domenica 5 dicembre 2010

Mastella, ora la casta lo salva dal processo. - di Marco Travaglio.


Le accuse: concussione,associazione a delinquere, truffa e peculato. Ma il Senato unito, meno l’Idv, ha detto “no”

Ricordate il processo a Clemente Mastella e famiglia (moglie, consuocero, cognato e mezza Udeur) per le lottizzazioni nelle Asl e negli enti pubblici della Campania, il mercato illegale degli appalti, la gestione allegra dei fondi pubblici al giornale Il Campanile con appartamenti romani incorporati? Bene, anzi male: il Parlamento ha deciso di abolirlo. Non Mastella: il processo. Venerdì, alla chetichella come si usa in questi casi, il Senato della Repubblica ha approvato per alzata di mano la proposta della giunta per le autorizzazioni a procedere di sollevare un conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato dinanzi alla Consulta contro i giudici di Napoli che osano processare l’ex ministro della Giustizia del centrosinistra, ora eurodeputato di centrodestra, senza chiedere il permesso al Parlamento. Tutti d’accordo (Pdl, Lega, Udc, Pd), tranne l’Idv. Motivo: i reati contestati a Mastella nell’udienza preliminare in corso da mesi a Napoli sarebbero stati commessi nell’esercizio delle funzioni di Guardasigilli, dunque di natura ministeriale, dunque sottoposti alla giurisdizione del Tribunale dei ministri di Napoli, ma solo previa autorizzazione a procedere del Senato. I difensori di Mastella, nell’udienza di sabato, hanno subito chiesto al gip di sospendere tutto fino a quando la Corte costituzionale non si sarà pronunciata (fra un anno o due, visti i tempi biblici della Consulta). Se il gip dovesse accogliere l’istanza di rinvio sine die, il processo morirebbe lì, con prescrizione assicurata. E non solo per Mastella, ma anche per i suoi 50 coimputati, che hanno immediatamente fatto propria la richiesta dell’ex ministro, ritenendosi attratti per contagio dalla sua speciale immunità, peraltro sconosciuta alle leggi.

La vicenda è talmente intricata che, se non se ne illustrano bene i passaggi, si rischia di non afferrare appieno la portata dello scandalo. L’inchiesta è quella avviata quattro anni fa dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere, che nel gennaio 2008 fece arrestare fra gli altri la signora Mastella, Sandrina Lonardo, il consuocero dei coniugi, Carlo Camilleri e un bel pezzo di Udeur campana per vari e gravissimi reati, poi notificò un avviso di garanzia all’allora ministro della Giustizia, che colse la palla al balzo per rovesciare il governo Prodi, passando armi e bagagli al centrodestra. Intanto, per competenza, il fascicolo fu trasmesso a Napoli, dove il pm Francesco Curcio proseguì le indagini, scoprì altri reati e lo scorso anno chiese i rinvii a giudizio sui quali, fra breve, dovrebbe pronunciarsi il gip Eduardo De Gregorio.

Le accuse: concussione,associazione a delinquere, truffa e peculato. Ma il Senato unito, meno l’Idv, ha detto “no”

Mastella è accusato di ben nove episodi delittuosi: quattro concussioni, tre abusi d’ufficio, un’associazione per delinquere e un caso di truffa, peculato e appropriazione indebita.

1) Concussione: in combutta col consuocero Camilleri, leader dell’Udeur beneventana e con due assessori regionali, Mastella avrebbe costretto il governatore Antonio Bassolino ad “assicurare loro la nomina a Commissario dell’Area sviluppo industriale (Asi) di Benevento di una persona liberamente designata dal Mastella” per “compensare la mancata attribuzione al suo gruppo politico della carica di presidente dello Iacp di Benevento”; per coartare la volontà di Bassolino, i due assessori presero a disertare le riunioni di giunta e Mastella ad “attaccarlo strumentalmente sulla gestione dei rifiuti”.

2) Tentata concussione: Mastella e la moglie Sandrina (presidente del Consiglio regionale) avrebbero perpetrato una “costante intimidazione” e “denigrazione” contro Luigi Annunziata, direttore generale dell’ospedale San Sebastiano di Caserta per cacciarlo dal suo incarico, visto che rifiutava di “procacciare favori, appalti, posti, incarichi dirigenziali e primariati a membri dell’Udeur”.

3) Abuso d’ufficio e rivelazione di segreti d’ufficio: Mastella avrebbe “istigato” il presidente della III sezione del Tar Campania, Ugo De Maio, ad aggiustare una causa in camera di consiglio per favorire un suo protetto e svantaggiare un’altra persona.

4) Abuso d’ufficio: Mastella, assieme al solito Camilleri, avrebbe istigato un suo assessore regionale a favorire un suo raccomandato ai vertici della comunità montana del Taburno.

5) Concussione: Mastella avrebbe costretto il sindaco di Cerreto Sannita a nominare un amico dell’Udeur ad assessore ai Lavori pubblici e ad assegnare il progetto dell’area industriale allo studio ingegneristico del consuocero Camilleri, minacciando in caso contrario “il congelamento dei finanziamenti regionali destinati al Piano di insediamento produttivo di Cerreto”.

6) Abuso d’ufficio: Mastella, assieme al consuocero, al cognato Pasquale Giuditta e ad altri, avrebbe chiesto e ottenuto l’assunzione indebita all’Arpac di ben 158 raccomandati suoi e dell’Udeur, in barba alle regole sulle competenze professionali, “per coltivare interessi di natura politico clientelare”.

7) Tentata concussione: Mastella & C. avrebbero intimato al direttore generale dell’ospedale pediatrico Santobono di Napoli di nominare primario un loro amico a scopo esclusivamente “clientelare”; e, quando quello rifiutò, fu investito da un’interpellanza dell’Udeur in Consiglio regionale che lo dipingeva come un incapace e dunque costituiva una minaccia di “rimozione dall’incarico”.

Associazione per delinquere: Mastella, la moglie Sandra e altri avrebbero dato vita a “un’associazione per delinquere, operante prevalentemente nella regione Campania, finalizzata alla commissione di una serie indeterminata di delitti contro la Pubblica amministrazione e, soprattutto, all’acquisizione del controllo delle attività pubbliche di concorso e gare pubbliche bandite dagli Enti territoriali campani, attraverso la realizzazione di reati di falsità ideologica, turbata libertà degli incanti, corruzioni, abuso di ufficio e rilevazioni del segreto di ufficio… essendo capi e promotori del sodalizio Mastella Clemente, Camilleri Carlo e Lonardo Alessandrina”.

9) Peculato, truffa e appropriazione indebita: Mastella, “al fine di procurare ingiusto vantaggio patrimoniale ai suoi congiunti Mastella Elio e Mastella Pellegrino” (i figli, che “attraverso lo schermo societario costituito dalla società Campanile srl, senza averne titolo, acquistavano dalla Scip a prezzo più basso di quello di mercato, l’immobile in Roma Largo Arenula già di proprietà dell’Inail, utilizzando anche fondi pubblici destinati al sostentamento dell’editoria”), “si appropriava indebitamente dell’intero capitale sociale del detentore del logo della testata Il Campanile Nuovo” e sarebbe riuscito persino a truffare l’Inail.
Tutti questi reati, secondo la Procura di Napoli, Mastella li avrebbe commessi “agendo in qualità di Segretario Nazionale del partito politico Udeur”. Dunque, mai come ministro. Del resto, alcuni gli vengono contestati “fino al luglio 2009”, quando non era più ministro da un anno e mezzo. E altri prima che lo diventasse. Che dice la legge sui reati commessi da un ministro? La risposta è nell’articolo 96 della Costituzione e nella legge costituzionale 1/1989 (che abolì la Commissione Inquirente), ma anche nella costante giurisprudenza della Cassazione: spetta al pm, titolare dell’azione penale, decidere se il reato commesso da chi fa il ministro è di natura “ministeriale” o ordinaria. Nel primo caso, il fascicolo passa al Tribunale dei ministri (una sezione ad hoc del Tribunale distrettuale), che però può procedere solo dopo aver avuto l’autorizzazione della Camera di appartenenza. Nel secondo, si va avanti come in un normale processo. Ma, fatta la legge, trovato l’inganno.

Le accuse: concussione,associazione a delinquere, truffa e peculato. Ma il Senato unito, meno l’Idv, ha detto “no”

Il 30 luglio scorso, la Camera (tutti d’accordo, tranne l’Idv) si costituisce in giudizio dinanzi alla Consulta contro i giudici di Livorno che stanno processando il ministro Altero Matteoli (Pdl) per favoreggiamento del prefetto: l’accusa è di averlo avvertito nel 2004 delle indagini e delle intercettazioni a suo carico per una brutta storia di abusi edilizi all’isola d’Elba. Il caso Matteoli è un unicum: la Procura aveva ritenuto che il reato Matteoli l’avesse commesso in quanto (nel 2004) ministro dell’Ambiente, dunque che fosse di natura ministeriale. Ma il Tribunale dei ministri giudicò diversamente: derubricò il reato da ministeriale a comune e restituì il fascicolo al Tribunale ordinario. La Camera però decise che, prima di farlo, il Tribunale dei ministri dovesse informarla. E sollevò un conflitto di attribuzioni alla Consulta, che le diede ragione con una sentenza controversa (l’illustre consesso si spaccò a metà e il relatore si dimise per protesta): il Tribunale, prima di riprendere il processo, avrebbe dovuto chiedere il permesso a Montecitorio. A quel punto la Camera, senza che nessuno gliel’avesse chiesta, negò l’autorizzazione a procedere contro Matteoli. Il Tribunale di Livorno sollevò a sua volta un conflitto alla Consulta contro la Camera per quell’obbrobrio giuridico. E il 30 luglio scorso la Camera si costituì in giudizio contro i giudici. Spalancando la strada al ritorno all’immunità automatica, almeno per i ministri, senza neppure cambiare la legge o la Costituzione. Venerdì 19 novembre, infatti, il Senato ha trascinato alla Consulta anche il Tribunale di Livorno per salvare Mastella e i suoi cari. Richiamandosi al precedente di Matteoli che, per quanto scandaloso, precedente non è perché è un caso totalmente diverso.

Per Matteoli la Procura (poi smentita dal Tribunale dei ministri) aveva ritenuto il reato “ministeriale”. Per Mastella nessuno ha mai ventilato un’ipotesi tanto assurda: né la Procura di Napoli, né tantomeno Mastella, che in due anni di indagini e udienza non ha mai eccepito nulla del genere. Del resto, basta leggere i capi d’imputazione: tutti fatti che, comunque li si voglia giudicare, riguardano Mastella come leader dell’Udeur, non certo come ministro della Giustizia. I ministri della Giustizia non si occupano di Asl, Arpac, Aisi, comunità montane, assessori in piccoli comuni, giornali e alloggi di partito. Dunque non c’è motivo per cui la Procura o il Gip debbano investire il Tribunale dei ministri o il Senato. Tutto fila liscio fino all’11 ottobre, quando nella fase finale della discussione in udienza preliminare, la difesa Mastella scopre all’improvviso la competenza del Tribunale dei ministri, invocando il precedente fasullo di Matteoli e sostenendo la ministerialità dei reati. Il Gip ovviamente risponde picche. A quel punto il Senato entra a piedi giunti nel processo e, col voto-inciucio di venerdì, tenta di mandarlo in fumo, denunciando i giudici di Napoli alla Consulta e sostenendo che spetta al Parlamento e non ai magistrati stabilire la ministerialità o meno dei reati commessi da ministri ed ex ministri.

Il paradosso tragicomico è che, secondo la legge costituzionale 1/1989, il Parlamento “può negare l’autorizzazione a procedere” solo se il ministro inquisito “ha agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo”. Ecco: forse lottizzare gli enti pubblici piazzando parenti e raccomandati, concutere pubblici ufficiali, pilotare appalti a fini clientelari, intascare soldi del finanziamento pubblico all’editoria o truffare l’Inail sono condotte tipiche di un ministro della Giustizia e vanno tutelate perché finalizzate a un “preminente interesse pubblico”. Nel qual caso, bloccare il processo a Mastella è poco: bisogna erigergli un monumento equestre.




Pd, prove di rivolta generazionale. - di Peter Gomez.




Per ora è solo un venticello. Poco più di un refolo che comincia a spirare gelido da nord. Eppure il tentativo di rottamazione della vecchia e inefficiente classe dirigente del Pd lanciato, sulle orme diMatteo Renzi, Pippo Civati e Debora Serracchiani, da 130 sindaci e responsabili del partito in Lombardia, è l’unica carta in mano al centro-sinistra per sperare di poter tornare un giorno al governo del Paese.

Mentre a Roma i borontocratosauri della nomenklatura democratica dialogano con i teorici avversari del neonato terzo polo nella speranza di far fuori (politicamente) l’ormai imbarazzante settantaquattrenne Silvio Berlusconi, in periferia quella che un tempo si chiamava la base raccoglie le firme per far fuori la propria dirigenza.

All’ombra della Madonina, come ci racconta Davide Vecchi, la direzione regionale e provinciale del partito di Bersani voterà una petizione che contiene due richieste: rendere obbligatorie le primarie nella scelta dei candidati (o meglio nominati) a un posto di deputato o senatore; impedire a chiunque di fare il parlamentare per più di due legislature. Documenti analoghi circolano pure in Liguria ed Emilia Romagna. In altre regioni (Toscana e Friuli Venezia) ordini del giorno di questo tipo sono già stati approvati. E non c’è circolo del Pd dove l’idea non trovi un buon seguito.

Solo la direzione nazionale non ci sente. Poco male. Se l’iniziativa, cosa tutt’altro che improbabile, prende piede i Bersani, i D’Alema, i Veltroni, i Fassino e le tante altre facce stanche e perdenti che da vent’anni governano (con scarso successo) il centro-sinistra, dovranno fare i conti con una salutare rivolta generazionale. Salutare per il centrosinistra e per il Paese.

I sondaggi e sopratutto gli umori dei cittadini, del resto, parlano chiaro. Sebbene Berlusconi si sia ormai rivelato agli occhi della maggioranza degli italiani per quello che è (il peggior premier del dopo guerra) il Pd non avanza di un passo. Anzi continua a perdere consensi. E se mai riuscisse a superare i berluscones (fatto improbabile) ciò accadrà solo perché il Popolo delle Libertà ha perso più voti di lui. La corsa, insomma, è al ribasso.

Di possibilità che la situazione cambi da sola non ce ne sono. Certo, l’esecutivo Pdl-Lega tra poco cadrà (forse già il 14 dicembre). Ma se si guarda al dopo diventa evidente come la prospettiva di questo centro-sinistra sia solo quella di essere ancora sconfitto. Anche Bersani lo sa. Per questo ha tanta paura delle elezioni. E ne avrà ancor di più se la chiamata alle urne dovesse giungere tra un anno, un anno mezzo, dopo mesi e mesi di un sempre più probabile governo tecnico sostenuto pure dai suoi uomini.

Le cose cambiano, e di molto, se invece si pensa a un partito che affronta l’appuntamento con il voto (in qualunque momento arrivi) dopo aver rinnovato almeno l’80 per cento delle sue candidature. Se si guarda a un Pd che viene costretto, dai suoi circoli, a non ripresentare gente che occupa la Camera e il Senato da tempi immemorabili (le famose eccezioni alla regola dei tre mandati). E che, come aspirante squadra di governo, mette in campo volti e storie di persone diverse. Uomini e donne che magari hanno ben meritato nel mondo del lavoro o come amministratori locali (ce ne sono molti più di quanto non si creda).

In questo caso il Pd può vincere. Può recuperare un pezzo importate di coloro i quali hanno deciso di non andare più a votare. E sopratutto può sperare di convincere anche i suoi avversari a rinnovare la propria classe dirigente. Ovvio, se tutto questo accadrà, non sarà indolore.

È illusorio pensare che l’attuale classe dirigente di quel partito (e di tutti gli altri partiti) si faccia da parte da sola. È formata da persone rotte a ogni esperienza, di consumata astuzia, d’incomparabile cinismo politico. E, oltretutto, come ogni oligarchia, è ricchissima: la legge sui rimborsi elettorali ha infatti finito per ricoprire d’oro le un tempo povere tesorerie dei movimenti politici. Le manca però una cosa: il consenso.

Per questo gli iscritti al Pd hanno oggi il dovere di andarselo a prendere da soli quel consenso. Cominciando davvero a far la guerra a chi in questi anni lo ha delapidato. La strada è ripida e in salita. Ma non ce ne sono altre.



Rottamazione continua.

Dal Pd lombardo parte l'offensiva su Roma: primarie per ogni parlamentare e limite di due mandati

Primarie per tutti i candidati parlamentari del Partito Democratico e limite di due mandati consecutivi. Quando lo proposero Giuseppe Civati e Matteo Renzi furono coperti di insulti dai vertici del Pd. Ma l’idea si è insinuata nella base, è maturata e adesso da Milano parte la rottamazione: un gruppo di oltre centotrenta tra sindaci e responsabili locali del partito hanno messo nero su bianco la proposta e la voteranno alla direzione provinciale e regionale. Dove sarà approvata facilmente, perché deputati e senatori sono in minoranza e raramente partecipano alle riunioni.

Al provinciale milanese, ad esempio, dei circa 150 esponenti territoriali almeno ottanta hanno firmato la petizione e i parlamentari che potrebbero votare contro sono meno di quaranta. Dalla Lombardia l’iniziativa si è già diffusa in Liguria ed Emilia Romagna. In Toscana le primarie per i parlamentari sono già previste nello statuto regionale del partito, che però la direzione nazionale non ha mai approvato, mentre in Friuli Venezia Giulia un ordine del giorno impegna i vertici del Pd locali a introdurre le primarie per i candidati di Montecitorio e Palazzo Madama entro i 15 giorni successivi dallo scioglimento delle Camere. Anche in Puglia il segretario regionale Sergio Blasi è pronto ad avviare il percorso.

Obiettivo condiviso è quello di non permettere più alla direzione nazionale di preparare le liste a tavolino e imporle. “Si sta diffondendo una coscienza critica nel partito stesso”, commenta Civati, tra i primi firmatari della petizione lombarda. “Tutti devono sottoporsi alle primarie. Quando lo proponemmo io e Renzi – ricorda – ci diedero degli stronzi, ora però si può realizzare e l’importante è questo: che si avvii il meccanismo, poi se il limite dei mandati viene fissato a due o tre non importa, ciò che conta è il principio”.

Principio che preoccupa non poco Roma. Tanto che lunedì scorso dagli uffici di Pierluigi Bersanisono partite due telefonate dirette a Maurizio Martina e Roberto Cornelli, rispettivamente segretario regionale e provinciale del Pd, per suggerire loro di non sostenere in alcun modo l’iniziativa. E così finora è stato. “Quando sarà il momento ne discuteremo”, ribatte Martina. Insistiamo: che ne pensa? “Sicuramente bisognerà individuare un meccanismo che garantisca una larga partecipazione alla costruzione delle liste, ma non adesso”. Cornelli, invece, pubblicamente ha parlato di una “idea legittima” ma ieri durante l’assemblea provinciale ha distrutto l’iniziativa. “È uno strumento populista e non ci perdo neanche dieci secondi”. A chi gli ha ricordato che da solo non decide niente, è sbottato: “Le liste le stabilisce il partito nazionale e a Milano non possiamo andare contro il partito nazionale”. Esattamente l’opposto di quello previsto nella petizione: avanti a prescindere. Cornelli ha ripiegato proponendo di “attivare una commissione che elabori una proposta da inviare a Roma”. Ma non basta e non basterà.

Martina e Cornelli sono considerati responsabili, con altri dirigenti locali, della sconfitta di Stefano Boeri alle primarie di coalizione per il candidato sindaco di Milano vinte da Giuliano Pisapia. E che le loro dimissioni siano state respinte ha ulteriormente inasprito gli animi. “Siamo ancora lì a elaborare il lutto”, dichiara uno dei giovani emergenti cittadini del Pd, Pietro Bussolati. “Serve vitalità, dobbiamo svegliare il partito e tutti noi ci aspettiamo che i leader prendano decisioni nette e precise a prescindere da Roma” perché “Milano deve uscire dall’angolo e serve coraggio”. Da qui “deve partire il segnale di rinnovamento per tutta Italia e per il Pd”, aggiunge Civati. Fiduciosa che il progetto si realizzi Debora Serracchiani. L’eurodeputata è anche segretario regionale del partito in Friuli Venezia Giulia. “Nel Pd ci sono più forze fresche di quel che si vede in Tv o si legge sui giornali”, dice. “È per questo che, anche se ora sembra dura, io ho fiducia. Da noi si discute e si litiga ma, a parte qualcuno che ha sbagliato strada dall’inizio, il Partito democratico non è in discussione, anzi è ben vivo”.

In discussione semmai sono gli attuali vertici. Che potrebbero essere azzerati. Se venisse introdotto il limite dei due mandati, pochi degli attuali parlamentari potrebbero candidarsi. Nella sola Lombardia ben 25 rimarrebbero esclusi. Barbara Pollastrini, Gerardo D’Ambrosio, Roberto Zaccaria, Enrico Letta, tra gli altri. “La rottamazione ha inizio e a volerla è la base”, Civati docet.