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mercoledì 23 novembre 2022

Guido Crosetto – Armi, affari e tweet: chi è consigliere fidato di Giorgia Meloni che è finito alla Difesa (con l’ombra del conflitto d’interessi) - Giuseppe Pipitone - 22.ott.2022

 

Cresciuto nella Dc, passato con Forza Italia con quattro legislature alla Camera e tre anni da sottosegretario, il neo ministro della Difesa (che in origine sembrava destinato allo Sviluppo economico) è uno dei pochi fondatori di Fdi che non è cresciuto nell'estrema da destra. Consigliere ascoltato dalla premier, è il volto moderato di Fdi nei salotti buoni. Da quando si è dimesso da deputato, nel 2019, si è dedicato agli affari: ha guidato aziende attive nel mondo delle navi da guerra, ma anche una srl familiare che si occupa di lobbying. Nel giorno della nomina al governo ha annunciato di voler lasciare ogni incarico.

Il primo tweet dopo la nomina doveva servire ad allontanare ogni accusa di conflitto d’interesse. O almeno a provarci. “Per tutti quelli che (non per amore) me lo stanno chiedendo, rispondo: mi sono già dimesso da amministratore, di ogni società privata (non ne ricopro di pubbliche) che (legittimamente) occupavo. Liquiderò ogni mia società (tutte legittime). Rinuncio al 90% del mio attuale reddito”, ha scritto Guido Crosetto, un minuto dopo che Giorgia Meloni ha letto il suo nome come nuovo ministro della Difesa. Non è bastato visto che, nel giorno della nascita del nuovo governo, in tanti ricordano il suo recentissimo passato – praticamente presente – da imprenditore attivo nel ramo Difesa: lo stesso delicatissimo settore che ora gestirà da ministro. Proprio per questo motivo i rumors della vigilia accreditavano Crosetto allo Sviluppo economico. Alla fine, però, al Mise è andato Adolfo Urso, che invece al contrario sembrava certo della nomina alla Difesa. E’ probabile che sul destino dell’ex presidente del Copasir abbia pesato la moglie, che viene dal Lugansk, repubblica russofona inglobata da Vladimir Putin. Dopo le “sparate” di Silvio Berlusconi sull’Ucraina e sull’inquilino del Cremlino, era dunque il caso di metterlo al vertice della Difesa italiana? Chissà, forse gli alleati atlantici non avrebbero gradito. In ogni caso Meloni ha deciso di dirottare Urso allo Sviluppo economico, che ora si chiama ministero delle Imprese e del Made in Italy. E ha preferito rischiare di prendersi le accuse di conflitto d’interessi (avanzate per esempio da Angelo Bonelli dei Verdi), pur di piazzare alla Difesa uno dei suoi consiglieri più fidati. Uno di quelli che sta in Fdi fin dal principio.

Il gigante e la bambina – All’inizio gli appassionati di Lucio Dalla se l’erano cavata senza troppa originalità: il gigante e la bambina li avevano ribattezzati. La bambina era Meloni, il gigante ovviamente era Crosetto, un uomo di quasi due metri che all’Auditorium Conciliazione, a Roma, si era caricato in braccio la piccola aspirante leader, oggi presidente del consiglio. Era il 2012 e stava per nascere Fratelli d’Italia: dal Pdl uscirono Meloni, Ignazio La Russa e tutta una serie di ex An che non avevano seguito Gianfranco Fini nello strappo di Futuro e Libertà. E poi c’era lui, il piemontese col fisico da gigante e il volto buono che veniva da tutt’altra storia: niente fiamme tricolori e botte giovanili, niente braccia tese, il culto di Giorgio Almirante e nostalgici souvenir del ventennio. Se La Russa faceva rissa nel Fuan degli anni di piombo e Meloni ha scalato Azione giovani nei primi Duemila, Crosetto, infatti, è cresciuto sotto la rassicurante ombra dello Scudo crociato. “Io ho la fortuna di essere stato democristiano, altrimenti pelato così chissà cosa mi direbbero…”, rivendicava su La7 con una mezza risata. Una battuta utile a difendere Meloni da chi ciclicamente insiste (o insisteva) chiedendole di prendere le distanze dal fascismo.

Il volto moderato di un partito non moderato – In effetti una delle cose che riesce meglio a Crosetto è proprio questa: offrire il suo corpo per difendere la ragazza della Garbatella che si è scelto come leader, in tempi non sospetti. Anni fa quando tutti parlavano ancora solo di Berlusconi e Matteo Salvini lui faceva notare come nei sondaggi Giorgia fosse avanti, anche se poi Fdi faticava a superare il 5 percento. I fatti gli hanno dato ragione: se oggi Meloni entra a Palazzo Chigi un po’ di merito è anche di Crosetto, il gigante buono che della capa di Fdi è ascoltatissimo consigliere. Da anni è Crosetto il volto moderato di un partito considerato troppo a destra: il profilo rassicurante, il mediatore, quello che ha accesso ai salotti bene e ha strappato alla Lega i voti degli imprenditori del Nord Ovest. La fonte che i giornalisti chiamano semplicemente per nome e il contatto al quale tutti possono sempre rivolgersi. Soprattutto ora che Fdi è la prima forza del Paese e “Guido” al telefono continua a rispondere a tutti. Tranne quando era all’estero e sosteneva di non saperne nulla delle trattative per la formazione del governo.

Lauree che non lo erano – Piccole bugie bianche. Come quando, meno di un mese fa, negava ogni ipotesi d’ingresso al governo. “Se aspetti me Ministro, muori di vecchiaia alla stazione”, scriveva sul suo seguitissimo profilo twitter (quasi 230mila follower). Dove ha dovuto aggiornare la sua biografia: “Libero da pregiudizi per convinzione, garantista per dna, conservatore per nascita, rispettoso per scelta. Ex tante cose. Ora uomo libero ed imprenditore”, è il modo con cui si presentava sul popolare social network, da quando – nel 2019 – riuscì finalmente a dimettersi dalla Camera al terzo tentativo. Da quel momento, pure senza mai lasciare Fdi, si è dedicato agli affari e ai commenti. Ogni giorno su twitter Crosetto spiega come la pensa su questo o quel fatto di cronaca politica, nera o sportiva: juventino, su twitter non si sottrae a risse e litigi a distanza. “Quando penso che una persona sia una ‘testa di beep‘ glielo dico tranquillamente”, spiegava al Sole 24 ore. Piemontese di Marene, provincia di Cuneo, dove ha fatto il sindaco per dieci anni e dove la sua famiglia produce rimorchi agricoli addirittura dal 1937, il gigante Crosetto comincia a interessarsi alla politica ai tempi dell’Università, leader del movimenti giovanili della Dc. Nel 1987, quando aveva solo 24 anni, Giovanni Goria, presidente del consiglio per nove dimenticabili mesi, lo vuole a Palazzo Chigi come consigliere economico. “Sì. Avevo 24 anni e mi ero appena laureato in Economia…”, raccontò lui a Sette del Corriere della Sera. E in effetti sul sito della Camera gli riconoscevano una laurea in Economia e Commercio che però, alla fine, lui non aveva mai preso. A scoprirlo fu un giornale locale piemontese, lo Spiffero. “Mi spiace. Ma lo ammetto: ho ceduto, sono stato debole… e ho raccontato una piccola, innocente bugia“, ammise Crosetto, che nel frattempo era già sottosegretario alla Difesa nel governo Berlusconi.

Gli affari: soprattutto nel settore armi – Con la fine della Balena Bianca, infatti, Crosetto aveva trovato riparo in Forza Italia: consigliere comunale a Cuneo, coordinatore regionale del partito e infine deputato per tre legislature. La quarta, dopo una pausa di cinque anni, è durata pochi mesi: nel 2018, ottenuto il seggio con Fdi, si dimette quasi subito per dedicarsi agli affari. Che affari? Armi soprattuto, ma anche turismo. Senza mai uscire da Fdi, infatti, dal 2014 Crosetto era senior advisor di Leonardo, l’ex Finmeccanica fiore all’occhiello del Paese. Ma era pure presidente di Orizzonte Sistemi Navali, società statale (controllata sempre da Leonardo e pure da Fincantieri) del settore delle navi da guerra, e al vertice dell’Aiad, la Federazione delle aziende italiane dell’Aerospazio. Incarichi dai quali ha annunciato di essersi dimesso, proprio nel giorno della nomina a ministro della Difesa.

Il conflitto d’interesse – Per provare ad allontanare ogni spettro di conflitto d’interesse, infatti, Crosetto aveva annunciato di volersi disfare anche la Csc & Partners Srl, società di lobbying che possiede in società col figlio Alessandro e la compagna Graziana Saponaro. Dopo un esordio record (fatturato da 272mila euro e utile da 179mila euro), il neo ministro ha fatto recentemente sapere – sempre via twitter – di volerla liquidare: “Sono fatto così male che adesso che una mia amica, che fino a due giorni fa non contava, conterà, ho deciso di liquidarla perché nessuno possa fare illazioni”. Ma con chi ha lavorato la Csc? Chi erano i suoi clienti? A questa domanda, posta dal Fatto Quotidiano, Crosetto non aveva voluto rispondere. E inevasa era rimasta anche la domanda sui suoi redditi. “Sarebbe più veloce chiedermi il 740, visto che sono solo redditi legittimi e corretti”, replicava sempre su Twitter. Adesso la sua dichiarazione dei redditi dovrà pubblicarla sul sito del governo.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/10/22/guido-crosetto-armi-affari-e-tweet-chi-e-consigliere-fidato-di-giorgia-meloni-che-e-finito-alla-difesa-con-lombra-del-conflitto-dinteressi/6846455/

mercoledì 9 febbraio 2022

L’eterno conflitto di interessi di Berlusconi che epura Meloni. - Peter Gomez

 

In un Paese come il nostro, in cui quasi tutti fanno i liberali con il fondoschiena degli altri, accade che per giorni una forza politica venga esclusa dalle reti Mediaset senza che nessuno proferisca parola. Davanti ai giornali che raccontano come l’ex Cavaliere si sia adombrato per una frase di Giorgia Meloni (“Non gli devo niente”), e come per questo siano stati annullati molti inviti di esponenti della destra nelle trasmissioni di Rete 4, la politica reagisce con il silenzio.

Stanno zitti quelli che un tempo salivano sulle barricate per condannare il conflitto d’interessi e tacciono ovviamente anche quelli secondo cui il conflitto d’interessi non è mai esistito. L’assordante silenzio dei nostri sedicenti difensori della democrazia ha una spiegazione precisa. E ha poco a che fare con l’egoismo dei vari leader che, sotto sotto, gioiscono per la punizione inflitta a un avversario. Il vero motivo per cui nessuno proferisce verbo è la paura. Il timore, fondato, di subire ritorsioni catodiche se ci si espone troppo.

Per capire cosa rischia chi alza la voce basta sfogliare la collezione dei giornali. Era il 2004 quando, stando alle cronache, il vicepremier del governo Berlusconi, Marco Follini, allora segretario dell’Udc, si mette a battibeccare con il leader di Forza Italia che, dopo l’ennesimo scontro, gli dice “ti faccio sparire e sparare dalle mie tv”. Risultato: Follini scompare e lascia la politica. E gli altri incassano l’avvertimento. La scena si replica, con le opportune correzioni, nel 2018, quando i parlamentari forzisti vanno in delegazione ad Arcore per accusare i conduttori Mario Giordano, Paolo Del Debbio e Maurizio Belpietro di aver dato troppo spazio al populismo finendo così per far vincere Matteo Salvini, che ha sopravanzato Forza Italia nelle urne. Le trasmissioni vengono cancellate. Nessuno però protesta. Non lo fanno i politici, neppure quelli della Lega, e nemmeno i giornalisti che, dal canto loro, sperano di tornare in video forti dei loro buoni ascolti e del mutato quadro politico. Sì, il quadro politico. Perché è proprio Berlusconi a dare l’assenso all’ingresso del Carroccio nel primo governo Conte. Il leader azzurro spera (a ragione) che in questo modo Salvini faccia da tappo alle norme sul conflitto d’interessi promesse dai pentastellati durante la campagna elettorale. Così le trasmissioni riprendono e tutti possono far finta di essere liberi.

Intendiamoci, un editore ha tutto il diritto di stabilire cosa mandare o non mandare in onda. E allo stesso modo, visto che ci mette i soldi, ha pure il diritto di stabilire assieme ai suoi direttori la linea politica delle sue testate. Ma il gioco è pulito e alla luce del sole se l’editore fa solo l’editore. Se invece è pure un politico, l’informazione si trasforma, quando serve, in propaganda. Cioè non sempre, ma solo al momento opportuno.

Visto che le cose stanno in questo modo, non ci si deve stupire se pure Giorgia Meloni, dopo essere stata bandita, ha subito cambiato registro. Non ha alzato la voce, ma ha parlato di “incomprensioni”. Poi si è messa a elogiare Berlusconi, che “è stato un gradissimo presidente del Consiglio” capace di “assicurare all’Italia l’autonomia energetica grazie ai suoi rapporti con Russia e Libia”. Così il sovrano, pardon il presidente, ha dimenticato e perdonato. E lei è stata riammessa in tv (a corte si vedrà).

Non so a voi, ma a me viene in mente Charles Baudelaire quando diceva che “il più grande trucco del diavolo è far credere che non esiste”. Come il conflitto d’interessi.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/02/09/leterno-conflitto-di-interessi-di-berlusconi-che-epura-meloni/6486958/?utm_content=marcotravaglio&utm_medium=social&utm_campaign=Echobox2021&utm_source=Facebook&fbclid=IwAR2g0QeszDTiJ6Fvogk-VRfj0BhdtLSLmyJhi6Sbw_9BgtMXnrNN9ZYpTHc#Echobox=1644398728

venerdì 23 aprile 2021

Bongiorno conflitti d’interesse. - Gaetano Pedullà

 

Fosse per certi leghisti dovrebbe dimettersi pure Papa Francesco. Quindi che c’è da meravigliarsi se ieri si sono svegliati con la pretesa di cacciare dal governo la sottosegretaria Macina, coriacea esponente dei 5 Stelle passata per le armi senza bisogno di processo per lesa maestà dell’esimia senatrice avvocatissima Giulia Bongiorno. Che ha fatto di così grave la Macina per meritare di dimettersi, al contrario di quello che fior di leghisti con condanne sul groppone non si sognano di fare?

Ebbene sì: la Macina ha osato mettere il dito nell’eterno conflitto d’interessi che avvolge politica e affari (leggi l’articolo), in questo caso estesi alle professioni. La Bongiorno è infatti un parlamentare – uno dei tanti – che legittimamente per quelle che sono le regole attuali ha diritto a un sontuoso stipendio pubblico e contemporaneamente continua a lavorare. I nostri deputati e senatori, d’altra parte, si sa che dispongono di poteri soprannaturali e quindi possono fare anche due o più attività insieme, tanto chi li sta a sindacare?

E poi  nella gruviera dei regolamenti tutto è permesso, compreso far retribuire da un governo straniero un legislatore nazionale, come fa alla luce del sole Renzi d’Arabia. Nella querelle tra Bongiorno e Macina c’è però di più: c’è il dubbio che il ruolo dell’avvocatessa nel partito di Salvini  possa confliggere con la difesa della presunta vittima dello stupro di cui è accusato il figlio del fondatore dei 5S, Movimento politicamente contrapposto alla Lega.

Dubbio che la Bongiorno ha tutto il diritto di considerare una grave insinuazione, ma che oggettivamente riecheggia nella testa di chi assiste alla vicenda giudiziaria di Grillo Jr, che inevitabilmente è anche una vicenda politica. Dunque, invece di chiedere dimissioni a vanvera, la Lega farebbe meglio a impegnarsi per fare approvare una legge seria sul conflitto d’interessi, e in vista del taglio dei parlamentari – che concentrerà più responsabilità in meno persone – far decidere una volta per tutte a chi è eletto dal popolo se vuole lavorare per i cittadini o per se stesso. Miliardari e professionisti non saranno più incentivati a mettersi a disposizione della Patria? Chissà che per quanto hanno dato molti di loro nessuno ne sentirà la mancanza.

La Notizia.

giovedì 15 ottobre 2020

La figlia di Fontana e le tre consulenze per gli ospedali. - Davide Milosa

 

Vertici scelti dal papà.

Ieri i camici al cognato, oggi le consulenze alla figlia. Per il presidente Attilio Fontana i guai sembrano non finire. Sul tavolo, incarichi dati da due ospedali pubblici di Milano all’avvocato Maria Cristina Fontana, figlia del governatore lombardo la cui giunta decide le nomine dei direttori generali nelle strutture sanitarie. E così dopo l’affidamento diretto per mezzo milione ad Andrea Dini e dopo il caso dell’ex consigliere regionale Luca Marsico, già ex collega dello studio legale di Fontana che, come emerso dall’inchiesta Mensa dei poveri, fu nominato nella commissione regionale del Nucleo di valutazione degli investimenti, la storia sembra ripetersi. Nel caso Marsico, Fontana è stato indagato per abuso d’ufficio, accusa archiviata su richiesta della Procura di Milano. In quella dei camici è accusato di frode in pubbliche forniture. Ecco allora la nuova storia che a oggi nulla ha di illegale. Dagli atti dell’ospedale Sacco e dell’Azienda socio sanitaria territoriale (Asst) Milano nord che comprende gli ospedali di Cinisello Balsamo e di Sesto San Giovanni emergono tre consulenze affidate all’avvocato Maria Cristina Fontana.

Dalla metà del 2018 la figlia di Fontana è titolare dello studio dopo che il padre, eletto governatore, si è dimesso. A oggi, va detto subito, la vicenda non ha rilievo penale. Resta invece il rilievo politico e di trasparenza. Tra il 6 e il 20 settembre 2018, con Fontana presidente, l’area affari legali dell’Asst Milano nord affida all’avvocato Maria Cristina Fontana due incarichi professionali. Il primo inizia il 6 settembre e viene pagato 6.383 euro. Il secondo è del 20 settembre. Stessa voce: incarico professionale, ma nessun riferimento al costo che, si comprende dall’atto, viene pagato da una delle compagnie assicurative dell’ospedale. In quel settembre, Fontana è già governatore (il mandato inizia il 26 marzo) e sulla poltrona di direttore generale dell’Asst Milano nord siede Fulvio Odinolfi nominato dalla giunta di Bobo Maroni. La cronologia prosegue con un documento dell’ospedale Sacco di Milano, diventato noto a livello mondiale dopo l’inizio della pandemia. Qui il direttore generale è Alessandro Visconti nominato a inizio del 2019 da Fontana. Nomina di cui la Procura chiede conto al presidente durante l’interrogatorio per l’inchiesta Mensa dei poveri. In quel caso il governatore conferma la nomina, ma spiega la scelta non dal punto di vista dell’appartenenza politica ma delle capacità professionali. Maria Cristina Fontana sotto la direzione di Visconti ottiene una consulenza dal Sacco. Il documento è del 31 gennaio 2019.

Nell’oggetto si legge: “Costituzione nel giudizio promosso inanzi al tribunale di Milano (…) e conferimento dell’incarico a difesa dell’ente all’avvocato Maria Cristina Fontana”. Costo della consulenza pagata dal Sacco: 5.836 euro. Cifra che sommata alla precedente del 2018 porta a un totale di 12.246 euro pagati da due ospedali pubblici alla figlia del governatore, il quale decide sulle nomine dei direttori generali. Dal Sacco si torna all’Asst Milano nord, è il 29 aprile scorso. Qui il dg, dopo il valzer delle nomine di fine 2018, è la dottoressa Elisabetta Fabbrini. Il documento firmato anche dal dg è la delibera 284 che segue un verbale del 27 aprile della Commissione per la valutazione delle domande di iscrizione all’elenco degli avvocati esterni agli enti. I nomi dei legali vengono divisi per categorie. In due, quella fallimentare e quella sulla medical malpractice, compare l’avvocato Maria Cristina Fontana. Qui non vi sono costi perché le consulenze saranno affidate solo se l’ente ne avrà necessità.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/15/la-figlia-di-fontana-e-le-tre-consulenze-per-gli-ospedali/5966578/?fbclid=IwAR23eiR3bbZkdTVmrJBc_fRRxxPRLY4p3-yiono8JQIXlX99WqTULo0Bg0M

venerdì 2 ottobre 2020

Manganello penna e calamaio. - Gaetano Pedullà

 













Se ci fossero ancora dubbi sull’urgenza di vietare i conflitti d’interessi degli editori di tv e giornali, l’ultima richiesta di rinvio a giudizio per il re delle cliniche private Antonio Angelucci (nella foto) chiarisce tutto. La Procura di Roma (leggi l’articolo) accusa l’imprenditore e deputato di Forza Italia di aver tentato di corrompere l’assessore alla Sanità della Regione Lazio, Alessio D’Amato, in cambio di un mucchio di soldi pubblici per una delle sue case di cura. Che i rapporti tra i due fossero pessimi lo avevamo capito tutti, perché da settimane i giornali di Angelucci – Il Tempo e Libero – bombardano D’Amato, riesumando persino inchieste di 15 anni fa e prescritte. Articoli in prima pagina che non ha ripreso nessun altro giornale, tanto era evidente che si trattasse di un regolamento di conti.

Lo stesso Tempo, d’altra parte, ha aumentato gli attacchi a Zingaretti, oltre quelli di sempre alla Raggi, da quando Angelucci ha assunto come vice direttore l’ex presidente della Regione, Francesco Storace, che nel precedente ruolo autorizzò enormi flussi di denaro pubblico verso il Gruppo del suo attuale editore. Di questa vicenda La Notizia ha già scritto (leggi l’articolo), ottenendo da Storace la minaccia di un’azione legale (per cosa?) invece che le dimissioni dal Tempo per una palese inopportunità. Questa storia, niente affatto diversa da mille altre, testimonia quanto la stampa sia usata come una clava dai suoi editori e dai giornalisti che per fare carriera li devono compiacere.

Nessuno però si scandalizza se RepubblicaStampa e Secolo IXX siano della Fiat, Il Sole 24Ore della Confindustria, Il MessaggeroIl Mattino e Il Gazzettino di Caltagirone e così via, con pochissime eccezioni come questo giornale, non a caso più piccolo e spesso maltrattato (ci vedete più nelle rassegne stampa?). Un discorso che si fa ancora più scabroso se guardiamo alle tv, dove al conflitto d’interesse economico si aggiunge quello politico, per l’evidente linea editoriale delle reti Mediaset (Berlusconi) e della lottizzazione nei canali Rai. Possiamo perciò meravigliarci che tutti i giornali e tutte le tv siano schierati contro chi non si piega agli interessi dei loro padroni? Così si sono convinti milioni di italiani che il vecchio sistema è buono e dalla loro parte, mentre l’unico obiettivo è bloccare ogni cambiamento e restaurare la politica che vuol finire di spolparci.

https://www.lanotiziagiornale.it/editoriale/manganello-penna-e-calamaio/

La Ue ci rimprovera sull’informazione (e ha le sue ragioni). - Peter Gomez


 


Visto che la stragrande maggioranza dei giornali e delle tv, certamente a causa di un’incolpevole svista, ieri non ve l’ha raccontato, oggi ve lo raccontiamo noi. Quasi fossimo un’Ungheria qualsiasi, la Commissione Ue dice che “l’indipendenza politica dei media italiani” è e “resta un problema”. Ricorda che a 15 anni di distanza dai primi allarmi ufficiali, l’Italia non ha ancora una vera legge sul conflitto d’interessi e, nel suo primo rapporto sullo Stato di diritto nell’Unione, ci colloca tra i Paesi a rischio “medio” in materia di libertà di stampa.

Per Bruxelles, da noi “l’influenza politica continua a farsi sentire in modo significativo nel settore audiovisivo” (vedi Berlusconi) e, sia pure in “misura minore”, in quello “dei giornali, a causa dei rapporti indiretti tra gli interessi degli editori e il governo, a livello nazionale così come a livello locale”.

Traduzione: nel nostro Paese la maggior parte degli editori non stampa quotidiani e riviste perché spinta da una sana capitalistica voglia di guadagnare. In Italia invece i grandi editori sono spesso dei signori che fanno i soldi in altro modo: ad esempio con le costruzioni (Caltagirone), con la sanità privata (Angelucci), con le auto (Agnelli-Elkann). Le loro fortune non dipendono dal numero di copie vendute, ma da altri affari molto più remunerativi che dipendono, quelli sì, dalle scelte della politica. Decidere se rendere edificabili o meno delle aree, se accreditare a livello regionale una clinica o se tassare i veicoli più inquinanti fa parecchia differenza nei loro bilanci. Essere proprietari di mezzi d’informazione permette così di blandire gli amministratori nazionali o locali più vicini ai propri interessi e di stangare gli altri. Come? Non solo con opinioni e commenti, ma anche scegliendo quali notizie pubblicare o non pubblicare, o quale rilevanza dare agli articoli. Nelle scorse settimane, ad esempio, prima Il Tempo e poi Libero (editi da Angelucci) hanno dato ampio spazio a una notizia riguardante l’assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D’Amato: l’apertura di un’indagine da parte della Corte dei conti su 275mila euro versati nel 2006 e 2007 dalla Regione a un’associazione a lui riconducibile. Sulla vicenda c’era stata pure un’inchiesta penale per truffa da cui Amato era uscito grazie alla prescrizione.

Attenzione: la notizia era vera ed è giusto che sia stata pubblicata. Quello su cui si deve invece riflettere è la tempistica. La campagna stampa contro D’Amato parte dopo che l’assessore revoca l’accreditamento alla residenza per anziani San Raffaele Rocca di Papa del gruppo Angelucci. Nella Rsa c’erano stati 43 morti per coronavirus e 168 contagiati. E D’Amato, dopo aver constatato che il dirigente sanitario non aveva i titoli per quel ruolo, che le “violazioni dei protocolli”, peraltro redatti da un infermiere, erano state gravissime, era passato all’azione. Un bel danno per il “re delle cliniche romane” Antonio Angelucci, 76 anni, deputato di Forza Italia. In passato, secondo un avviso di chiusura indagini notificato proprio ieri, Angelucci aveva già avuto problemi con D’Amato. Nel 2017, sostengono i pm di Roma, aveva tentato inutilmente di corromperlo con 250mila euro, 50mila dei quali “asseritamente” da consegnare subito, per ottenere l’ok a dei pagamenti in favore di un’altra clinica di Velletri a cui era pure stato revocato l’accreditamento. Vedremo come finirà l’istruttoria. Ma già ora possiamo dire che, con editori così, in Italia tra le mazzette dei giornali e quelle vere è sempre più arduo cogliere le differenze. E in Europa lo sanno.

(foto: da "Silenzi e Falsità" tramite internet)

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/02/la-ue-ci-rimprovera-sullinformazione-e-ha-le-sue-ragioni/5951392/

martedì 9 giugno 2020

Camici, inchiesta aperta a Milano. A Como arriva un’altra denuncia. - Gianni Barbacetto e Davide Milosa

Camici, inchiesta aperta a Milano. A Como arriva un’altra denuncia

La Procura di Milano ha un fascicolo aperto sulla fornitura di camici e altro materiale sanitario offerti alla Regione Lombardia dalla Dama spa, l’azienda controllata da Andrea Dini e da sua sorella Roberta, moglie del presidente lombardo Attilio Fontana.
Giornata pesante, quella di ieri, per il presidente, che in mattinata ha visto il Tar annullare l’accordo della Regione con Diasorin sui test sierologici. Poi il Fatto ha dato notizia dell’indagine sui camici: un fascicolo per ora a modello 45, senza indagati e ipotesi di reato. Riguarda la fornitura ad affidamento diretto, che la Regione accetta ad aprile 2020, di materiale sanitario per 513 mila euro, che Dama spa ha fatturato in data 30 aprile.
La vicenda è stata raccontata domenica dal Fatto Quotidiano, anticipando una inchiesta giornalistica di Giorgio Mottola andata in onda ieri sera nel programma Report di Rai3.
Fontana ha passato la giornata di ieri a difendersi, sostenendo che si è trattato non di una fornitura commerciale, ma di una donazione. “Non c’è stato alcun equivoco. Sono stati comprati tutti i camici di tutti quelli che li producevano perché ne avevamo bisogno. Da parte dell’azienda di mio cognato i camici sono stati donati. Quindi non c’è alcun problema”.
Eppure l’affidamento diretto a una azienda controllata dalla moglie e dal cognato del presidente della Regione configura un imbarazzante conflitto d’interessi. Potrebbe in astratto comportare anche un’ipotesi d’accusa di abuso d’ufficio, ma la Procura milanese, in attesa di compiere accertamenti, ha aperto soltanto un fascicolo a modello 45, cioè senza indagati né ipotesi di reato. All’ufficio diretto dal procuratore Francesco Greco era arrivata nelle scorse settimane una segnalazione proveniente dall’interno di Aria, la centrale acquisti della Regione Lombardia. Una segnalazione da Aria risulta sia arrivata anche alla Procura di Como.
Dama spa compare regolarmente nell’elenco fornitori della società regionale Aria. Ma a differenza di altre aziende fornitrici, non ha sottoscritto il “patto d’integrità” del 2019, che comprende anche la dichiarazione di assenza di conflitti d’interesse. Così, in piena emergenza Covid, l’azienda aveva potuto presentare un’offerta commerciale alla Regione per la fornitura di camici, copricapi e calzari sanitari. Aria aveva accettato l’offerta, firmato l’ordine di fornitura il 16 aprile e il 30 aprile aveva ricevuto una regolare fattura, con pagamento previsto a 60 giorni.
Soltanto il 22 maggio (dopo che il giornalista di Report aveva chiesto spiegazioni a Dini e Fontana) erano cominciate ad arrivare in Regione note di storno di Dama spa che annullavano le richieste di pagamento. Ma le donazioni prevedono tutt’altra procedura, spiega uno specialista, l’avvocato Mauro Mezzetti: “Intanto non basta la decisione del solo rappresentante legale: è necessaria una decisione del consiglio d’amministrazione di cui deve essere informato il collegio sindacale, perché sia garantito che la donazione non danneggia l’azienda donatrice. Poi, se non si tratta di una donazione di beni di modico valore (e mezzo milione di euro non mi pare sia un valore modico)”, continua l’avvocato Mezzetti, “ci vuole un atto notarile, sottoscritto con la presenza di due testimoni e la redazione di una nota firmata da chi dona, da chi riceve e dal notaio”. Non solo: “L’atto di donazione va registrato entro venti giorni – conclude Mezzetti – altrimenti scattano sanzioni, perché le donazioni sono sottoposte a un’imposta dell’8 per cento, con pene pecuniarie per chi non paga”.

lunedì 2 dicembre 2019

La “belle époque” del renzismo. - Alessandro Da Rold e Simone Di Meo (La Verità)



La belle époque del renzismo, tra il 2014 e il 2016, aveva contagiato davvero un po’ tutti. Capitani d’ industria, professionisti, manager e stakeholder (formula inglese che copre il nostro brutale «portatore d’ interessi») che videro nel sindaco di Firenze il nuovo corso del centrosinistra in Italia. E, con la partecipazione, arrivarono anche i finanziamenti. Proporzionali alla caratura del donante e alla sua fiducia in Matteo. In totale, la fondazione Open – finita sotto inchiesta a Firenze con il suo ex presidente, Alberto Bianchi, accusato di traffico di influenze illecite e finanziamento illecito ai partiti – ha raccolto complessivamente oltre 6,7 milioni di euro.

LA RAI.
Molti sostenitori di Open sono stati poi nominati in aziende pubbliche o hanno ottenuto incarichi in orbita governativa, quando a Palazzo Chigi c’ erano Matteo Renzi o il suo successore. Uno dei più famosi è Antonio Campo Dall’ Orto (contributo di appena 250 euro) che nel 2014 diventa prima consigliere d’ amministrazione di Poste e poi direttore generale della Rai.

 Del 2014 è anche la nomina, nel board di Leonardo Finmeccanica, del manager Fabrizio Landi (10.000 euro). Nella lista dei sostenitori troviamo pure il giornalista Erasmo D’ Angelis (6.400 euro), designato alla direzione generale della struttura di missione contro il dissesto idrogeologico di Palazzo Chigi dal 2014 al 2015 e successivamente (2017, Gentiloni premier) segretario generale dell’ autorità di distretto idrografico dell’ Italia centrale. Fra il 2015 e il 2016 è andato a fare il direttore dell’ Unità.

A Palazzo Chigi ha lavorato anche Vincenzo Manes (62.000 euro). È stato «consigliere del presidente del Consiglio Renzi per il terzo settore e lo sviluppo dell’ economia sociale» («pro bono», specifica).

A quota 30.400 euro (la metà circa di quanto versato da Manes) troviamo un volto noto: quello di Alberto Bianchi, l’ avvocato amministrativista di Firenze che nel 2014 diventa consigliere di amministrazione di Enel, oggi indagato e perquisito due volte dalla Finanza su ordine dei pm che sospettano che la Open abbia operato come «articolazione di partito», nascondendo rapporti opachi tra politica e affari. A pari merito l’ imprenditore calzaturiero Gabriele Beni (25.000 euro a titolo personale più 5.000 euro con la sua società Calzaturificio Gabriele) che, nell’ ottobre 2014, è stato nominato prima consigliere e poi vicepresidente in carica di Ismea, Spa controllata dal ministero dell’ Agricoltura.

La lista del 2014 riserva ancora qualche spunto. Jacopo Mazzei (8.000 euro) è nel cda di Toscana Aeroporti, di cui è presidente un big renziano come Marco Carrai, indagato nell’ inchiesta Open per finanziamento illecito. Il 5% delle azioni della società appartiene alla Regione Toscana. Gabriele De Giorgi (1.050 euro versati nel 2014), figlio dell’ ex capo di Stato maggiore della Marina militare Giuseppe, è stato assistente del sottosegretario Domenico Manzione.

Fuori quota ci imbattiamo, invece, in Marco Seracini: commercialista di Renzi e ideatore della fondazione Noi link (antesignana della Open), diventato nel 2014 sindaco revisore di Eni. Diverso il discorso per Federico Lovadina, fondatore con Francesco Bonifazi dello studio Bl (Bonifazi e Lovadina) di cui è socio anche Emanuele Boschi, fratello di Maria Elena. Risultano finanziamenti di Bonifazi (sotto inchiesta per finanziamento illecito alla fondazione Eyu, di cui era presidente) a Open per 12.800 euro, e di Emanuele Boschi a Eyu nel 2017 per 40.000 euro.

Lovadina entra nel 2014 nel cda di Trenitalia, poi in Prelios, e ora è in Sia, controllata Cdp. Infine ci sono i maxi-finanziamenti dell’ ex Pd (oggi Italia viva) Gianfranco Librandi , che tra il febbraio 2017 e il giugno 2018 ha versato ad Open circa 800.000 euro, e della famiglia Maestrelli (300.000 euro), la stessa che nel 2018 ha prestato a Renzi 700.000 euro per l’ acquisto della supervilla di Firenze.

Ma oltre ai singoli finanziatori ci sono anche diverse aziende private che spesso lavorano o hanno avuto a che fare con il settore pubblico. A parte l’ immobiliarista Luca Parnasi, anche lui sotto inchiesta per il finanziamento a Eyu, c’ è il caso dei fratelli Orsero, tra i leader mondiali nella produzione e distribuzione di frutta.

Nelle casse di Open, prima Big Bang, il marchio di Albenga ha versato 20.000 euro nel 2013, in uscita dalla controllata Blue meer, e poi altri 50.000 nel 2014 dalla cassaforte Gf group. In quegli anni il gruppo è in difficoltà economiche. Proprio nel 2014 l’ autorità portuale di Savona, con Renzi premier e Delrio ministro delle Infrastrutture, rileverà con 24 milioni di fondi pubblici il 64% delle quote dell’ interporto di Vado (Vio), di proprietà degli Orsero.

MOBILI DI LUSSO.
Altro finanziatore è stata la Uno spa, azienda produttrice di mobili di lusso che ha stanziato 50.000 euro nel 2014 per gli esponenti del Giglio magico. Nel 2015 la Uno sarà celebrata sui quotidiani per una commessa a Dubai da 4 milioni di euro e un accordo con Fincantieri per gli arredi delle navi. C’ è poi il caso della Sinelec (25.000 euro nel 2014), azienda tecnologica del gruppo Astm group, secondo gestore al mondo di reti autostradali a pedaggio in concessione.

Nel cda della controllante siede – oltre ai fratelli Gavio, già finanziatori di Renzi – Arabella Caporello, ex direttore generale del Comune di Milano (giunta di Giuseppe Sala) e fondatrice del renzianissimo circolo della Pallacorda nel capoluogo lombardo. A finanziare negli ultimi anni la fondazione Open c’ è stata anche la Intesa aretina scarl (15.000 euro), consorzio che raduna i soci privati di Nuove acque, società a partecipazione pubblica che si occupa del servizio idrico in diversi Comuni toscani: tra i soci privati ci sono Suez Italia, Acea, Mps, Ubi banca e in passato anche Banca Etruria. Anche due aziende che hanno lavorato in Expo 2015 hanno versato soldi.

La Nacost navarra costruzioni del gruppo Navarra (30.000 euro tra il 2016 e il 2017), si occupò del Padiglione Italia e ora è ancora impegnata nel dopo Expo. E la Sicuritalia group service, con altri 30.000 euro sempre tra il 2016 e il 2017: durante l’ esposizione universale vinse con altre aziende il bando per la gestione della sicurezza.

Infine, a lato degli intrecci italiani, una curiosità internazionale. In Fondazione Eyu compare un bonifico da 87.000 euro di The tides foundation, collegata alla Open society di George Soros, tra i finanziatori di Greta Thunberg, la giovane che si batte per l’ ambiente. Forse l’ unica non renziana dell’ articolo.

https://infosannio.wordpress.com/2019/12/01/la-belle-epoque-del-renzismo/?fbclid=IwAR3EsIRQjIQMY6xagh2cXRCUwTzSbXYMEgRz_UxwIJNAQe86mawHI5-2xTw#jp-carousel-352321

domenica 12 maggio 2019

Conflitto di interessi, M5S prepara la norma "anti-tycoon".

Conflitto di interessi, M5S prepara la norma

Divieto incarichi nel governo statale o locale e nelle Authority per i soggetti titolari, anche per interposta persona, di patrimoni immobiliari o mobiliari oltre i 10 milioni di euro, fatta eccezione per i titoli di stato. E’ quanto prevede una bozza della proposta M5s sul conflitto di interessi, in possesso dell’Ansa, che fa anche riferimento alle partecipazioni superiori al 2% in imprese titolari di diritti esclusivi, monopoli, radio tv, editoria, internet o imprese di interesse nazionale.
La norma che dovrebbe essere inserita nella proposta del M5s sul conflitto di interesse regola le incompatibilità derivanti dalle attività patrimoniali. Nell’articolo si prevede che le autorità di governo, statali, regionali e locali e le autorità di garanzia, vigilanza e regolazione siano incompatibili con “la proprietà, il possesso o la disponibilità, anche all’estero” da parte di soggetti, anche coniuge o parenti di secondo grado o “persone stabilmente conviventi, salvo a scopo di lavoro domestico” o attraverso fiduciarie, “di un patrimonio mobiliare o immobiliare di valore superiore ai 10 milioni di euro” ad eccezione dei contratti relativi a titoli di stato.
La norma sull’incompatibilità include anche “la proprietà, il possesso o la disponibilità” di partecipazioni “superiori al 2%” in un’impresa che svolga la propria attività “in regime di autorizzazione o concessione rilasciata dallo Stato, dalle Regioni o dagli enti locali” o di imprese titolari di “diritti esclusivi” o “in regime di monopolio” o di aziende che operino nei settori “della radiotelevisione e dell’editoria” o della “diffusione tramite internet” nonché di altre imprese di “interesse nazionale”.

martedì 18 settembre 2012

TelecomMedia (Marco Travaglio).



Toh, Mediaset vuole comprarsi La7 da Telecom Italia Media. 
Direttamente o tramite una testa di legno. 
Chi l’avrebbe mai detto. 
Alla vigilia della campagna elettorale in cui si gioca tutto come nel ’94, B. vorrebbe neutralizzare la riserva indiana in cui si sono rifugiati gli artisti e i giornalisti cacciati da Mediaset e Rai. 
Ma sarebbe una notizia se no
n volesse farlo: vorrebbe dire che non è più lui. Invece è sempre lui, dunque non c’è notizia. Infatti gli unici a stupirsene sono quelli che lo davano per morto, anzi trovavano comodo darlo per morto. 


Per rimuovere il problema, evitare esami di coscienza e nascondere un fatto imbarazzante: cioè che da nove mesi governano con lui. 


Stiamo parlando del Pd, dell’Udc, dei fan acritici del governo Monti e dei loro house organ. Avete mai sentito le parole “antitrust” e “conflitto d’interessi” nelle bocche capienti di Bersani, Renzi (il suo spin doctor è Giorgio Gori e ci siamo capiti), Casini, ma pure Vendola? Le avete più lette su Corriere, Stampa, Repubblica, Unità? Nominarle significa infrangere un tabù, agitare il drappo rosso dinanzi al Caimano, rinfocolare l’antiberlusconismo (non sia mai), turbare la quiete dei tecnici. E resuscitare vecchi interrogativi che è meglio lasciar sepolti: perché il centrosinistra nel biennio 2006-2008 e il governo tecnico da novembre a oggi non han neppure tentato di riformare la legge Gasparri? Troppo pericoloso, meglio lasciar perdere. 


L’ultimo a parlarne, a parte noi del Fatto e il solito Di Pietro, fu Beppe Grillo nel V-Day del 2008, quando lanciò un referendum (poi bocciato dalla Cassazione) contro la Gasparri: il solito populista antipolitico che fa il gioco della destra. 


Mica come il compagno Violante, che nel 1995 confessò alla Camera di aver “garantito a Berlusconi e Letta che non gli sarebbero state toccate le tv”. 


Ora la questione non è se B. riuscirà a papparsi La7 (ovviamente per spegnere un piccolo ma pericoloso concorrente delle sue reti e soprattutto un focolaio d’infezione, cioè di informazione più libera o meno asservita del lazzaretto Raiset): se non lo farà, sarà solo perché il suo gruppo è alla canna del gas. La questione è che, a norma di legge Gasparri, potrebbe farlo. Lo spiega, sul sito del Fatto , Nicola D’Angelo, già membro Agcom: “In base all’art. 43 della Gasparri, Mediaset può acquistare La7 in quanto il limite antitrust è che nessun soggetto può avere ricavi superiori al 20% del sistema integrato delle comunicazioni (Sic). Nel calderone infinito del Sic, Mediaset detiene circa il 13%” e anche con La7 resterebbe sotto il tetto. Anche perché la pubblicità non è computabile nel Sic. 


Del resto, nel 2007, quando Tronchetti-Provera annunciò di voler vendere Telecom (con La7 in pancia) a una cordata messican-americana, il centrosinistra riattaccò la litania dell’“italianità” da difendere, anche a costo di darla a Mediaset, magari in tandem con l’amico Colaninno. Disse Fassino: “Mediaset è un operatore del settore, quindi può fare un’offerta”. Il Foglio svelò “incoraggiamenti dalemiani” a B. tramite il solito Latorre. Entusiasta, ma che sorpresa, anche Violante: “C’è un Berlusconi imprenditore e un Berlusconi politico: se, come imprenditore, investe le sue risorse in un settore di importanza strategica per il nostro Paese, non ci trovo niente di male”. Il 19 aprile B. accolse l’invito all’ultimo congresso Ds di Firenze e naturalmente parlò d’affari, i suoi: “Mediaset è pronta a entrare in Telecom per difenderne l’italianità… Siamo stati richiesti: il mio è un atto di generosità patriottica”. Poi, siccome era all’opposizione, propose un bel governo di larghe intese. E nessuno osò contestarlo. Poi Telecom finì alla cordata italo-spagnola Intesa- Mediobanca- Telefònica. Ora che Mediaset ci riprova, stupisce soltanto lo stupore dell’Unità, che titola sdegnata “Amici di Berlusconi su La7” e lancia l’allarme per “il pluralismo informativo”. Ma mi faccia il piacere.

Da Il Fatto Quotidiano del 16/09/2012.



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