a Brindisi vengono destinati 40 milioni di euro. Con lo Sblocca Italia diventano 48,6. Nel 2015 altri 25. Tutti fondi pubblici da recapitare al Comune attraverso la Regione. In città – dichiara il responsabile unico del procedimento, l’ingegnere Gaetano Padula – “ne sono arrivati 4, non ancora spesi del tutto”. L’unica società, proprietaria di 323 ettari di Sin di cui un centinaio all’interno del petrolchimico, che sta eseguendo la messa in sicurezza a proprie spese nell’area esterna a Micorosa, è Eni (Allegato 5). “Le operazioni di risanamento – fa sapere il colosso petrolifero – hanno raggiunto un avanzamento complessivo pari a circa il 65%. L’impegno economico sostenuto è pari a circa 90 milioni di euro. Si prevede il completamento della bonifica della falda tra circa 10 anni e del progetto Micorosa in 2”.
Una battuta d’arresto, però, potrebbe essere causata dallo stop ai lavori nella parte interna a Micorosa, gestita dallo Stato, giacché le operazioni di risanamento dovrebbero procedere di pari passo. Il contratto tra il Comune e il consorzio Co.me.ap, che si è aggiudicato la gara d’appalto nel 2014, è stato rescisso dal primo il 14 luglio. Sulla società aggiudicataria le polemiche non si sono mai placate. Ha fatto molto discutere quel 74% di ribasso con cui è stata scelta: la bonifica è stata aggiudicata per 17.637.966 di euro. “Abbiamo mandato tutto alla Procura e lo abbiamo segnalato all’Anac”, fa sapere Doretto Marinazzo, presidente di Legambiente Brindisi (Allegato 9). L’associazione ambientalista aveva espresso perplessità anche sulle spettanze del Comune e della Sogesid. Ambedue oggi sono considerati dal consorzio i responsabili del ritardo dei lavori, che non raggiungo il 10%: “C’è un errore nel progetto – avverte il Co.me.ap – la quantità di materiale per stabilizzare i rifiuti è inferiore a quella necessaria”. Ma Sogesid che l’ha realizzato assicura: “Il progetto definitivo è passato al vaglio della segreteria tecnica bonifiche del ministero dell’Ambiente”. Le motivazioni sono anche altre: “Abbiamo contestato alla stazione appaltante (ovvero il Comune, ndr) – chiarisce il consorzio – di non poter riprendere i lavori per i mancati piani di sicurezza conformi al Covid. Abbiamo fatto un’azione civile per inadempimento contrattuale”. La versione del Comune è diversa: “Dopo aver appreso che il costo del telo di copertura era sottodimensionato e che i volumi di terreno vegetale sono mutati, ci siamo visti notificare un ricorso – spiega Gaetano Padula – la nostra attività è monitorata dal Noe, abbiamo fatto un ordine di servizio paventando il reato di omessa bonifica e abbandono di cantiere”. Ora toccherà interpellare le altre società che avevano partecipato alla gara, per capire se vi sia disponibilità a lavorare con lo stesso ribasso.
Nel 2013 la Provincia ha stabilito che Edison, Eni, le sue due controllate Versalis e Syndial, e la curatela fallimentare Micorosa Srl avrebbero dovuto “attuare le misure di prevenzione necessarie” e procedere alla bonifica (Allegato 6). Tutti hanno presentato ricorsi al Tar di Lecce, che li ha accolti: la discarica è di competenza ministeriale, ma “è corretto affermare che sussiste la responsabilità delle imprese” (Allegato 7). L’unica a vederselo respinto è stata Edison, che nel 2014 si è appellata al Consiglio di Stato che ancora non si è espresso (Allegato 8). Al Fatto il colosso dell’energia ha chiarito: “L’area è nella proprietà, disponibilità e gestione delle società del Gruppo Eni”. Nel 2013 cinque cittadini che riconducono le loro patologie all’esposizione a idrocarburi policiclici aromatici hanno presentato un esposto contro Eni e Montedison, con successiva integrazione. Le indagini sono ancora in corso. Nel 2014, anche il comitato No al carbone e il Forum nazionale dei movimenti per l’acqua si sono rivolti alla Procura e hanno pubblicato un dossier (Allegato 12).
I rifiuti, anche a lavori di confinamento ripresi, resteranno comunque lì perché – spiega il primo cittadino – “costa troppo rimuoverli e non si saprebbe dove portarli”. Dopo anni di incertezze i dati sullo stato di salute della popolazione parlano chiaro. Li si possono consultare nell’ultimo rapporto del Progetto Sentieri, lo studio epidemiologico nazionale (Allegato 10), nello Studio di coorte del 2017 e all’interno della ricerca “Congenital anomalies among live births in a polluted area. A ten-year retrospective study”. Tumori, malattie cardiovascolari e respiratorie, malformazioni alla nascita sono alcune delle incidenze rilevate. Ci sono familiari, come Rosangela Chirico, che non hanno mai smesso di lottare nelle aule dei tribunali.