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venerdì 17 ottobre 2025

Un nuovo farmaco fa regredire i tumori. Successo su modelli animali, ecco lo studio. Arianna Bordi

 

Una notizia che scuote il panorama oncologico: un farmaco di ultimissima generazione, concepito per agire come un cecchino, colpendo unicamente le cellule malate, ha conseguito successi clamorosi nei saggi preclinici.

Scopriamo di più.


I dettagli dello studio.

L'eccezionale scoperta è il risultato di una sinergia globale che ha visto uniti giganti della ricerca come il Children’s Hospital di Philadelphia, l’Università di Pittsburgh e l'eccellenza italiana rappresentata dall’Università di Bologna e l’Irccs Policlinico di Sant’Orsola.

risultati della ricerca sono sbalorditivi: si parla di una completa regressione del tumore in modelli animali e non solo per rari tumori pediatrici come il neuroblastoma e il rabdomiosarcoma, ma anche per il tumore del colon, una delle neoplasie più diffuse.

Il cuore di questa innovazione risiede in un trattamento appartenente alla categoria degli anticorpi-coniugati, i veri "farmaci intelligenti" perché combinano la mira laser di un anticorpo, capace di riconoscere il bersaglio, con la forza distruttiva di molecole chemioterapiche; in pratica la "bomba" chimica viene veicolata esclusivamente verso le cellule cancerose, garantendo l'integrità dei tessuti sani.


Un approfondimento sul farmaco.

L'architettura del farmaco, denominato Cdx0239-Pbd, è stata studiata per intercettare un recettore chiave,  ossia Alk (Anaplastic lymphoma kinase), una bandiera rossa sulla superficie di molte cellule tumorali, mentre risulta praticamente invisibile nei tessuti normali.

La storia di questa scoperta parte da lontano: “Nel 2020, quando insieme a Martina Mazzeschi, ricercatrice all'Irccs Policlinico Sant’Orsola, abbiamo iniziato a concentrarci sull’identificazione dell’Alk (Anaplastic Lymphoma Kinase)”, racconta Lauriola.

Dunque, un recettore che si è rivelato il "tallone d'Achille" ideale: si trova in abbondanza sulle cellule di tumori pediatrici rari e in alcuni sottotipi di tumore del colon, ma è quasi assente nei tessuti sani.

“Le nostre analisi confermano che Alk è un target molto promettente anche nel tumore del colon”, aggiunge Martina Mazzeschi, ricercatrice all’Irccs Policlinico di Sant’Orsola. “Se nel neuroblastoma era già noto, ora vediamo un’espressione significativa anche in alcuni sottotipi di carcinoma colorettale”.

Il meccanismo è implacabile: l'anticorpo-coniugato si aggancia ad Alk, scarica la sua molecola tossica all'interno della cellula maligna, decretandone la morte: nei modelli testati, infatti, il tumore non solo è scomparso totalmente, ma non ha mostrato segni di recidiva dopo la fine della cura.


Dalla ricerca alla speranza clinica.

Dalla collaborazione con il laboratorio del Children’s Hospital di Philadelphia, che aveva già sviluppato un anticorpo-coniugato per le neoplasie infantili, il team italiano ha portato la sua competenza: “Il nostro contributo è stato proprio quello di utilizzare lo stesso farmaco ma su modelli di cancro al colon”, una neoplasia con circa 50.000 nuovi casi annui, la seconda per incidenza in Italia.

I risultati ottenuti sono risolutivi: “Nei modelli animali la totalità dei tumori è scomparsa dopo il trattamento”. Ora, dunque, l’impegno è focalizzato sull'ottimizzazione per avviare la sperimentazione clinica sull'uomo, un passaggio che Lauriola auspica possa avvenire rapidamente, soprattutto negli Stati Uniti.

La soddisfazione è grande: “Il farmaco rappresenta un passo avanti significativo verso terapie personalizzate: siamo al lavoro per ampliare il numero di tumori solidi che possono essere trattati, mitigando allo stesso tempo i meccanismi di resistenza all’azione del farmaco.”

“Questi risultati aprono la strada a terapie di nuova generazione, più efficaci e meno tossiche”, spiega con entusiasmo Mattia Lauriola, professoressa di Istologia all'Alma Mater e coautrice dello studio. “L’obiettivo è sostituire, quando possibile, la chemioterapia tradizionale con una “chemioterapia di precisione”.

L'ottimismo è palpabile tra i ricercatori: questa strategia mira a diventare una risorsa fondamentale contro una vasta gamma di neoplasie, inclusi i devastanti tumori pediatrici e il colon-retto, prospettando un futuro di terapie mirate, finalmente meno invasive e significativamente più risolutive.

https://www.pazienti.it/news-di-salute/un-nuovo-farmaco-fa-regredire-i-tumori-successo-su-modelli-animali-ecco-lo-studio-16102025

martedì 26 marzo 2024

Atlantide

 

La ricerca di Atlantide è andata ben oltre le antiche conoscenze lasciate da Platone. Molti ricercatori oggi continuano a sfogliare gli archivi, mentre altri effettuano esplorazioni alla ricerca di quella terra mitica che sarebbe diventata lo stato più potente in un remoto passato . Studi approfonditi sulle antiche piramidi egiziane e su altre grandiose strutture suggeriscono che furono costruite molto prima di quanto si crede comunemente. Inoltre, alcuni archeologi sostengono che geroglifici, affreschi, simboli e disegni furono applicati agli edifici nel secondo o terzo millennio a.C., mentre le strutture stesse potrebbero avere circa 20mila anni. L’erosione dell’acqua e del vento, ha contribuito a trarre tali conclusioni, che non potrebbero essere raggiunte nelle moderne condizioni climatiche. Un tempo il territorio del Nord Africa era un fiorente paradiso, con enormi città sparse sul territorio. Erodoto e Tolomeo ne menzionarono l'unicità, Lawrence d'Arabia voleva trovarlo, ma non ebbe il tempo di realizzare il suo sogno. Si diceva che fosse bello e coinvolgente, come "un pezzo di paradiso in terra". In essa vissero e operarono saggi e astrologi, Esculapio e alchimisti. Questo paese era un vero paradiso. Una conferma indiretta di ciò, può essere trovata nelle raccolte arabe di antiche leggende. Ad esempio, in Libia fino al 2013 esisteva un trattato che descriveva la vita dei locali vissuti nel XII millennio a.C. 

A causa delle ostilità nel paese, questo e molte altre reliquie furono distrutte o rubate. Un quadro simile è stato osservato in Iraq, Siria e altri paesi di questa regione. Durante i combattimenti in questi paesi, è stato osservato l'intaglio intenzionale di antichi manufatti. Alcuni di loro furono salvati e altri andarono perduti per sempre. Si ritiene che in un lontano passato esistesse un potente stato arabo sul territorio della penisola arabica e del Nord Africa. Secondo varie fonti, fu qui che l'umanità imparò per la prima volta la metallurgia, e la gioielleria e che la medicina era in anticipo di diversi millenni sui tempi. Non sorprende che trovino sepolture di persone con protesi, teschi con evidenti segni di trapanazione e denti curati, dai 6 ai 10 mila anni fa. L'Atlantide araba era abitata dagli Aditi che, secondo le leggende, erano discendenti diretti di Noè . Sul territorio dei moderni paesi arabi si trovano antichi insediamenti. L'intero mondo antico sapeva che non esisteva altro luogo dove si producevano resine aromatiche e incensi meravigliosi. La vita dei cittadini era straordinaria e misteriosa. Si diceva che conoscessero i riti della resurrezione dai morti. Come i leggendari Atlantidei , sapevano volare, conoscevano il segreto dell'eterna giovinezza. Inoltre, gli abitanti di questa regione erano impegnati nell'estrazione e nel commercio dell'ambra e dei suoi prodotti, che si trovavano in grandi quantità solo in questi luoghi ed erano molto richiesti dagli antichi. In termini di valore, l'ambra a quei tempi era valutata più dell'oro. Le fotografie scattate dai satelliti della NASA, hanno confermato che tra le sabbie arabe esistevano davvero delle città. Gli archeologi nello studiare le immagini satellitari, hanno notato la convergenza di linee sottili, nonché segni di strutture nascoste sotto le dune di sabbia. All'inizio degli anni '90, le prime pagine dei principali giornali del mondo erano piene di resoconti di una importante scoperta archeologica. I rapporti affermavano che era stata trovata Iram la maestosa città araba "l'Atlantide delle sabbie". Gli antichi trattati arabi parlavano di città maestose. Un gruppo di ricerca canadese è giunto alla conclusione che i deserti non si formano dal nulla. Questo è il risultato di una potente esplosione. Cioè, si può immaginare che una volta qui esistesse un vero centro culturale, lo stato più ricco e avanzato in vari settori. Se prendiamo in considerazione tale teoria, allora possiamo supporre che questa civiltà non fosse l'unica sulla Terra e che l'emergere di uno o più forti concorrenti porti a inevitabili rivalità. Il paradiso arabo è stato distrutto da un'arma potente . Decine delle città più belle si trasformarono immediatamente in polvere. I giardini divennero una terra desolata senza vita. Le sabbie ed il tempo, nascondono le ricchezze di una grande civiltà. Dopo diverse migliaia di anni, le persone tornarono in queste terre e fondarono nuovi paesi. Le strutture più persistenti dell'Atlantide araba (il termine è stato dato da ricercatori americani) si sono rivelate delle piramidi . Furono queste ad essere le prime a essere portate alla luce dagli egiziani per far rivivere la grandezza perduta. Orientalisti e ricercatori del mondo arabo, che riuscirono a studiare un po' le fonti primarie e i materiali dell'antichità, giunsero alla conclusione che una volta nei territori sopra descritti esisteva uno stato potente. Ciò che sono riusciti a portare alla luce e a restaurare non è più dell’1% di quella grande civiltà, che ora riposa sotto milioni di tonnellate di sabbia. E forse lì da qualche parte, sotto uno strato di sabbia, un giorno ritroveranno la sorgente dell'eterna giovinezza, che, secondo le leggende arabe e l'onnipresente Erodoto, era proprietà degli Aditi. Questo è solo l’inizio del grande lavoro che attende gli scienziati in futuro. Ci sono ancora molti misteri, e il mistero è solo leggermente socchiuso. 

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domenica 21 maggio 2023

VIVIAMO IN UN “UNIVERSO VIVO” O IN UN “UNIVERSO MORTO”?

 

Viviamo in un Universo vivo o in un Universo morto? Fino a poco tempo fa i fisici hanno trattato l’Universo come qualcosa di morto, inanimato, composto da semplici minerali e gas che si muovevano da una parte all’altra senza uno scopo. Questo modello di Universo derubrica la “Vita” quasi a un “incidente di percorso”, qualcosa di insignificante, che poteva esserci o non esserci senza fare alcuna differenza. Nei modelli dell’Universo del secolo scorso il problema “Vita” non era minimamente contemplato.

Ora diventa sempre più evidente che in questa vecchia concezione dell’Universo è stato commesso un errore grossolano. Nel maggio 2001, due ricercatori dell’università “Federico II” di Napoli, Bruno D’Argegno, docente di geologia e Giuseppe Geraci, docente di biologia molecolare, annunciarono che in alcune meteoriti vecchie di 4,5 miliardi di anni erano presenti tracce di organismi che possono essere batteri o i loro “cugini”, gli “archea”. Consideriamo quanti pochi asteroidi e comete siamo stati in grado di analizzare, e da quanto poco tempo lo facciamo. Nonostante questo, abbiamo trovato molte tracce di batteri. Se paragoniamo questo con i miliardi di miliardi di meteore e comete che fluttuano nello spazio, è evidente che l’Universo brulica di batteri che usano le comete come una sorta di “autostop”.

Tutto questo porta molti famosissimi ricercatori a pensare che nell’Universo la Vita è tutt’altro che un “incidente” avvenuto solo sulla Terra. Nell’Universo la Vita è la regola. Quindi non si può parlare più di un Universo “morto”, ma di un Universo “vivo”. Ma se l’Universo è vivo, allora tutti i vecchi modelli di Universo sono sbagliati, o come minimo, parziali. Questo perché in questi vecchi modelli, l’elemento “Vita” non è mai stato preso in considerazione come “fondamentale”.

Prendiamo ad esempio la domanda: “Come si diffonde la vita nell’Universo”? Secondo la fisica attuale, nulla si può spostare a velocità maggiore della luce. Ma questo vorrebbe dire che se volessimo percorrere da capo a capo il nostro universo al 99,99% della velocità della luce impiegheremmo circa 14.000.000.000 di anni. In pratica noi siamo quasi immobili nell’Universo. Ma se noi siamo immobili, allora vuol dire che la Vita non può viaggiare nell’Universo, restando “viva”. Infatti, è molto probabile che la maggior parte degli esseri viventi, come i batteri, morirebbero durante un viaggio così lungo. Eppure, la Vita viaggia nel nostro Universo, e noi ne abbiamo le prove. Come fa? Da dove viene? Chi o cosa la manda? Evidentemente, qualcosa sul modo stesso in cui noi concepiamo l’Universo è sbagliato, o ci sfugge.

Tra le cose che dovremo rivedere, ad esempio, è l’idea che non esiste nulla che vada più veloce della luce. Infatti, il professor Antonio Ereditato e i suoi collaboratori, sotto il laboratorio CERN del Gran Sasso, sono stati i primi a portare la prova che particelle chiamate “neutrini” viaggiano più veloce della luce. Non appena questi dati verranno convalidati da altri istituti di ricerca, la nostra intera Fisica verrà rimessa in discussione. E la principale obiezione alla spiegazione “dell’Universo vivo” cadrà.

L’articolo continua sul libro:
HOMO RELOADED – 75.000 ANNI DI STORIA NASCOSTA

Puoi trovare una copia del libro a questo link
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https://www.facebook.com/photo/?fbid=618658883629600&set=a.561879272640895

mercoledì 30 marzo 2022

Sanità, scuola, ricerca, fisco e molto altro. Ecco cosa si potrebbe fare con i 13 miliardi che il Governo vuole buttare in spese militari. - Stefano Iannaccone

 

I 13 miliardi di euro previsti per l’aumento delle spese militari sono l’equivalente di una manovra correttiva, anche con un bel peso specifico. I numeri, del resto, parlano chiaro: la somma è un terzo dell’ultima Legge di Bilancio approvata, che – dati alla mano – ha avuto una movimentazione di 40 miliardi di euro complessivi.

Spese militari, mentre l’esercito viene armato fino ai denti, la Sanità viene lasciata senza strumenti per lavorare

Si parla dunque di un gruzzolo di risorse che potrebbe avere numerose destinazioni. Quali? L’elenco è lungo: dalla Sanità al fisco, dalla scuola al welfare. Per non dimenticare le misure contro l’aumento delle bollette che sta funestando i bilanci delle famiglie. Le risorse in più che il governo dei Migliori vuole prevedere per l’acquisto di nuove armi, facendo passare la cifra da 25 a 38 miliardi, sono insomma un tesoretto prezioso.

Per rendere l’idea delle proporzioni: è sei volte e mezzo più grande del fondo previsto, ogni anno, per finanziare degli enti di ricerca, tra cui il Cnr. Ma questo è solo un esempio tra i tanti. Eppure il presidente del Consiglio, Mario Draghi, che pure di professione è economista e sicuramente capace con i numeri, è fermamente intenzionato ad accontentare la Nato, portando le spese militari al 2 per cento del Pil. Un progetto che lo vede andare in tandem, con il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. E in pochi sono davvero pronti a dire no, come fa il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte.

Mentre l’esercito viene armato fino ai denti, la Sanità viene lasciata senza le armi per lavorare al meglio. Il sistema, negli ultimi due anni di pandemia, ha mostrato tutti i suoi limiti. La tenuta è stata possibile solo grazie all’impegno eroico di medici e infermieri. Il Piano nazionale di riprese e resilienza investe sulla salute 15 miliardi e 600 milioni di euro. In pratica l’incremento dei fondi per le spese militari sarebbe equiparabile alle risorse messe a disposizione dal Recovery plan su uno dei capitoli ritenuti fondamentali, specie dopo la tragedia del Covid-19.

Peraltro, già attualmente, per avere una macchina pienamente efficiente, occorrerebbero – stando alle stime della Fnopi (Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche), oltre 63mila infermieri. Ma all’appello mancano già più di 1.300 medici e per il 2027 la prospettiva è quella di 35mila pensionamenti totali, che potranno essere rimpiazzati solo per metà, nella migliore delle ipotesi. Servono dunque forze fresche e per immetterle è fondamentale fornire risorse strutturali. Altrimenti sono dolori, nel vero senso della parola.

Nell’ultima Legge di Bilancio il governo ha realizzato una riforma dell’Irpef. In totale ha speso 7 miliardi di euro per rivedere le aliquote, peraltro avvantaggiando in maniera palese i redditi più alti. Un esempio è arrivato dai dati, forniti dal Mef, sulle pensioni. Su questo specifico capitolo la spesa è stata di 2 miliardi 100 milioni. Per i redditi fino a 15mila euro, praticamente nella soglia di povertà, la riforma ha portato un “guadagno” di 177 euro all’anno, pari a 14,75 euro al mese. Chi ha fatto una dichiarazione tra 50mila e 55mila euro, può contare su un incremento di 744 euro annui.

Rinunciando alle armi si potrebbe prevedere un intervento molto più incisivo sulla tassazione

Un calcolo semplice che dimostra come la rinuncia all’acquisto di bombe potrebbe determinare un intervento molto più incisivo sulla tassazione, magari a sostegno dei più poveri. E che dire poi della delega fiscale, che al di là dell’Irpef è chiamata a ridisegnare l’architrave dell’imposizione sui contribuenti, a cui sono stati destinati solo 8 miliardi? Il lavoro in Parlamento è portato avanti con il bilancino per evitare che qualsiasi misura introdotta dai deputati possa avere un costo per le casse pubbliche. Il mantra, in questo caso, è che non ci sono soldi a sufficienza, così come mancano, a parole, quando si tratta di misure che potrebbero sostenere i redditi bassi.

La questione energetica è esplosa con la guerra in Ucraina. Il governo è intervenuto in due tempi, prima con il decreto bollette, da 7 miliardi di euro, e poi con il decreto energia, da 4 e passa miliardi. Messi insieme non arrivano alla fatidica cifra dei 13 miliardi. Ed è sotto gli occhi di tutti come l’intervento sulla riduzione dei costi del carburante di 25 centesimi sia da considerare alla stregua di una mancetta. Peraltro con l’aggravante che la misura ha un carattere molto limitato nel tempo: il 30 aprile 2022 si torna punto e daccapo.

Bisognerà inevitabilmente reperire nuove risorse, a meno di non dover sottoporre gli italiani a una risalita improvvisa dei costi per fare il pieno di benzina. Perché difficilmente nel prossimo mese la situazione potrà tornare sotto controllo in termini di approvvigionamenti energetici. Anzi l’ipotetico distacco dal gas russo imporrebbe un intervento statale ancora più significativo.

Il caro-energia, con tutti gli annessi, è solo uno dei problemi scoppiati con il conflitto in Ucraina. Le sanzioni inflitte al governo di Mosca hanno messo in affanno intere filiere finite.“La guerra commerciale mette in pericolo le esportazioni agroalimentari Made in Italy in Russia e in Ucraina per un valore che nel 2021 ha superato il miliardo di euro”, ha riferito la Coldiretti. Una contrazione che colpisce in maniera particolare il settore enologico: secondo una stima di Nomisma, nello scorso anno sono stati esportati in Russia vini per 340 milioni di euro, una somma che cresce di altri 60 milioni considerando il mercato ucraino.

Non va poi dimenticato l’export di olio, caffè e pasta. E ancora: la filiera del legno perde qualcosa come 400 milioni di euro con la chiusura dello sbocco russo. Un business che viene a mancare per le aziende italiane e a cui bisogna sopperire in qualche modo. Così come si dovrebbe far riflettere il rincaro delle materie prime per le costruzioni. L’Ance ha evidenziato che il prezzo dell’acciaio “tra novembre 2020 e febbraio 2021 ha registrato un aumento eccezionale pari a circa il 130%”. A rischio ci sono i lavori pubblici, senza un supporto.

Un altro eterno problema italiano riguarda la scuola. Basti pensare all’edilizia scolastica. Secondo quanto riferito da un dossier della Camera, il fondo unico prevede uno stanziamento ulteriore di 500 milioni di euro per gli interventi sugli edifici. Una cifra che è insufficiente rispetto a quanto effettivamente potrebbe servire per garantire una maggiore sicurezza agli studenti. Una ricerca della fondazione Agnelli indica che sarebbero addirittura necessari 200 miliardi di euro per un piano di effettivo ammodernamento. Certo, sarà una stima al rialzo.

Ma un elemento risulta certo: per il triennio 2018-2020, l’investimento sull’edilizia scolastica è stato di 10 miliardi in totale. Non va meglio, poi, se si parla di ricerca. Il Foe (il fondo assegnato agli enti controllati dal Ministero dell’università e della ricerca) è cresciuto nel 2021, ma è fermo a un miliardo e 900 milioni di euro. In confronto al 2011 l’incremento è stato di appena 200 milioni. Per superare la soglia ormai “mitica” dei 13 miliardi che il governo intende investire in spese militari, bisogna mettere insieme le risorse date ai ricercatori in 8 anni.

https://www.lanotiziagiornale.it/sanita-scuola-ricerca-fisco-e-molto-altro-ecco-cosa-si-potrebbe-fare-con-i-13-miliardi-che-il-governo-vuole-buttare-in-spese-militari/?fbclid=IwAR1rfvkKYafVKbMvqS5bEfrHNE74C3FZk_ctzUyiEmYFg1Uz0VZqJRi1_L0

mercoledì 12 maggio 2021

“Ricerca scientifica: non c’è solo la pandemia, c’è anche chi pensa a Marte”. Di Sara Sapienza

 

(Un sagace e interessante commento all’articolo scritto da Sara Sapienza - Fabio Gagliano - Radio Off)

Premetto che anche io mi sono sempre chiesta perché investire tanti soldi su un pianeta che è stato già devastato quando viviamo in un pianeta vivo e fiorente che però stiamo annientando a poco a poco.

Sicuramente tutti gli investimenti per l’esplorazione e la terraformazione di altri pianeti potrebbero essere usati per conoscere ancor meglio e salvaguardare il pianeta che abitiamo (fondali ed abissi marini, creature esistenti ed ancora da scoprire, habitat ed infine -ma non meno importante- investimenti da utilizzare per abbattere la mal distribuzione della ricchezza nel mondo.

In fondo la domanda per me è sempre sorta spontanea: perché volgere il proprio spirito su altri pianeti quando ne abbiamo uno ricco di biodiversità della quale siamo dimentichi di far parte?

La lettura offre un punto di vista inusitato e da non sottovalutare.

La gente vuol sognare, ha bisogno di sognare.

Da sempre l’uomo ha cercato risposte nel firmamento, guardando ammirato la volta celeste , con i suoi segreti.

Nel cielo l’uomo ha ravvisato i propri dei, la propria spiritualità, quindi è ragionevole pensare che l’uomo possa ancora volgere gli occhi, volontà e spirito all’esplorazione di nuovi orizzonti.

È nello spazio che l’uomo come specie sembra volgere i propri bisogni. Nello spazio vasto ed infinito, per cercare risposte a quesiti e domande, per allargare i propri orizzonti come unica specie e magari potrebbe anche comprendere il valore della vita, delle cose, avvicinandosi al “divino”.

Magari una volta partito potrebbe comprendere il vero valore della Madre che ha abbandonato e sfruttato, comprendendo cosa ha realmente lasciato alle proprie spalle.

Tuttavia, è assolutamente ragionevole pensare che ciò possa comportare un pericolo, se ciò dovesse gravare sulle spalle di un pianeta già gravato di un peso non indifferente che è l’uomo stesso. Ragionevole pensare che le prossime esplorazione e terraformazione possano essere proposte da “ricchi” per il servizio di altri “ricchi”… ragionevole pensare che tutto ciò abbia un costo che possa essere pagato non da tutti e che possa essere permesso solo da un sistema di produzione che non farebbe altro che aggravare la disequilibrata situazione economica.

L’esplorazione dello spazio apre un dibattito che ricorda un poco l’arte della filosofia, che aiuta a comprendere meglio ciò che abbiamo intorno, pensandolo, ripensandolo, mettendolo in discussione ed infine, con leggerezza , ironizzando, lasciando le porte aperte a nuove possibilità.

Sara Sapienza 

Origine immagine: WEB

(Un sagace e interessante commento all’articolo, scritto da Sara Sapienza - Fabio Gagliano - Radio Off)

lunedì 4 maggio 2020

L’algoritmo “marino” modificato per dare la caccia al coronavirus. - Alessio Jacona

Nazioni ad alto fattore di rischio stimate (rosso) e vere (pallino viola) ©
Nazioni ad alto fattore di rischio stimate (rosso) e vere (pallino viola)


Un’IA sviluppata dal Cnr-Isti per monitorare le specie ittiche, si rivela efficace nell’individuare potenziali zone ad alto contagio da SARS-CoV-2.

Immaginate che, grazie all’intelligenza artificiale, sia possibile prevedere in anticipo dove una pandemia colpirà con più forza nel mondo. Che si possa cioè individuare su una mappa quali saranno le zone a più alto tasso di contagio e, di conseguenza, sia possibile combattere meglio non solo il virus SARS-CoV-2, ma ogni altra epidemia tra quelle che secondo gli esperti dovremo affrontare nel futuro.
È esattamente questo l’obiettivo con cui Gianpaolo Coro, ricercatore presso l'Istituto di Scienza e Tecnologie dell'Informazione "A. Faedo" del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr-Isti), ha creato e sta sperimentando il “modello globale per predire zone ad alto tasso di contagio per COVID-19”, sistema basato su IA che già oggi ha dimostrato di saper predire con promettente precisione dove il virus farà più danno. E che, un domani, potrebbe consentirci di organizzare per tempo strategie di prevenzione più efficaci, salvando vite ed intere economie con azioni mirate su territori delimitati.
L’importanza (sottovalutata) dei fattori ambientali. Il modello produce una mappa che rappresenta la probabilità, su scala globale, che in un'area sussistano condizioni ambientali e umane che potrebbero favorire una crescita dei contagi di COVID-19. Attualmente la mappa ha una risoluzione di circa 50 chilometri e identifica zone a tasso potenziale alto, medio, basso oppure nullo di crescita dei casi infezione.
Qui la cosa notevole è che l’IA ci riesce combinando in maniera complessa dati ambientali come temperatura, precipitazioni e altitudine con altri fattori relativi all’attività umana quali ad esempio emissioni di anidride carbonica e densità di popolazione.
«Per addestrare l'algoritmo - rivela Gianpaolo Coro - gli abbiamo indicato quali fossero le province italiane con la maggiore diffusione del virus chiedendogli di trovare correlazioni, quindi di proiettarle sul resto del mondo per cercare altri territori con condizioni simili dove il virus potesse proliferare»
Precisione al 77%. Nella prima fase della sperimentazione, quando l’IA prendeva in considerazione parametri come temperatura, precipitazioni e inquinamento da CO2, il sistema ha subito individuato correttamente la regione dell’Hubei (il cui capoluogo è proprio Wuhan, città tristemente nota come epicentro del contagio da SARS-CoV-2) e altri territori in Europa e nell’Ovest degli Stati Uniti.
A oggi, il modello del CNR identifica correttamente oltre il 77% dei paesi che stanno effettivamente riportando un'alta diffusione del virus, rilevando come caratteristiche comuni nelle zone a più alto rischio una temperatura media tra 11° e 12°, una quantità moderata di precipitazioni ed un alto tasso di inquinamento.
Altro dato interessante è che, stando alle risposte fornite dal modello di Gianpaolo Coro, la densità di popolazione è una variabile che non influisce sul tasso di contagio: «il modello indica che, superata una soglia abbastanza bassa di popolosità e con determinate caratteristiche ambientali, il virus riesce ad espandersi senza difficoltà».
Il SARS-CoV-2 come il pesce palla. Può sembrare incredibile, ma l’intelligenza artificiale sviluppata da Coro (e basata su "Maximum Entropy", un principio statistico che consente di trovare le similitudini), potrebbe essere definita di “seconda mano”: «Appena scoppiata la pandemia - rivela infatti il ricercatore - i colleghi della FAO mi hanno suggerito di usare i miei modelli applicati al monitoraggio delle specie marine per provare a prevedere l'andamento dell’epidemia».
Cnr-ISTI e Fao collaborano ormai da tempo a progetti che mirano a migliorare la gestione delle risorse ittiche in mari e oceani. Una partnership regolata dai principi dell’open science, secondo cui gli scienziati condividono in modo aperto e trasparente metodologie, conoscenze, processi, dati e risultati di ogni ricerca, e che ha permesso a Gianpaolo Coro di riutilizzare un modello matematico originariamente realizzato per dare indicazioni precise alla Commissione Europea sui limiti alla pesca in Europa.
«Il mio modello serviva a identificare le nicchie ecologiche e cioè a individuare, data l'osservazione delle abitudini di un certa specie ittica, dove sarebbe andata a stabilirsi», spiega. Oggi è uno degli approcci più utilizzati al mondo, ed è stato usato anche per compiti complessi come prevedere i movimenti del pesce palla argenteo, che infestante e velenoso invade le acque del Mediterraneo passando dal Canale di Suez, e persino del raro e misterioso calamaro gigante, «ma allo stesso modo funziona anche con i virus, che al posto dei luoghi vanno ad infestare le persone».
Estendere il modello. Ora la sfida è lavorare sul modello riconvertito alla caccia del SARS-CoV-2 «per estenderlo e renderlo in grado di individuare altri fattori ambientali che possono causare la diffusione del virus - conclude il ricercatore del Cnr-ISTI - oppure per definire le possibilità che un individuo, data la sua storia medica, possa finire in terapia intensiva».
Intanto il prossimo step sarà aumentare la risoluzione della mappa da 50 a 10 chilometri entro la fine dell’anno, obiettivo che Gianpaolo Coro perseguirà grazie a finanziamenti Europei.
PS. Alessio Jacona - Giornalista, esperto di innovazione e curatore dell’Osservatorio Intelligenza Artificiale ANSA.it

martedì 4 febbraio 2020

Molecola contro osteoporosi, la firma di una ricercatrice barese. - Francesca Di Tommaso

Molecola contro osteoporosi, la firma di una ricercatrice barese
La scienziata barese Maria Grano.

«Ci hanno tenuti sul filo per tre anni. Ma finalmente il brevetto americano è stato concesso». Una gran massa di capelli corvini e due occhi di carbone che brillano emozionati: la scienziata Maria Grano non nasconde la soddisfazione. La «sua» creatura, quella molecola Irisina che sconfigge l’osteoporosi, ha superato l’ultimo ostacolo burocratico per la vendita del farmaco in tutto il mondo.
«Dopo la concessione del brevetto italiano, nel 2016, ed europeo l’anno successivo, è arrivata la concessione statunitense. Dagli Usa ci hanno fatto soffrire: molte obiezioni benché i dati fossero inconfutabili - racconta Grano -. I ricercatori americani tendono a proteggere i brevetti interni. Ed erano un po’ piccati dal fatto che, benché fossero stati loro a scoprire l’Irisina, non avevano colto il suo ruolo primario nella lotta all’osteoporosi. Ora, aver ottenuto il brevetto americano significa che la vendita del farmaco, una volta sviluppato, può avvenire solo pagando il titolare del brevetto, ovvero l'università di Bari. Chiunque lo utilizzi per la cura dell'osteoporosi dovrà prendere accordi e dare le royaltes ad Uniba. Considerando che nel mondo gli osteoporotici sono oltre 200 milioni - continua la scienziata - si tratta di un mercato molto importante».
Maria Grano si è laureata a Bari. Qui dal 1987 si occupa di studi sul metabolismo osseo. Qui, dopo sette lunghi anni di precariato, è diventata ordinario di Istologia ed embriologia nella scuola di Medicina dell’ateneo barese e capo del team di ricerca. Quanti lavorano sull’Irisina? «Silvia Colucci, Giacomina Brunetti, Graziana Colaianni, Lorenzo Sanesi, Giuseppina Storlino, Giorgio Mori. Associati, ricercatori e dottorandi. L’80% donne - sorride Grano - in un laboratorio che lavora dalle nove del mattino alle nove di sera. Con una passione e un entusiasmo sorprendenti». Gli studi proseguono grazie ad un finanziamento regionale nell'ambito di un progetto chiamato «TecnoMedPuglia per la medicina di precisione». La produzione di un farmaco ha un percorso lunghissimo e costosissimo. «In pratica sono sempre in giro a divulgare la ricerca ma soprattutto a raccogliere fondi» chiosa Grano.
Da piccola, la scienziata nata ad Acri ma barese d’adozione, voleva fare il chimico. Nelle sue ricerche, l'Irisina compare nel 2012, quando questa molecola, prodotta dal muscolo durante l’esercizio fisico, viene scoperta da un gruppo di ricercatori di Harvard. E ad Harvard scoprono che Irisina trasforma il grasso bianco, cattivo, in grasso bruno, buono. Negli Usa, si apre così un nuovo mondo per la cura dell’obesità.
Maria Grano, invece, guarda oltre. E scopre che il ruolo principale dell'Irisina non è tanto sul grasso quanto sullo scheletro. Ha un’azione sia preventiva che curativa dell’osteoporosi. Fortifica le ossa, potrà cambiare la vita di anziani e malati che, impossibilitati a muoversi, non producono naturalmente la molecola. Il farmaco «farà attività fisica» al loro posto.
Dal 2000 la Grano coordina progetti di ricerca di Biomedicina spaziale per lo studio dell’osteoporosi e delle funzioni ossee in microgravità, in collaborazione con le Agenzie spaziali Asi, Esa e Nasa. «Gli astronauti, in assenza di gravità, perdono massa ossea e massa muscolare per assenza di peso -spiega la ricercatrice - Lo spazio rappresenta quindi per noi un laboratorio dove studiare l’osteoporosi. Anche perché nello spazio tutto avviene più rapidamente che sulla Terra. Per esempio, la massa ossea che perde un astronauta in un mese equivale più o meno a quello che un paziente, sulla Terra, perde in un anno». Ma le agenzie spaziali, che per un mese hanno ospitato a bordo della stazione spaziale internazionale partita dalla base Nasa di Cape Canaveral un esperimento in presenza di Irisina, sono interessati anche in prospettiva allo sviluppo della missione su Marte che prevede tempi lunghissimi di permanenza nello spazio.
I dati della missione di Cape Canaveral sono stati analizzati «Il lavoro non è stato ancora pubblicato ma vi posso assicurare - conclude Grano - che gli effetti di Irisina sono veramente impressionanti. Le cellule che fanno osso nello spazio senza trattamento si azzerano». L’agenzia spaziale europea ha finanziato un nuovo progetto. Quando si può ipotizzare la produzione del farmaco? «Gli studi su modelli animali di osteoporosi sono promettenti. Ora stiamo procedendo alla produzione industriale di Irisina, perché bisogna produrre una molecola pura, certificata - spiega Grano - Tra studi di tossicità e sperimentazione umana, presumibilmente nel 2025».

lunedì 3 febbraio 2020

Coronavirus, Castilletti all'ANSA: 'Abbiamo cullato il virus'.


Le ricercatrici dello Spallanzani con il ministro Roberto Speranza (da sx Concetta Castilletti, Francesca Colavita, Maria Rosaria Capobianchi).

Ricercatrice dello Spallanzani: 'Gioco di squadra e un po' di fortuna'.

"Abbiamo cullato il virus e abbiamo avuto anche un po' di fortuna". Non si sente aria di protagonismo nelle parole di Concetta Castilletti, la ricercatrice dello Spallanzani che, insieme al team dell'Istituto, primo insieme alla Francia, ha isolato il coronavirus aprendo la strada alla diagnosi e forse anche ad un vaccino.
Concetta ha 56 anni, due figli grandi e una famiglia che la supporta da sempre, a partire dal marito. "Sono abituati a questo genere di emergenze a casa mia - dice - anche perchè io non mi ricordo una vita diversa da questa. E' sempre stato così". Lo Spallanzani è un centro di eccellenza ed è da sempre in prima linea in questi casi.
"Ho vissuto la grande emergenza - dice la responsabile dell'unità operativa virus emergenti che si trova all'interno del laboratorio di virologia dello Spallanzani diretto dalla dottoressa Capobianchi - della Sars, di Ebola, dell'influenza suina, della chikungunya, e insieme ai miei colleghi siamo stati spesso in Africa. E' un lavoro che mi piace moltissimo e non potrei fare altro. Ma la vittoria è di tutto il team. Eravamo tutti impegnati, tutta la squadra. Abbiamo un laboratorio all'avanguardia, impegnato 24 ore su 24 in questo genere di emergenze". 

sabato 16 novembre 2019

Trovato il gene che provoca autismo ed epilessia: l’importante scoperta al “Gaslini” di Genova. - Giulia Dallagiovanna




Non si può dire di aver scoperto la causa dell’autismo, ma il passo avanti è davvero importantissimo. Il team di ricerca, che ha collaborato con lo University College di Londra, ha individuato la mutazione del gene comune nei bambini con questa condizione. La stessa e poi riscontrabile anche in chi soffre di epilessia. Una scoperta che potrebbe portare allo sviluppo di terapie di precisione.

Uno dei più grandi interrogativi dell'autismo riguarda le cause: non si conosce con precisione da cosa abbia origine questo disturbo. E senza i fattori scatenanti, non è nemmeno possibile trovare una cura o terapie davvero efficaci. All'Ospedale pediatrico "Giannina Gaslini" di Genova, però, è stata fatta un'importante scoperta: quale gene si trova alla base di disturbi dello spettro autistico ed epilessia. Un risultato al quale hanno collaborato anche il Laboratorio di Neurogenetica e il Laboratorio di Biochimica dell’University College di Londra, diretto dal professor James Rothman, che aveva già ricevuto il premio Nobel grazie alle sue scoperte sulla trasmissione delle sinapsi.

Il gene sotto osservazione si chiama VAMP2 e una sua mutazione è stata riscontrata in tutti i bambini affetti da autismo, epilessia resistente ai farmaci, disturbi del linguaggio e disordini del movimento che hanno preso parte allo studio. Questa condizione provocherebbe un'alterazione al corretto rilascio delle vescicole sinaptiche, una sorta di piccoli camioncini all'interno dei tuoi neuroni che si occupano di trasportare i neurotrasmettitori. Di conseguenza salta o, subisce modifiche, la corretta comunicazione tra i neuroni. In poche parole, gli impulsi elettrici che permettono alle diverse zone del cervello di "parlare" tra loro e inviare comandi al resto del corpo non seguono più lo schema previsto.

Studi precedenti avevano già dimostrato che ci fosse una correlazione fra le manifestazioni dell'autismo e le difficoltà di movimento provocate dall'epilessia e le trasmissioni sinaptiche. Questa ricerca però identifica con precisione il punto di partenza.

"Oggi trovare il gene difettoso, che causa queste rare malattie – ha spiegato il professor prof. Carlo Minetti, direttore scientifico dell’Istituto G. Gaslini – ci offre la grande opportunità di poter fornire alle famiglie possibili informazioni sull’evoluzione della malattia, e in alcuni casi terapie ‘di precisione’ che tengono conto delle differenze individuali e possono talvolta fornire strategie di prevenzione per le famiglie e cure personalizzate per ogni bambino”.



Non si può ancora dire che sia stata identificata la causa vera e propria dell'autismo, ma questo è un passo avanti davvero importante. Ora si conosce su quale gene bisogna indagare per arrivare a stabilire l'origine di tutto.

Fonte| "Mutations in the Neuronal Vesicular SNARE VAMP2Affect Synaptic Membrane Fusion and Impair Human Neurodevelopment" pubblicato su American Journal of Human Genetics il 4 aprile 2019

https://www.ohga.it/trovato-il-gene-che-provoca-autismo-ed-epilessia-limportante-scoperta-al-gaslini-di-genova/p6/?ref=shortener

venerdì 1 novembre 2019

Alzheimer, farmaco fa scomparire placche al cervello in un anno.


Research for new treatment of Alzheimer disease [ARCHIVE MATERIAL 20110831 ]

Studio preliminare ma 'incoraggiante',rallenta declino cognitivo.


Un farmaco, nei test preliminari sull'uomo, ha mostrato la capacità di diminuire la quantità di placche amiloidi, l'accumulo di proteine nel cervello che è considerata la causa dell'Alzheimer. Lo afferma uno studio pubblicato sulla rivista Nature, secondo cui ci sarebbero nei pazienti anche segni di rallentamento del declino cognitivo.

Il farmaco aducanumab, un anticorpo monoclonale che 'insegna' al sistema immunitario a riconoscere le placche, è stato testato su un gruppo di 165 persone con Alzheimer moderato, metà delle quali ha ricevuto una infusione settimanale, mentre gli altri hanno avuto un placebo. Chi ha ricevuto il principio attivo ha mostrato una progressiva riduzione delle placche, spiegano gli autori. "Dopo un anno - sottolinea Roger Nitsch dell'università di Zurigo, che definisce i risultati 'incoraggianti' - le placche sono quasi completamente scomparse".

lunedì 1 ottobre 2018

I premi Nobel per la Medicina a James Allison e Tasuku Honjo.


Nobel per la Medicina a James Allison e Tasuku Honjo (fonte: Fondazione Nobel)RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA/Ansa

Per le ricerche sul freno naturale ai tumori alla base dell'immunoterapia.


Il Premio Nobel per la Medicina 2018 è stato assegnato a James P. Allison e a Tasuku Honjo. Sono stati premiati per le ricerche sul freno naturale che riesce a bloccare l'avanzata dei tumori, sulle quali si basa l'immunoterapia.

Le ricerche di James P. Allison e Tasuku Honjo sono state una pietra miliare nella lotta contro i tumori perché per la prima volta hanno portato alla luce i meccanismi con i quali le cellule del sistema immunitario attaccano quelle tumorali.


Allison ha aperto la via a queste ricerche studiando le proteine che funzionano come un freno del sistema immunitario e intuendo le loro grandi potenzialità: manipolando il loro freno naturale sarebbe stato possibile aggredire i tumori con nuove armi.
Honjo ha segnato un altro passo lungo questa nuova strada scoprendo una proteina delle cellule tumorali che funziona anche come un freno, ma con un meccanismo d'azione diverso rispetto a quelli noti fino a quel momento.
Entrambe le scoperte si sono tradotte nel tempo in nuovi approcci per la terapia contro i tumori che si stanno dimostrando molto promettenti.


Tasuku Honjo con il suo gruppo di ricerca dell'università di Kyoto, subito dopo l'annuncio del Nobel (fonte: Nobel Foundation)
James P. Allison, 70 anni, è immunologo americano e dal 2004 ha condotto le sue ricerche nel Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York. Nato negli Stati Uniti il 7 agosto 1948, ha cominciato la sua carriera scientifica negli anni '80, prima nell'università del Texas e poi in quella californiana di Berkeley.
Tasuku Honjo, 76 anni, è di origini giapponesi e ha lavorato a lungo fra Giappone e Stati Uniti, tra le università di Kyoto e Osaka, la Carnegie Institution di Washington e i National Institutes of Health. Immunologo di formazione, è nato il 27 gennaio 1942 a Kyoto e nella sua città ha lavorato a lungo a partire dagli anni '70, tranne brevi parentesi negli Stati Uniti e a Osaka.

sabato 24 marzo 2018

Trovato un gene per riparare il cuore dopo un infarto.

Trovato un gene per riparare il cuore dopo un infarto
Gabriele D'Uva e Mattia Lauriola 

La scoperta è di un team internazionale di scienziati guidato dal ricercatore Gabriele D’Uva, con il contributo di una giovane scienziata dell'Ateneo di Bologna.

BOLOGNA - Identificato un gene chiave capace di riparare il cuore danneggiato da un infarto. A effettuare la scoperta è un team internazionale di scienziati, guidato dal ricercatore italiano Gabriele D’Uva, laureato all'Alma Mater, nel laboratorio del professor Tzahor del Weizmann Institute of Science di Rehovot, in Israele. Lo studio, pubblicato il 6 aprile sulla rivista Nature Cell Biology (e ripreso oggi in Nature - News & View), ha individuato il motivo per il quale il muscolo cardiaco non riesce a rigenerarsi e scoperto un gene chiave che, una volta attivato, consentirebbe di “aggiustarlo”. Hanno contribuito alla scoperta la dottoressa Mattia Lauriola del dipartimento di Medicina specialistica, diagnostica e sperimentale dell’Università di Bologna, lo Sheba Medical Center (Israele) e l’Università del South Wales.

Durante un infarto miocardico le cellule del muscolo cardiaco muoiono e sono sostituite da tessuto cicatriziale, il quale, non avendo la capacità di contrarsi, determina una funzione ridotta del cuore e spiana la strada per l’insufficienza cardiaca, purtroppo spesso letale. Le "malattie cardiache sono una delle principali cause di morte in tutto il mondo, in parte perché il nostro organo più importante non è in grado di rigenerarsi", spiegano i ricercatori. Gli autori di questo studio hanno scoperto che l’incapacità del muscolo cardiaco di rigenerarsi sarebbe dovuta alla scarsa presenza di un gene, chiamato ERBB2, che è necessario per la proliferazione delle cellule muscolari del cuore durante lo sviluppo embrionale, ma che si riduce drasticamente dopo la nascita.


Trovato un gene per riparare il cuore dopo un infarto

I ricercatori hanno ipotizzato che l’induzione del gene ERBB2 potesse spingere le cellule cardiache del topo adulto a proliferare. Un’idea avvalorata dal fatto che il gene è anche ben noto nel campo dell’oncologia, perché promuove la crescita cellulare in svariati tipi di cancro. “Perché non imparare dai tumori?”  ha suggerito la dottoressa Lauriola – Dopotutto una delle caratteristiche chiave dei tumori è proprio la proliferazione incontrollata”. Si è applicato dunque uno degli stimoli più potenti, responsabile della proliferazione dei tessuti tumorali, in un contesto come quello cardiaco in cui la proliferazione cellulare è pressoché assente.

L’induzione di ERBB2 nel cuore di un topo adulto, grazie a sofisticate tecniche di biologia molecolare, ha infatti determinato la regressione delle cellule muscolari cardiache a uno stadio embrionale. L’effetto è stato cosí forte che ha portato alla “gigantizzazione” del cuore, più grande del normale di 2-3 volte. Successivamente, il team di ricercatori ha riattivato provvisoriamente il gene in alcuni topi che avevano subito un infarto, per il tempo sufficiente a indurre la giusta quantità di proliferazione di cellule muscolari cardiache necessaria per riparare il cuore. Al termine, è emerso che il segnale indotto da ErbB2 era riuscito, nel giro di poche settimane, a rigenerare il muscolo cardiaco.

”Secondo questi risultati, le persone colpite da infarto cardiaco potrebbero migliorare le condizioni del cuore - spiega Gabriele D’Uva - se nel futuro si riuscisse a trovare un modo per aumentare i livelli di ERBB2 nelle cellule muscolari cardiache”. Come? Questa è la sfida successiva, che potrebbe aiutare milioni di pazienti in tutto il mondo.


http://bologna.repubblica.it/cronaca/2015/04/23/news/scoperto_un_gene_chiave_per_riparare_il_cuore_dopo_un_infarto-112643227/