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giovedì 10 ottobre 2024

L’uragano, il rutto e la sconfitta ucraina. - Tommaso Merlo

 

Quando arriva un uragano è come in guerra. Ti avvisano di evacuare, parti coi tuoi stracci e poi attendi la distruzione nella speranza di poter ricominciare una vita tra le macerie. Nella ricca Florida come nel martoriato Medioriente, con l’unica eccezione di Gaza dove si viene sterminati anche nei rifugi. Ma ormai il genocidio è talmente sanguinario da non fare più notizia mentre la parola pace non esce più nemmeno per sbaglio dalla bocca dei reggenti. È tornata di moda la guerra e le mandrie si accodano sonnolente verso il burrone. Al bar come nei palazzi del potere dove si è appena insediato il nuovo segretario della Nato, l’olandese Mark Rutte. Nomen omen. Non ha fatto in tempo ad accomodarsi sulla poltrona che ha subito ruttato che servono 150.000 soldati in più alla Nato. Carne fresca in vista del terzo macello mondiale e da selezionare con cura tra gli allevamenti di poveri cristi. Rutto ha anche tuonato che i paesi membri dovrebbero spendere più del 2 percento del loro Pil in armamenti, perché sarebbe questa la vera priorità dei poveri cristi. Missili, bombe e contraerea per difenderci dall’efferata Russia che brama di fagocitarci. Già, come no. Ma del resto se la pensava diversamente o meglio se pensava, la poltrona se la scordava. Oggi come oggi conformismo ed arrivismo sono sinonimi e se va di moda la guerra, tutti in mimetica. Tra i primi incontri in agenda del neo segretario Nato quello con un altro protagonista assoluto della nostra epoca, la volpe della steppa Zelensky impegnato nell’ennesimo giro delle sette chiese. Cosa elemosini non è certo una novità, armi per proseguire la cavalcata e soldi per mantenere quello che resta dello stato ucraino. Zelenskyy ha in tasca un piano di pace che prevede la guerra e un paio di chicche. Pare che sia disposto a trattare con la Russia se si ritira da tutto il territorio ucraino. Davvero geniale, chiedere ai vincitori di perdere. Zelenskyy vuole poi che Putin paghi per i crimini di guerra commessi come se l’Ucraina sparasse fiori coi nostri cannoni. Qualcuno dovrebbe spiegare a Zelenskyy che in guerra le condizioni le dettano i vincitori, agli sconfitti spettano giusto le modalità della resa. Ed è questo il dilemma ucraino ma anche occidentale: continuare a buttare benzina sul fuoco per ragioni di principio o presunte tali, oppure smetterla di litigare come bambini dell’asilo e tornare a ragionare da persone adulte e negoziare. Del resto dalle scarse informazioni che filtrano dalle trincee, la situazione appare drammatica. I politicanti aprono bocca e gli danno fiato ma secondo gli analisti militari l’esercito ucraino potrebbe cedere per mancanza di uomini. Molti persi nelle quotidiane carneficine altri fuggiti a gambe levate. E anche i tanto conclamati missili a lungo raggio non sarebbero decisivi. L’unico modo per cambiare le sorti del conflitto sarebbe l’ingresso della Nato ma questo vorrebbe dire guerra mondiale e pure atomica e sembra che nemmeno gli Stati Uniti la vogliano al momento. Anche perché sono divisi internamente, la Harris gira con pistola e tanica in mano mentre quel marpione di Trump si sente di nascosto con Putin da anni e in caso di bis ha preannunciato che manderà Zelensky a quel paese. Siamo a quasi tre anni dall’escalation, l’Ucraina è in cenere eppure non c’è un leader europeo in grado di lanciare una valida iniziativa diplomatica. Non c’è nessuno che ha il coraggio di proporre una alternativa differenziandosi dalle mandrie che procedono sonnolente verso il burrone. Passiamo da un uragano di guerra all’altro e la parola pace non esce più nemmeno per sbaglio dalla bocca dei reggenti. Come se non capissero che il vero ed unico piano per la vittoria dell’Ucraina come di tutti noi, sia quello di far tornare di moda la pace.

Tommaso Merlo

martedì 16 maggio 2023

Zelensky, armi, Ucraina. - Giuseppe Salamone

 

Repubblica, la cui proprietà produce anche armi, ci dice che le armi italiani salvano vite. Non medici, infermieri, pompieri o attrezzature per gli ospedali, le armi per loro salvano le vite. In mezzo ad un conflitto di interessi grande quanto un carro armato cresce e prospera la grande "libertà di stampa" italiana. Incredibile!

Zelensky viene qui a imporre il volere di chi gli muove i fili e la premier donna, madre e cristiana, dopo che Podolyak ci ha minacciato di attentati terroristici qualora smettessimo di obbedire al regime di Kiev non solleva la minima obiezione davanti a queste minacce spudorate, ma non solo lo asseconda come un cagnolino, espone il popolo italiano ufficialmente in una guerra contro la Russia scommettendo e sostenendo erga omnes una vittoria sul campo di Kiev contro una potenza che ha a disposizione 6000 armi nucleari.

Ci si mette anche la grande stampa a servizio della propaganda a fare da eco a chi si presenta a reti unificate con simboli nazisti in bella vista. E questi sottosviluppati, tutti pronti il 25 Aprile per festeggiare la vittoria sui nazisti, non solo non sollevano la minima obiezione davanti a tutto ciò, ma si prestano financo alla propaganda del comico piazzando domande funzionali per la narrazione bellicista. Se proprio vogliono la guerra ad oltranza, che mandassero i loro figli a buttare il sangue anziché spingere e fare i forti dai loro salotti col sangue di poveri cristi.

Per concludere arriva la ciliegina sulla torta quando il "buon uomo democratico e partigiano" Zelensky risponde a Vespa dicendo che non ha bisogno di alcun mediatore mandando in frantumi il tentativo reale e concreto di Papa Francesco. Non è un caso che il Papa lo abbia liquidato dopo appena 20 minuti di colloquio, dopo che questo essere spregevole si sia presentato con la classica arroganza non rispettando nemmeno le basi del galateo istituzionale.

Dovevano farci capire di averci portato in guerra senza dircelo? Ci sono riusciti alla grande con un'operazione di propaganda mai vista negli ultimi 80 anni. Hanno fatto tutto andando contro il volere della maggioranza degli italiani e calpestando la Costituzione Italiana. Per concludere una piccola costatazione sul Presidente della Repubblica: Caro presidente, lei non è il mio presidente!

T.me/GiuseppeSalamone

https://www.facebook.com/photo/?fbid=243918868318744&set=a.165837202793578

martedì 9 maggio 2023

Ursula von der Leyen - Alessandro Orsini

 

Ancora un grande grazie a Ursula von der Leyen per avere trasformato l'Unione Europea nella vergogna dell'Unione Europea. Giunge ora la notizia che il Parlamento europeo andrà a un voto d'urgenza per distogliere i fondi europei dai programmi di spesa sociale e dello stesso Pnrr al fine di costruire munizioni da dare all'Ucraina. Scusate, avrei alcune domande. Ma i media dominanti in Italia non avevano detto, sin dal primo giorno di guerra, che la Russia è debolissima e noi fortissimi e che i russi sarebbero andati in banca rotta in tre giorni e noi a festeggiare al mare? E adesso viene fuori che noi europei stiamo con le pezze e non abbiamo munizioni e viene pure fuori che i soldi per le munizioni ci tocca prenderli dai soldi per i programmi sociali come pezzenti? Quindi viene fuori che l'Occidente non è onnipotente e la Russia impotente. Un'altra domanda: ma questo spettacolo da sbruffoni all'Alberto Sordi non è esatamente ciò da cui avevo messo in guardia all'inizio della guerra? Non avevo forse detto che l'Unione Europea non era assolutamente pronta per una guerra con la Russia di lungo periodo? E non è forse vero che per avere detto queste verità sono stato violentemente insultato e diffamato per 15 mesi senza sosta da tutti i media dominanti trasmissioni radiofoniche incluse? E quindi viene fuori che anche questa mia previsione era corretta. Un'ultima domanda: ma non sarà mica che tutto questo grande squallore morale e professionale accade perché il sistema dell'informazione in Italia sulla politica internazionale è corrotto dalla testa ai piedi?

https://www.facebook.com/photo?fbid=929676238251546&set=a.372727480613094

mercoledì 22 marzo 2023

Maestà il popolo ha fame…dategli armi. - Massimo Erbetti


 

Quello che mi sconvolge in tutta questa storia è che è una donna…avete eletto una donna…una donna…

Ma forse chi ha deciso di proporvela ha pensato che proprio il fatto che fosse donna vi avrebbe indotto a vederla come una figura più equilibrata e non vi avrebbe fatto pensare che potesse arrivare a tanto.

Voi pensavate che volessero togliere il reddito di cittadinanza e la cessione crediti del Superbonus ecc ecc ecc ecc per fare un dispetto al M5S o perché odiano i poveri? Beh sbagliate e sbagliate di grosso…loro amano i poveri…hanno bisogno dei poveri…hanno bisogno dei soldi destinati al loro reddito di cittadinanza...e alla cessione dei crediti…e sapete per fare cosa? A cosa servono sti soldi? Per la sanità…infrastrutture…direte voi…ahahahah poveri illusi…servono a questo:

"Meloni, sull'aumento delle spese militari ci metto la faccia
La libertà ha un prezzo: difendersi è tutela sovranità nazionale"
(ANSA 21 marzo 2023)

Hai capito la donna, la mamma, la cristiana?

Ma perché Giorgia ha deciso questo e proprio in questo preciso momento? Per salvaguardare la "sovranità nazionale"? O perché glielo ha chiesto qualcuno? Sapete perché ve lo dico? Perché sempre ieri ho letto anche questa notizia:

"È mia prerogativa convocare la commissione Nato-Ucraina e credo che il momento sia arrivato".
Lo ha detto il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, chiarendo che l'incontro avverrà nel quadro della ministeriale esteri di aprile e che il format avrà una cadenza più regolare nel futuro.
"Al summit di Vilnius mi aspetto che i leader prendano l'accordo che il 2% del Pil sia il minimo per quanto riguarda le spese in difesa" ha detto Stoltenberg"
(ANSA 21 marzo 2023)

Capito come stanno le cose? Vi è tutto chiaro?...minimo il 2% di Pil. Altro che "sovranità nazionale"

E adesso facciamoci due conticini…ma quanto ci costerà questo "scherzetto"?
Per saperlo mi sono andato a cercare qualche notizia in merito a quanto spende attualmente il nostro paese per le spese militari e ho trovato questo:

"Rapporto spese militari e PIL"
Secondo il report NATO del 31 marzo 2022, il rapporto tra spese militari e PIl in Italia è pari all'1,54% del PIL

Per cui…per raggiungere il 2% (minimo) ci sarà un aumento delle spese militari di almeno il 30% annuo…e voi che continuate a pensare ai poveri…e a come sopravviveranno…poveri illusi.

E niente…Giorgia ha deciso…lei sull'aumento delle spese militari ci mette la faccia…e noi ci mettiamo qualcos'altro.

mercoledì 23 novembre 2022

Guido Crosetto – Armi, affari e tweet: chi è consigliere fidato di Giorgia Meloni che è finito alla Difesa (con l’ombra del conflitto d’interessi) - Giuseppe Pipitone - 22.ott.2022

 

Cresciuto nella Dc, passato con Forza Italia con quattro legislature alla Camera e tre anni da sottosegretario, il neo ministro della Difesa (che in origine sembrava destinato allo Sviluppo economico) è uno dei pochi fondatori di Fdi che non è cresciuto nell'estrema da destra. Consigliere ascoltato dalla premier, è il volto moderato di Fdi nei salotti buoni. Da quando si è dimesso da deputato, nel 2019, si è dedicato agli affari: ha guidato aziende attive nel mondo delle navi da guerra, ma anche una srl familiare che si occupa di lobbying. Nel giorno della nomina al governo ha annunciato di voler lasciare ogni incarico.

Il primo tweet dopo la nomina doveva servire ad allontanare ogni accusa di conflitto d’interesse. O almeno a provarci. “Per tutti quelli che (non per amore) me lo stanno chiedendo, rispondo: mi sono già dimesso da amministratore, di ogni società privata (non ne ricopro di pubbliche) che (legittimamente) occupavo. Liquiderò ogni mia società (tutte legittime). Rinuncio al 90% del mio attuale reddito”, ha scritto Guido Crosetto, un minuto dopo che Giorgia Meloni ha letto il suo nome come nuovo ministro della Difesa. Non è bastato visto che, nel giorno della nascita del nuovo governo, in tanti ricordano il suo recentissimo passato – praticamente presente – da imprenditore attivo nel ramo Difesa: lo stesso delicatissimo settore che ora gestirà da ministro. Proprio per questo motivo i rumors della vigilia accreditavano Crosetto allo Sviluppo economico. Alla fine, però, al Mise è andato Adolfo Urso, che invece al contrario sembrava certo della nomina alla Difesa. E’ probabile che sul destino dell’ex presidente del Copasir abbia pesato la moglie, che viene dal Lugansk, repubblica russofona inglobata da Vladimir Putin. Dopo le “sparate” di Silvio Berlusconi sull’Ucraina e sull’inquilino del Cremlino, era dunque il caso di metterlo al vertice della Difesa italiana? Chissà, forse gli alleati atlantici non avrebbero gradito. In ogni caso Meloni ha deciso di dirottare Urso allo Sviluppo economico, che ora si chiama ministero delle Imprese e del Made in Italy. E ha preferito rischiare di prendersi le accuse di conflitto d’interessi (avanzate per esempio da Angelo Bonelli dei Verdi), pur di piazzare alla Difesa uno dei suoi consiglieri più fidati. Uno di quelli che sta in Fdi fin dal principio.

Il gigante e la bambina – All’inizio gli appassionati di Lucio Dalla se l’erano cavata senza troppa originalità: il gigante e la bambina li avevano ribattezzati. La bambina era Meloni, il gigante ovviamente era Crosetto, un uomo di quasi due metri che all’Auditorium Conciliazione, a Roma, si era caricato in braccio la piccola aspirante leader, oggi presidente del consiglio. Era il 2012 e stava per nascere Fratelli d’Italia: dal Pdl uscirono Meloni, Ignazio La Russa e tutta una serie di ex An che non avevano seguito Gianfranco Fini nello strappo di Futuro e Libertà. E poi c’era lui, il piemontese col fisico da gigante e il volto buono che veniva da tutt’altra storia: niente fiamme tricolori e botte giovanili, niente braccia tese, il culto di Giorgio Almirante e nostalgici souvenir del ventennio. Se La Russa faceva rissa nel Fuan degli anni di piombo e Meloni ha scalato Azione giovani nei primi Duemila, Crosetto, infatti, è cresciuto sotto la rassicurante ombra dello Scudo crociato. “Io ho la fortuna di essere stato democristiano, altrimenti pelato così chissà cosa mi direbbero…”, rivendicava su La7 con una mezza risata. Una battuta utile a difendere Meloni da chi ciclicamente insiste (o insisteva) chiedendole di prendere le distanze dal fascismo.

Il volto moderato di un partito non moderato – In effetti una delle cose che riesce meglio a Crosetto è proprio questa: offrire il suo corpo per difendere la ragazza della Garbatella che si è scelto come leader, in tempi non sospetti. Anni fa quando tutti parlavano ancora solo di Berlusconi e Matteo Salvini lui faceva notare come nei sondaggi Giorgia fosse avanti, anche se poi Fdi faticava a superare il 5 percento. I fatti gli hanno dato ragione: se oggi Meloni entra a Palazzo Chigi un po’ di merito è anche di Crosetto, il gigante buono che della capa di Fdi è ascoltatissimo consigliere. Da anni è Crosetto il volto moderato di un partito considerato troppo a destra: il profilo rassicurante, il mediatore, quello che ha accesso ai salotti bene e ha strappato alla Lega i voti degli imprenditori del Nord Ovest. La fonte che i giornalisti chiamano semplicemente per nome e il contatto al quale tutti possono sempre rivolgersi. Soprattutto ora che Fdi è la prima forza del Paese e “Guido” al telefono continua a rispondere a tutti. Tranne quando era all’estero e sosteneva di non saperne nulla delle trattative per la formazione del governo.

Lauree che non lo erano – Piccole bugie bianche. Come quando, meno di un mese fa, negava ogni ipotesi d’ingresso al governo. “Se aspetti me Ministro, muori di vecchiaia alla stazione”, scriveva sul suo seguitissimo profilo twitter (quasi 230mila follower). Dove ha dovuto aggiornare la sua biografia: “Libero da pregiudizi per convinzione, garantista per dna, conservatore per nascita, rispettoso per scelta. Ex tante cose. Ora uomo libero ed imprenditore”, è il modo con cui si presentava sul popolare social network, da quando – nel 2019 – riuscì finalmente a dimettersi dalla Camera al terzo tentativo. Da quel momento, pure senza mai lasciare Fdi, si è dedicato agli affari e ai commenti. Ogni giorno su twitter Crosetto spiega come la pensa su questo o quel fatto di cronaca politica, nera o sportiva: juventino, su twitter non si sottrae a risse e litigi a distanza. “Quando penso che una persona sia una ‘testa di beep‘ glielo dico tranquillamente”, spiegava al Sole 24 ore. Piemontese di Marene, provincia di Cuneo, dove ha fatto il sindaco per dieci anni e dove la sua famiglia produce rimorchi agricoli addirittura dal 1937, il gigante Crosetto comincia a interessarsi alla politica ai tempi dell’Università, leader del movimenti giovanili della Dc. Nel 1987, quando aveva solo 24 anni, Giovanni Goria, presidente del consiglio per nove dimenticabili mesi, lo vuole a Palazzo Chigi come consigliere economico. “Sì. Avevo 24 anni e mi ero appena laureato in Economia…”, raccontò lui a Sette del Corriere della Sera. E in effetti sul sito della Camera gli riconoscevano una laurea in Economia e Commercio che però, alla fine, lui non aveva mai preso. A scoprirlo fu un giornale locale piemontese, lo Spiffero. “Mi spiace. Ma lo ammetto: ho ceduto, sono stato debole… e ho raccontato una piccola, innocente bugia“, ammise Crosetto, che nel frattempo era già sottosegretario alla Difesa nel governo Berlusconi.

Gli affari: soprattutto nel settore armi – Con la fine della Balena Bianca, infatti, Crosetto aveva trovato riparo in Forza Italia: consigliere comunale a Cuneo, coordinatore regionale del partito e infine deputato per tre legislature. La quarta, dopo una pausa di cinque anni, è durata pochi mesi: nel 2018, ottenuto il seggio con Fdi, si dimette quasi subito per dedicarsi agli affari. Che affari? Armi soprattuto, ma anche turismo. Senza mai uscire da Fdi, infatti, dal 2014 Crosetto era senior advisor di Leonardo, l’ex Finmeccanica fiore all’occhiello del Paese. Ma era pure presidente di Orizzonte Sistemi Navali, società statale (controllata sempre da Leonardo e pure da Fincantieri) del settore delle navi da guerra, e al vertice dell’Aiad, la Federazione delle aziende italiane dell’Aerospazio. Incarichi dai quali ha annunciato di essersi dimesso, proprio nel giorno della nomina a ministro della Difesa.

Il conflitto d’interesse – Per provare ad allontanare ogni spettro di conflitto d’interesse, infatti, Crosetto aveva annunciato di volersi disfare anche la Csc & Partners Srl, società di lobbying che possiede in società col figlio Alessandro e la compagna Graziana Saponaro. Dopo un esordio record (fatturato da 272mila euro e utile da 179mila euro), il neo ministro ha fatto recentemente sapere – sempre via twitter – di volerla liquidare: “Sono fatto così male che adesso che una mia amica, che fino a due giorni fa non contava, conterà, ho deciso di liquidarla perché nessuno possa fare illazioni”. Ma con chi ha lavorato la Csc? Chi erano i suoi clienti? A questa domanda, posta dal Fatto Quotidiano, Crosetto non aveva voluto rispondere. E inevasa era rimasta anche la domanda sui suoi redditi. “Sarebbe più veloce chiedermi il 740, visto che sono solo redditi legittimi e corretti”, replicava sempre su Twitter. Adesso la sua dichiarazione dei redditi dovrà pubblicarla sul sito del governo.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/10/22/guido-crosetto-armi-affari-e-tweet-chi-e-consigliere-fidato-di-giorgia-meloni-che-e-finito-alla-difesa-con-lombra-del-conflitto-dinteressi/6846455/

giovedì 28 aprile 2022

Draghi ignora il Parlamento e tratta con Biden e Zelensky. - Luca De Carolis, Wanda Marra

 

IL FRONTE ITALIANO - Il premier farà visita al presidente Usa il 10 maggio: ieri ha sentito il leader ucraino. No a nuovo dl sulle armi.

Oggi il ministro della Difesa Lorenzo Guerini riferirà al Copasir sul secondo decreto interministeriale per l’invio di armi all’Ucraina. Un provvedimento di Mef, Difesa e Farnesina, che contiene una lista secretata degli aiuti per Kiev. E se dalla Difesa assicurano che è la fotocopia del primo, quel che è certo è che l’invio di artiglieria pesante (cannoni, obici, semoventi) non passerà per un voto del Parlamento. Palazzo Chigi aveva fatto filtrare la possibilità di un decreto da licenziare in Consiglio dei ministri. Ma è scomparso dal tavolo, “ammesso che ci sia mai stato”, per dirla come un’autorevole fonte di governo.
Guerini ipotizza un altro invio con nuovo decreto interministeriale. Senza un voto del Parlamento. Cartina di tornasole è la dichiarazione del dem Graziano Delrio, da sempre vicino al ministro della Difesa: “Il Parlamento ha autorizzato l’invio di armi a scopi difensivi: conoscendo la correttezza del premier e di Guerini, se ci fosse un cambiamento di prospettiva ci sarebbe una discussione in Parlamento”. Un’affermazione che adombra più di un dubbio. Draghi, peraltro, non ha al momento alcuna intenzione di riferire sul tema. Al massimo, raccontano fonti di governo, potrebbe limitarsi a rispondere in un Question time.

Ieri invece ha annunciato la sua visita negli Usa: bilaterale con Biden il 10 maggio. Sanzioni alla Russia, aiuto all’Ucraina e anche clima, al centro della visita, come fa sapere la Casa Bianca. Draghi ha chiamato Volodymyr Zelensky, ribadendo “il pieno sostegno” del governo italiano. L’altro ha ringraziato anche per l’accoglienza dei rifugiati. Si è parlato poi del “coinvolgimento dell’Italia nei futuri accordi di sicurezza dell’Ucraina”. Ovvero della possibilità che il nostro Paese sia tra i garanti della sicurezza, a negoziati avviati. I due hanno parlato anche della visita a Kiev del premier, ma su data e modalità dovranno risentirsi. Curiosa situazione, visto che il viaggio era stato annunciato da Palazzo Chigi come imminente. Intanto lì fuori c’è sempre Giuseppe Conte a chiedere di distinguere tra armi offensive e difensive. “Confine labile” come ha ammesso al Fatto il leader dei 5 Stelle, che però deve mantenere il punto politico. Per questo chiederà ancora che Draghi e Guerini riferiscano in aula sugli armamenti. “Probabilmente anche con una richiesta diretta al presidente del Consiglio” dicono dal M5S. Nell’attesa, ieri Conte ha fatto visita all’ambasciatore della Gran Bretagna a Roma, Ed Llewellyn.

Due ore di incontro, secondo i 5Stelle, chiesto dal diplomatico: perché a Londra vogliono capire dove possa arrivare l’ex premier. Di certo da ieri Conte può sentirsi più sollevato, perché ha incassato il sostegno del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. “Il faro resta l’articolo 51 della Carta dell’Onu sulla legittima difesa, per garantire la sovranità e l’integrità dell’Ucraina” ha sostenuto il 5Stelle da Strasburgo, citando quella norma su cui Conte martedì aveva impostato la sua linea: sì ad armamenti per l’autotutela, no per un’eventuale controffensiva. Distinzione “complicata”, a detta di Matteo Salvini, “perché mica c’è il missile difensivo e il missile offensivo, è soggettivo”.

Però anche il leghista ritiene che Draghi debba riferire in aula: “Sulle armi serve assolutamente un passaggio parlamentare, anzi io chiedo un incontro di tutti i leader sulla pace, perché si parla solo di razzi e missili”. Una (parziale) convergenza che infastidisce il Pd. Ma la vera partita potrebbe essere quella di un documento in cui precisare quali armi inviare. “Ora non pensiamo a mozioni o risoluzioni” sostengono dai piani alti del M5S.

Però a Un giorno da pecora ne ha parlato il vice capogruppo in Senato, Gianluca Ferrara: “Una mozione contro l’invio di armi pesanti è un’ipotesi da tenere in considerazione”. Altre voci a 5 Stelle di Palazzo Madama raccontano una versione un po’ diversa: “Sarebbe meglio una risoluzione di maggioranza, legata all’intervento di Draghi in aula”. Un testo attento alle sfumature, per scongiurare tensioni o crisi di governo. Ammesso che Draghi in Parlamento ci vada.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/04/28/draghi-ignora-il-parlamento-e-tratta-con-biden-e-zelensky/6573088/

venerdì 15 aprile 2022

Sauditi, Egitto e Qatar: vendiamo ancora armi agli “amici” macellai. - Giacomo Salvini

 

NON SOLO UCRAINA - La relazione annuale. Bilancio industria bellica nazionale: restano scambi di forniture con i Paesi che violano i diritti umani.

L’Italia nel 2021 ha continuato a vendere armi al regime dell’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti, entrambi autori di stragi in Yemen, per un totale di 103 milioni di euro. Il dato è contenuto nella relazione annuale sulla “esportazione, importazione e transito di armi” inviata dal presidente del Consiglio, Mario Draghi, al Parlamento lo scorso 5 aprile. Un documento di oltre 1.600 pagine, previsto dalla legge 185 del 1990, in cui è contenuto il volume di affari relativi all’export e all’import di armi in Italia relativo all’anno 2021, prima quindi dello scoppio della guerra in Ucraina.
Il 29 gennaio 2021 il governo Conte aveva deciso di revocare le licenze in essere e quelle future con Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti, in seguito alla risoluzione approvata dal Parlamento il 22 dicembre 2020: con quell’atto le Camere bloccavano l’export di “bombe aeree e missili” verso Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti (in gran parte autorizzati dal governo Renzi) che utilizzavano quelle armi per colpire i ribelli Houthi in Yemen causando la morte di migliaia di civili. Dopo la revoca, costata all’Italia 328 milioni, il governo Draghi ha autorizzato nuovi contratti nel 2021 con Arabia Saudita (47,2 milioni) e Emirati Arabi Uniti (56,1). Senza formalmente violare la revoca, esportando armi consentite: se abbiamo esportato pistole, componenti e apparecchi elettronici negli Emirati, al regime di Mohammed bin Salman l’Italia ha venduto armi che rientrano nell’ampia categoria “004” che comprende “bombe, siluri, razzi, missili”. Contattato dal Fatto, il ministero degli Esteri non ha fornito dettagli specifici sulla fornitura. “E chi ci dice che queste bombe e missili italiani non vengano utilizzato dai sauditi nel conflitto in Yemen?” chiede Giorgio Beretta, della Rete Pace e Disarmo.

Nel 2021 il valore dei movimenti di armi è cresciuto fino a 5,3 miliardi (nel 2020 era stato di 4,8): 4,66 di esportazioni (4,65 un anno fa) e 679 milioni di importazioni rispetto ai 179 del 2020. Diminuisce invece il valore delle autorizzazioni individuali relative all’export: lo scorso anno era di 3,65 miliardi, il dato più basso degli ultimi sette anni. Ma il calo è relativo perché è paragonato al triennio 2015-2017 quando i governi Renzi e Gentiloni hanno autorizzato maxi-commesse che hanno fatto lievitare il valore delle esportazioni di armi per 7,9 miliardi nel 2015, 14,6 nel 2016 e 9,5 nel 2017. Il record era stato raggiunto sei anni fa quando la metà del valore di esportazioni riguardava una commessa di 28 Eurofighter della Leonardo al Kuwait. “Il calo di oggi è fisiologico perché la nostra industria degli armamenti è limitata – spiega Beretta – a fronte di alte commesse tra il 2015 e il 2018 oggi ci sono meno ordinativi”. A pesare è stato anche il biennio della pandemia. Per la prima volta nel 2021 l’esportazione di armi finisce per la maggior parte nei Paesi Ue-Nato (52,1%) contro un restante 47,9% a tutti gli altri. Un terzo delle esportazioni è concentrato nei Paesi Nato e il 26% tra Africa Settentrionale e Medio Oriente.

Tra i principali clienti dell’Italia ci sono Paesi governati da dittatori sanguinari e guerrafondai: il primo è il regime del Qatar, accusato di legami con l’estremismo islamico, a cui abbiamo venduto bombe, missili, munizioni, software per 813,5 milioni. Tra i primi 15 Paesi a cui vendiamo armi ci sono Pakistan, Filippine e Malaysia, mentre l’Egitto di Al Sisi passa dal primo al diciottesimo posto in graduatoria, da 991 milioni nel 2020 ai 35 del 2021. Sono quattro i player italiani che rappresentano il 76% del mercato: Leonardo con il 43,5%, Iveco Defence Vehicles (23,5%) che fa riferimento al gruppo Exor della famiglia Agnelli-Elkann, Mbda Italia (5,2%) e Ge.Avio (3,9%).

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/04/15/sauditi-egitto-e-qatar-vendiamo-ancora-armi-agli-amici-macellai/6560603/

giovedì 7 aprile 2022

La guerra è un affare: ecco chi ci guadagna. - Nicola Borzi

 

Armi e gas: i colossi Usa guadagnano dal conflitto e gli Stati Ue sono clienti.

EFFETTI COLLATERALI - I rialzi maggiori in Borsa. I big della Difesa fanno festa con aumenti a 2 cifre. Il metano russo sostituito da esportatori americani.

L’invasione russa dell’Ucraina, iniziata il 24 febbraio, pare lontana dalla fine, ma ha già vincitori e vinti. Se non sul campo, almeno sul piano economico: i mercati hanno prezzato alcuni dei suoi effetti. L’analisi del Fatto sulle azioni di 24 tra le imprese più rilevanti nel settore delle armi e dell’energia, mostra che a trarre profitto sono multinazionali che producono sistemi per la difesa, statunitensi in primis ma non solo, e i grandi esportatori americani di gas naturale liquefatto (Lng), chiamati a rimpiazzare progressivamente le forniture di metano russo dalle quali l’Europa dipende per il 40% del suo fabbisogno. Non sono ovviamente ancora noti aumenti di ordini, fatturato o utili, ma i rialzi dei titoli segnalano le attese degli investitori.

Le armi. L’“operazione militare speciale” di Putin ai danni di Kiev ha cambiato le dinamiche geopolitiche. La Germania ha stanziato 100 miliardi per il riarmo, altri 19 Paesi della Nato (tra i quali l’Italia) sono pronti a portare le spese militari al 2% del Pil con un incremento dei budget di 73,3 miliardi di euro l’anno, al quale si aggiungeranno i maggiori stanziamenti Usa e di altri Paesi. Molti titoli del settore avevano già iniziato a segnare rialzi prima del 24 febbraio, quando il dispiegamento di truppe russe segnalava il conflitto in arrivo. L’asticella la fissa l’indice S&P 500 delle maggiori azioni di Wall Street che tra il 23 febbraio, ultima chiusura prima della guerra, e il 6 aprile ha segnato +5,7%. Nello stesso periodo alcune aziende hanno ottenuto performance più elevate: tutte sono fornitrici del Pentagono e dei Paesi Nato. La prima, a sorpresa, è l’italiana Leonardo che ha visto un rialzo del 43,9% da 6,4 a 9,2 euro. Seguono Bwx Technologies (+26,3%), società della Virginia che fornisce componenti e combustibile nucleare al governo Usa, e Booz Allen Hamilton (+25,2%), gigante della consulenza strategica in stretti rapporti con il Dipartimento della Difesa di Washington. Poi Bae Systems (+23,3%), gigante britannico del settore, la sconosciuta ai più L3Harris (+16,8%), società tecnologica contractor della Marina Usa, e i colossi americani Northrop Grumman, che produce aerei e droni come il Global Hawk (+15,8%), Heico (+14,2%) che realizza motori di aerei e avionica, Lockheed Martin (dai caccia F-35 ai missili anticarro Javelin, +14,2%), General Dynamics (dai sottomarini delle classi Virginia e Columbia ai carriarmati M1 Abrams, +10,6%) e Honeywell International (droni per esercito e marina, +9,6%). Dalla bonanza è rimasta fuori la francese Safran, attiva nei caccia, che ha perso in Borsa l’8,15%.

Il gas. L’altro settore che mostra il cambio di paradigma geopolitico è quello dei produttori ed esportatori di gas naturale liquefatto (Lng), specie di shale gas, il combustibile ottenuto dal fracking delle rocce di scisto, considerata una delle attività più dannose per il clima e l’ambiente, la cui produzione è aumentata del 70% dal 2010. Gli esportatori statunitensi di Lng stanno emergendo come i veri grandi vincitori della crisi dell’approvvigionamento del Vecchio continente, poiché per il terzo trimestre consecutivo hanno esportato volumi record nell’Unione europea e a prezzi decollati dopo l’invasione russa dell’Ucraina, scattata proprio quando gli esportatori Usa di Lng avevano completato progetti di sviluppo pluriennali per esportare grosse quantità. A dicembre gli Usa hanno venduto all’estero il 13% della propria produzione di Lng, con una crescita di sette volte rispetto a cinque anni prima. Già a dicembre, prima della guerra ma nel pieno dei rincari del gas in Europa, gli Usa avevano superato il Qatar come maggior esportatore mondiale di Lng. Ma i qatarioti stanno preparando investimenti giganteschi per riprendersi la leadership. Il più grande esportatore statunitense è Cheniere Energy, seconda società al mondo dopo la compagnia nazionale emiratina Qatar Energy per capacità di export (35 milioni di tonnellate l’anno), i cui titoli in Borsa dal 23 febbraio non a caso hanno segnato +18,9%.

Tra le altre società Usa del settore che ne hanno beneficiato in Borsa ci sono i giganti Chevron (+20,5%) e, in misura minore, ExxonMobil (+7,8%). Male invece la malese Petronas (-2,1%), la britannica Bp (-4,6%) e la francese TotalEnergies (-10,8%). A fare la differenza sono la presenza geografica e le infrastrutture. I costi industriali di raffreddamento, stoccaggio, trasporto e rigassificazione peseranno sul conto finale per i clienti europei, decretando un maggior o minor rincaro rispetto al gas russo, di certo più conveniente. Ma la misura non è determinabile anche per la segretezza dei contratti di fornitura stipulati con Mosca. Come impararono a loro spese già i Romani, vae victis.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/04/07/armi-e-gas-i-colossi-usa-guadagnano-dal-conflitto-e-gli-stati-ue-sono-clienti/6551494/

mercoledì 30 marzo 2022

Sanità, scuola, ricerca, fisco e molto altro. Ecco cosa si potrebbe fare con i 13 miliardi che il Governo vuole buttare in spese militari. - Stefano Iannaccone

 

I 13 miliardi di euro previsti per l’aumento delle spese militari sono l’equivalente di una manovra correttiva, anche con un bel peso specifico. I numeri, del resto, parlano chiaro: la somma è un terzo dell’ultima Legge di Bilancio approvata, che – dati alla mano – ha avuto una movimentazione di 40 miliardi di euro complessivi.

Spese militari, mentre l’esercito viene armato fino ai denti, la Sanità viene lasciata senza strumenti per lavorare

Si parla dunque di un gruzzolo di risorse che potrebbe avere numerose destinazioni. Quali? L’elenco è lungo: dalla Sanità al fisco, dalla scuola al welfare. Per non dimenticare le misure contro l’aumento delle bollette che sta funestando i bilanci delle famiglie. Le risorse in più che il governo dei Migliori vuole prevedere per l’acquisto di nuove armi, facendo passare la cifra da 25 a 38 miliardi, sono insomma un tesoretto prezioso.

Per rendere l’idea delle proporzioni: è sei volte e mezzo più grande del fondo previsto, ogni anno, per finanziare degli enti di ricerca, tra cui il Cnr. Ma questo è solo un esempio tra i tanti. Eppure il presidente del Consiglio, Mario Draghi, che pure di professione è economista e sicuramente capace con i numeri, è fermamente intenzionato ad accontentare la Nato, portando le spese militari al 2 per cento del Pil. Un progetto che lo vede andare in tandem, con il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. E in pochi sono davvero pronti a dire no, come fa il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte.

Mentre l’esercito viene armato fino ai denti, la Sanità viene lasciata senza le armi per lavorare al meglio. Il sistema, negli ultimi due anni di pandemia, ha mostrato tutti i suoi limiti. La tenuta è stata possibile solo grazie all’impegno eroico di medici e infermieri. Il Piano nazionale di riprese e resilienza investe sulla salute 15 miliardi e 600 milioni di euro. In pratica l’incremento dei fondi per le spese militari sarebbe equiparabile alle risorse messe a disposizione dal Recovery plan su uno dei capitoli ritenuti fondamentali, specie dopo la tragedia del Covid-19.

Peraltro, già attualmente, per avere una macchina pienamente efficiente, occorrerebbero – stando alle stime della Fnopi (Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche), oltre 63mila infermieri. Ma all’appello mancano già più di 1.300 medici e per il 2027 la prospettiva è quella di 35mila pensionamenti totali, che potranno essere rimpiazzati solo per metà, nella migliore delle ipotesi. Servono dunque forze fresche e per immetterle è fondamentale fornire risorse strutturali. Altrimenti sono dolori, nel vero senso della parola.

Nell’ultima Legge di Bilancio il governo ha realizzato una riforma dell’Irpef. In totale ha speso 7 miliardi di euro per rivedere le aliquote, peraltro avvantaggiando in maniera palese i redditi più alti. Un esempio è arrivato dai dati, forniti dal Mef, sulle pensioni. Su questo specifico capitolo la spesa è stata di 2 miliardi 100 milioni. Per i redditi fino a 15mila euro, praticamente nella soglia di povertà, la riforma ha portato un “guadagno” di 177 euro all’anno, pari a 14,75 euro al mese. Chi ha fatto una dichiarazione tra 50mila e 55mila euro, può contare su un incremento di 744 euro annui.

Rinunciando alle armi si potrebbe prevedere un intervento molto più incisivo sulla tassazione

Un calcolo semplice che dimostra come la rinuncia all’acquisto di bombe potrebbe determinare un intervento molto più incisivo sulla tassazione, magari a sostegno dei più poveri. E che dire poi della delega fiscale, che al di là dell’Irpef è chiamata a ridisegnare l’architrave dell’imposizione sui contribuenti, a cui sono stati destinati solo 8 miliardi? Il lavoro in Parlamento è portato avanti con il bilancino per evitare che qualsiasi misura introdotta dai deputati possa avere un costo per le casse pubbliche. Il mantra, in questo caso, è che non ci sono soldi a sufficienza, così come mancano, a parole, quando si tratta di misure che potrebbero sostenere i redditi bassi.

La questione energetica è esplosa con la guerra in Ucraina. Il governo è intervenuto in due tempi, prima con il decreto bollette, da 7 miliardi di euro, e poi con il decreto energia, da 4 e passa miliardi. Messi insieme non arrivano alla fatidica cifra dei 13 miliardi. Ed è sotto gli occhi di tutti come l’intervento sulla riduzione dei costi del carburante di 25 centesimi sia da considerare alla stregua di una mancetta. Peraltro con l’aggravante che la misura ha un carattere molto limitato nel tempo: il 30 aprile 2022 si torna punto e daccapo.

Bisognerà inevitabilmente reperire nuove risorse, a meno di non dover sottoporre gli italiani a una risalita improvvisa dei costi per fare il pieno di benzina. Perché difficilmente nel prossimo mese la situazione potrà tornare sotto controllo in termini di approvvigionamenti energetici. Anzi l’ipotetico distacco dal gas russo imporrebbe un intervento statale ancora più significativo.

Il caro-energia, con tutti gli annessi, è solo uno dei problemi scoppiati con il conflitto in Ucraina. Le sanzioni inflitte al governo di Mosca hanno messo in affanno intere filiere finite.“La guerra commerciale mette in pericolo le esportazioni agroalimentari Made in Italy in Russia e in Ucraina per un valore che nel 2021 ha superato il miliardo di euro”, ha riferito la Coldiretti. Una contrazione che colpisce in maniera particolare il settore enologico: secondo una stima di Nomisma, nello scorso anno sono stati esportati in Russia vini per 340 milioni di euro, una somma che cresce di altri 60 milioni considerando il mercato ucraino.

Non va poi dimenticato l’export di olio, caffè e pasta. E ancora: la filiera del legno perde qualcosa come 400 milioni di euro con la chiusura dello sbocco russo. Un business che viene a mancare per le aziende italiane e a cui bisogna sopperire in qualche modo. Così come si dovrebbe far riflettere il rincaro delle materie prime per le costruzioni. L’Ance ha evidenziato che il prezzo dell’acciaio “tra novembre 2020 e febbraio 2021 ha registrato un aumento eccezionale pari a circa il 130%”. A rischio ci sono i lavori pubblici, senza un supporto.

Un altro eterno problema italiano riguarda la scuola. Basti pensare all’edilizia scolastica. Secondo quanto riferito da un dossier della Camera, il fondo unico prevede uno stanziamento ulteriore di 500 milioni di euro per gli interventi sugli edifici. Una cifra che è insufficiente rispetto a quanto effettivamente potrebbe servire per garantire una maggiore sicurezza agli studenti. Una ricerca della fondazione Agnelli indica che sarebbero addirittura necessari 200 miliardi di euro per un piano di effettivo ammodernamento. Certo, sarà una stima al rialzo.

Ma un elemento risulta certo: per il triennio 2018-2020, l’investimento sull’edilizia scolastica è stato di 10 miliardi in totale. Non va meglio, poi, se si parla di ricerca. Il Foe (il fondo assegnato agli enti controllati dal Ministero dell’università e della ricerca) è cresciuto nel 2021, ma è fermo a un miliardo e 900 milioni di euro. In confronto al 2011 l’incremento è stato di appena 200 milioni. Per superare la soglia ormai “mitica” dei 13 miliardi che il governo intende investire in spese militari, bisogna mettere insieme le risorse date ai ricercatori in 8 anni.

https://www.lanotiziagiornale.it/sanita-scuola-ricerca-fisco-e-molto-altro-ecco-cosa-si-potrebbe-fare-con-i-13-miliardi-che-il-governo-vuole-buttare-in-spese-militari/?fbclid=IwAR1rfvkKYafVKbMvqS5bEfrHNE74C3FZk_ctzUyiEmYFg1Uz0VZqJRi1_L0

lunedì 21 marzo 2022

Yemen, la guerra non è finita: ancora attacchi e decine di morti. E gli Usa ci guadagnano. - Riccardo Noury

 

Nonostante i mezzi d’informazione non ne parlino quasi più e osservatori e analisti parlino di un conflitto prossimo alla conclusione, la guerra iniziata nel marzo 2015 nello Yemen non è affatto terminata.

Il 17 gennaio un attacco del gruppo armato huthi ha colpito una struttura petrolifera di Abu Dhabi, negli Emirati arabi uniti, causando tre vittime civili. Sei giorni dopo un altro missile ha colpito il sud dell’Arabia Saudita, ferendo due civili. La reazione della coalizione guidata dall’Arabia Saudita è stata spietata, con la consueta pioggia di missili che hanno colpito la capitale yemenita Sana’a e altre zone dello Yemen distruggendo infrastrutture, danneggiando servizi e facendo decine di vittime.

Il 20 gennaio il porto di Hudaydah è stato ripetutamente colpito da attacchi aerei che hanno causato numerosi morti, tra cui tre bambini. Uno ha centrato la sede delle telecomunicazioni, provocando il completo black-out dei servizi Internet per quattro giorni. L’attacco più sanguinoso è stato portato a termine tra i due attacchi degli huthi, il 21 gennaio, contro un centro di detenzione a Sa’adah, nello Yemen settentrionale. Ha causato almeno 80 morti e 200 feriti.

La bomba a guida laser usata nell’attacco era stata prodotta dall’azienda statunitense Raytheon: esattamente il modello GBU-12 del peso di 500 libbre. Per l’ennesima volta, dunque, armi statunitensi sono state utilizzate dalla coalizione a guida saudita per compiere crimini di guerra. Una GBU-12 era stata usata dall’aviazione saudita il 28 giugno 2019 contro un palazzo nella zona di Ta’iz: erano morti sei civili, tra cui tre bambini.

Da anni, le autorità statunitensi sanno perfettamente che le loro armi inviate agli stati del Golfo membri della coalizione anti-huthi vengono usate per compiere attacchi illegali contro la popolazione yemenita. Eppure, lo scorso settembre, al momento dell’approvazione del bilancio annuale della difesa Usa, l’emendamento che chiedeva la fine del sostegno alle operazioni offensive e agli attacchi aerei dell’Arabia Saudita nello Yemen è improvvisamente scomparso.

Il presidente degli Usa Joe Biden ha ben presto abbandonato gli impegni presi all’inizio del suo mandato: porre fine al sostegno alle operazioni offensive nello Yemen, compresa la cessazione della vendita delle armi, rendere i diritti umani un elemento centrale della politica estera e assicurare che i responsabili delle violazioni dei diritti umani sarebbero stati chiamati a rispondere delle loro malefatte.

Dal novembre 2021 l’amministrazione Biden ha approvato la vendita all’Arabia Saudita di missili (sempre della Raytheon) per un valore di 560 milioni di dollari, ha confermato l’impegno a vendere aerei da combattimento, bombe e altre munizioni agli Emirati arabi uniti per un valore di 23 miliardi di dollari e ha assegnato alle aziende statunitensi contratti per il valore di 28 milioni di dollari per la manutenzione degli aerei da combattimento sauditi. Il tutto non solo in violazione del diritto internazionale ma anche della stessa normativa statunitense: il Foreign Assistance Act e le Leahy Laws vietano la vendita di armi e le forniture di aiuti militari a stati che violano gravemente i diritti umani.

Stando così le cose, è difficile immaginare quando la guerra dello Yemen possa terminare.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/01/31/yemen-la-guerra-non-e-finita-ancora-attacchi-e-decine-di-morti-e-gli-usa-ci-guadagnano/6471530/