mercoledì 27 maggio 2020

Gallera prima di Gallera: da papà Lions ad Arcore. - Gianni Barbacetto

Giulio Gallera - Una carissima amica mi ha appena inviato ... Coronavirus. Per Gallera bisogna trovare due persone per ...

L’irresistibile ascesa Il nuovo “divo” Giulio autore di gaffe e disastri Covid è sempre stato un mister preferenze, dai tempi del liceo Vittorio Veneto.
Era dal mezzo pollo di Trilussa che non si sentiva un così sofisticato elogio della scienza statistica. Il milanese Giulio Gallera ha battuto il poeta romano: “Se l’indice di contagio è 0,5 servono due persone infette allo stesso momento per infettare me”. Come dire che per contrarre l’Aids (indice di contagio 0,1) bisogna fare l’amore contemporaneamente con 10 uomini, o 10 donne. Sono gli effetti collaterali del Covid-19: in poche settimane, imbolsito da un’indigestione di dichiarazioni, conferenze stampa, interviste, dirette Facebook, il più visibile e mediatico degli assessori regionali, pronto alla candidatura a sindaco di Milano, è precipitato nella Geenna dei reietti. Il centrosinistra chiede le sue dimissioni, la Lega lo vorrebbe cacciare. Prima delle illuminazioni statistiche, c’erano state la mancata chiusura in zona rossa di Alzano Lombardo, l’abbandono dei medici di base, i tamponi con il contagocce, il trasferimento degli infetti nelle residenze per anziani, i test sierologici prima rifiutati e poi liberalizzati, il flop dell’ospedale in Fiera. E prima ancora? Chi era Gallera, prima di diventare Gallera?
Era il figlio del Cavalier Eugenio, il padrone delle Ferriere. Quando Giulio nasce, nel 1969, la Ferriera di Caronno Pertusella, cresciuta negli anni del boom a metà strada tra Milano e Varese e a un passo dalla più nota acciaieria dei Riva, è diventata fornitrice dell’Alfa Romeo e fa utili d’oro. Poi la crisi dell’auto e la dismissione dell’Alfa di Arese fa chiudere anche la Ferriera di Caronno. Intanto Giulio si è iscritto al liceo scientifico Vittorio Veneto di Milano. Si professa liberale, come il padre, che oltre a essere Cavaliere del lavoro è anche “governatore” di quella forma moderata di loggia che è il Lions Club. Negli anni dei paninari, Giulio è un bravo ragazzo con le gote rosse che va vestito elegantino, giacchetta invece del bomber, non è proprio un fulmine con le ragazze, cerca di diffondere il verbo liberale, si scontra (a parole) con i ragazzi di sinistra e, benché non sia proprio quello che si dice un leader carismatico, riesce a farsi eleggere nel consiglio d’istituto. Dopo la maturità si iscrive a Giurisprudenza alla Statale di Milano, fa pratica presso lo studio di Marco Rocchini, il sindaco forzista di Arcore, e diventa avvocato. Ma a esercitare davvero la professione è solo suo fratello Massimo, perché Giulio è il politico della famiglia.
Comincia presto, facendosi eleggere due volte, nel 1990 e nel 1993, in consiglio di zona 19, San Siro, nelle liste del Partito liberale. Poi aderisce a Forza Italia, ala laica, non quella formigoniana di Cl, e nel 1997 viene eletto per la prima volta in Consiglio comunale. Dimostra subito una buona capacità di raccogliere voti. Tanto che, rieletto nel 2001, ottavo per preferenze, lo fanno assessore: al Decentramento e ai servizi funebri e cimiteriali, tanto per cominciare. Presagio del futuro? Con il suo sindaco, Gabriele Albertini, non va sempre d’accordo: da liberale, Gallera non approva per esempio la recinzione e la chiusura notturna di piazza Vetra, blindata in nome della sicurezza e della guerra agli spacciatori di fumo; e nel 2003 non si unisce al coro della destra che vuole proibire il concerto a Milano di Marilyn Manson. Cresce, in politica, elezione dopo elezione. Due piccoli incidenti, tra il 2010 e il 2011, non fermano la sua corsa. Il nome del fratello Massimo compare nell’elenco di Affittopoli, perché ha lo studio legale in un appartamento di Porta Romana di proprietà del Pio Albergo Trivulzio. Il nome di Giulio è scritto invece in qualche carta dell’antimafia di Ilda Boccassini, perché gli amici degli amici della ’ndrangheta lo nominano nelle loro telefonate come un possibile interlocutore a cui portare voti. Ma qui il terreno è minato: mai indagato, Gallera ha querelato il Fatto, che aveva raccontato la vicenda, ha vinto e ora chiede molti soldi perché gli avremmo rovinato la carriera. In realtà la sua carriera è stata finora tutta in ascesa. Consigliere di zona, consigliere comunale, capogruppo di Forza Italia, assessore comunale, poi consigliere regionale, infine assessore al Welfare, sanità e assistenza, nell’assessorato con il budget più ricco (19,2 miliardi) nella regione più ricca d’Italia.
Giulio Gallera è uomo fortunato, che trasforma le cadute (altrui) in balzi (propri). Entra in consiglio regionale, per dire, perché nel 2012 sostituisce, come primo dei non eletti, Domenico Zambetti, arrestato perché comprava i voti della ’ndrangheta a 50 euro l’uno. L’anno dopo entra al Pirellone per la porta principale, 11° nella classifica delle preferenze. Conquista la poltrona più ambita della giunta lombarda nel 2016, dopo che il suo predecessore alla Sanità, il ras di Forza Italia Mario Mantovani, atteso una mattina a Palazzo Lombardia per aprire i lavori della Giornata della Trasparenza, viene arrestato per corruzione e concussione. I leghisti cercano di approfittarne per impossessarsi della gestione della sanità lombarda, ma la coordinatrice di Forza Italia, Mariastella Gelmini, non molla la presa e impone Gallera. Poi è tutto un susseguirsi di manovre per contenerlo, mettendogli a fianco uomini di valore, come l’ex rettore Gianluca Vago e l’ex direttore generale della Statale Walter Bergamaschi. Niente da fare. Li fa fuori. Del resto, ha i voti: alle Regionali del 2018 è primo assoluto con 11.722 preferenze. Viene comunque controllato a vista da due leghisti che ne limitano le deleghe e controllano le scelte: Davide Caparini, assessore al Bilancio, e Giulia Martinelli, la Papessa, ex moglie di Matteo Salvini, capo di gabinetto del presidente regionale Attilio Fontana. Non bastano. Poi arriva Covid-19 e Gallera diventa incontenibile. Show quotidiani e gaffe. Ma ora forse la ruota della fortuna è girata.

Sta sparendo, ma con Renzi si deve convivere. - Antonio Padellaro

Pd diviso anche nella raccolta firme anti Salvini. E Renzi ferma ...
Il sorpasso di Carlo Calenda su Matteo Renzi (certificato dal sondaggio Swg di Enrico Mentana) può dirci molto su come sia mutata la percezione degli elettori nei tre mesi di Coronavirus. Non tanto per le percentuali assai ridotte (2,9% Azione, 2,7% Italia Viva) ma per la natura stessa dei due personaggi.
Da una parte un ex premier (de)caduto dalle vette del 41% che la scorsa estate grazie a un’abile e disperata manovra di palazzo si è costruito una preziosa rendita di posizione al Senato, dove i numeri per il governo sono ballerini. Con un partito che ha la consistenza di certe società di comodo: un indirizzo e una buca delle lettere. Quanto alla popolarità e alla simpatia del suo leader, vanno di pari passo ma si sono perse per strada.
Anche quello di Calenda più che un partito è un’insegna, ma (stando agli ascolti) quando parla la gente sembra seguirlo con attenzione. Durante la quarantena è stato costantemente sui teleschermi, spesso per criticare questa o quella cosa del governo Conte, non di rado con argomenti fondati. Il tono saccente, compensato da una certa autoironia non lo rende antipatico, anzi. Texano dai modi spicci, il presidente americano Lyndon Johnson diceva: “Meglio avere i tuoi nemici dentro la tenda che la fanno fuori, piuttosto che averli fuori dalla tenda che te la fanno dentro”. Aforisma smentito da Renzi, uno che nella tenda ci sta ma per farci i comodi suoi. Mentre Calenda, che pure è all’opposizione, forse nella tenda saprebbe come comportarsi.
L’Italia del dopo Covid-19 ne ha le scatole piene del gioco delle tre carte camuffato da politica. Vuole capire non essere manipolata. Cerca ascolto e autenticità, non la lingua biforcuta del qui lo dico e qui lo nego (la furbata che ha mandato assolto Salvini). Purtroppo, anche se nei sondaggi Italia Viva dovesse scomparire sotto la voce “altri”, con il renzismo di potere, come con certi virus endemici, siamo destinati a convivere a lungo.

Non sarà lo “straniero” a resuscitare Salvini. - Gad Lerner

Non sarà lo “straniero” a resuscitare Salvini

Nel pomeriggio di martedì 20 agosto dello scorso anno, al Senato, seduto accanto a Giuseppe Conte che ripudiava solennemente l’alleanza con lui e annunciava le dimissioni del suo primo governo, Matteo Salvini non riusciva a trattenere una serie di smorfie facciali. Stava rendendosi conto di avere commesso un errore politico fatale, di quelli che prima o poi si pagano caro.
Più o meno alla stessa ora il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, accompagnato da due medici, volava in elicottero a ispezionare la nave Open Arms che aveva raccolto in acque libiche 163 naufraghi, di cui 32 minori. Ne restavano a bordo 83, lasciati ventuno giorni in mare, gli ultimi sette a poche centinaia di metri dal porto. Alcuni si erano buttati in mare, altri avevano compiuto gesti di autolesionismo, per tutti la situazione era divenuta insostenibile. Il magistrato dispose l’immediato sbarco dei migranti e il sequestro della nave. Prese il via un’indagine per rifiuto o omissione di atti d’ufficio.
Salvini, dopo la trionfale vittoria alle elezioni europee del maggio precedente, si sentiva ormai predestinato a diventare il capo dell’Italia. Atteggiandosi a difensore dei confini della patria, minacciata da quei pericolosi invasori, aveva dettato l’ordine di bloccare la Open Arms dallo stabilimento balneare in cui trascorreva le vacanze.
Dopo anni di martellante propaganda era convinto, non del tutto a torto, di aver convinto l’Italia intera che la causa principale dei suoi mali fosse l’immigrazione. Lo avevano assecondato gli alleati del M5S e, di fronte a quell’esibizione di “cattiveria necessaria”, i politici del centrosinistra arretravano intimiditi. Si giunse ad additare come criminali i volontari del soccorso in mare e dell’accoglienza.
Non ho mai pensato che questa pagina vergognosa della nostra storia potesse trovare rimedio per via giudiziaria. C’è per fortuna un’Italia migliore che ha vissuto con disagio l’acquiescenza dei più. Salvini, trascinato all’opposizione dal suo stesso delirio di onnipotenza, fallirà la spallata al nuovo governo. Nel frattempo, purtroppo, anche la doppia tragedia dell’epidemia e della recessione si è incaricata di sovvertire la gerarchia delle paure. Nessuno se la beve più la favola che il pericolo per la povera gente venga dal mare. Ben altre sono le priorità.
Non potendo più cavalcare la xenofobia come principale leitmotiv della sua politica, Salvini ha cercato di puntare su altre autorappresentazioni: il patriottismo, il tradizionalismo cattolico. Ma indossando le vesti del nazionalista uomo di fede egli appare talmente inautentico, dilettantesco, da sfiorare ogni volta la carnevalata.
Dall’interno della Lega, primo fra tutti il fondatore Umberto Bossi, gli rimproverano di avere rinnegato la causa dell’autonomismo nordista e di avere fallito nel contempo l’espansione al Sud. La penisola torna a soffrire pericolose lacerazioni geografiche. Ormai, più leghista di Salvini appare non solo il Doge del Veneto, Luca Zaia, ma perfino il viceré borbonico di Campania, Vincenzo De Luca.
A lui non resta che rifugiarsi nel buon tempo andato. Cerca conforto nella sua fama di ministro-sceriffo. Dimenticando di aver chiesto di essere processato insieme a tutto il popolo italiano in uno stadio di calcio, ora esulta se i giochi politici fanno riemergere una tentazione filoleghista mai del tutto sopita tra i parlamentari M5S (ricordate Lannutti, quello che voleva affondare le navi delle Ong?) e incassa l’appoggio dell’altro Matteo.
Neanche la parziale vittoria ottenuta ieri alla Giunta per le immunità del Senato, in attesa del voto d’aula, sembra però in grado di riportare sotto i riflettori i suoi metodi di lotta contro l’immigrazione irregolare. Dovrebbe essere la magistratura a verificare se tali metodi brutali, come a me sembra evidente, abbiano oltrepassato i limiti delle sue prerogative, e quale fattispecie di reato ciò comporti. Lui, come sempre, cerca di atteggiarsi a metà eroe e a metà vittima. Ma il tempo è galantuomo. Non sarà la caccia allo straniero a restituirgli la centralità perduta.

L'ex Renzusconi, oggi Renzilvini.

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L'ex Renzusconi, oggi Renzilvini, ex pupillo di Napy, oggi aspirante pupillo di qualche miliardario, circola tra i banchi del Parlamento in cerca di schegge di potere per riacquistare potere e visibilità perduti nei meandri di passi falsi e cavolate sistematiche provocate dalle sue scarse capacità deduttive.

Infatti, per lui non è importante ottenere consensi dal basso, cioè da noi, ma di attorniarsi di personaggi muniti di quel quid che lo rendano visibile e, soprattutto, incisivo, ficcante, onnipresente e, perché no, in grado di muovere l'ago della bilancia in suo favore.


L'apparire più che essere è il suo credo, come, del resto, quello di tanti come lui, insensibili e cinici al punto giusto, pronti a vendersi al miglior offerente pur di sembrare ciò che non si è.

Per lui l'etica è un optional da non prendere in considerazione, amministrare un paese non è una responsabilità verso gli amministrati del paese, è occupare un posto di prestigio che, se appoggiati da altri cinici irresponsabili assetati di potere come lui, può procurare tantissime agevolazioni a livello economico e di prestigio. 

Così va il mondo e, è doloroso doverlo ammettere, sarà molto difficile cambiare il sistema.

cetta.

Italia Viva e Paese moribondo. - Gaetano Pedullà.

MATTEO RENZI


Nulla di nuovo dalla Destra abituata a difendersi dai processi e non nei processi. A meno di una improbabile giravolta dell’Aula del Senato, Matteo Salvini non andrà a processo per la vicenda Open Arms, come chiesto dai pm siciliani. Le novità arrivate dal voto della Giunta per le autorizzazioni sono invece significative per Cinque Stelle e Matteo Renzi. Per quanto riguarda il Movimento, la decisione della senatrice Riccardi in dissenso con il gruppo non è un banale incidente di percorso, ma l’ennesima prova che senza un capo politico o una decisa regolata il Movimento butta via a secchi la sua credibilità.
È chiaro che fare gli Stati generale può spaccare il fronte degli eletti e indebolire il premier Giuseppe Conte, ma continuare a far finta di niente equivale a un lento suicidio. Vale perciò la pena di riflettere se sia meglio rischiare una fine spaventosa o uno spavento senza fine. Più sorprendente la mossa di Italia Viva, ormai sempre più vicina al Centrodestra che agli alleati della maggioranza giallorossa. Proprio nel giorno in cui la Lega elegge in Lombardia una consigliera regionale renziana alla guida della Commissione d’inchiesta su Fontana e Gallera e la loro discussa gestione dell’emergenza pandemia, i Mattei rivelano ormai apertamente i loro amorosi sensi, rafforzando il convincimento che prima o poi i due convoleranno a nozze.
Un matrimonio senza amore e di effimero interesse, ma che s’ha da fare pur di liberarsi degli odiati (da entrambi) Cinque Stelle. Dove può portare tutto questo per adesso è ignoto. Ai poteri finanziari ed europei oggi più che mai fa comodo un Governo tecnico, che con la scusa del Mes o di qualche altro aiuto economico ci imponga una patrimoniale e altri salassi. Per questo si sta saldando un fronte largo e preoccupante, che va dai vecchi volponi della politica di destra e sinistra al capitalismo nazionale, con i giornali e le televisioni di complemento che stanno bombardando Conte e chi lo sostiene più lealmente come se non ci fosse un domani. Nella speranza di dar vita a un nuovo governo, fosse anche sulle macerie e liquidando quel che resta della ricchezza del Paese.

L’inciucio dei due Matteo: altro “pizzino” al premier. - Luca De Carolis

L’inciucio dei due Matteo: altro “pizzino” al premier

Senato. Per Salvini il salvataggio di Renzi.
Lo hanno fatto e a occhio lo rifaranno, gli ufficialmente garantisti di Italia Viva. Già pregustano l’Aula, “il luogo dove ognuno si assumerà le sue responsabilità” come scandisce pugnace il Gennaro Migliore che un tempo fu rosso antico. Perché non smetteranno mai di fare la guerra a Giuseppe Conte, i renziani che ieri hanno contribuito in misura significativa (ma non decisiva) a salvare Matteo Salvini nel voto nella giunta delle elezioni del Senato: nel nome del diritto, ma con in testa sempre quella consegna, logorare il governo, seminare rumore per ricordare che esistono in carne, sangue e parlamentari. Lanciando anche segnali al Carroccio e a vari e eventuali, perché non si sa mai arrivasse un incidente in Parlamento, portando in dote quel governissimo che ha tanti tifosi pure fuori dei Palazzi.
Di sicuro sono tre quelli di Iv in giunta, Francesco Bonifazi, Giuseppe Cucca e Nadia Ginetti, e tutti e tre ieri hanno disertato la sala dove si votava sull’autorizzazione al processo per l’ex ministro dell’Interno, accusato dal tribunale dei ministri di Palermo di sequestro di persona plurimo aggravato e rifiuto di atti d’ufficio per il caso della nave Open Arms. Il resto lo hanno fatto una grillina, Alessandra Riccardi, e un ex 5Stelle espulso di fresco, Mario Michele Giarrusso, specchio fedele della costante frana dentro il Movimento. Sarebbero bastati loro all’ex alleato di governo, ma con l’assenza di Iv è stata apoteosi: 13 sì per la relazione del presidente Maurizio Gasparri, ovviamente contraria all’autorizzazione, e solo 7 no, quelli di 4 grillini su 5, dell’ex 5Stelle Gregorio De Falco di Pietro Grasso di Leu e dell’unica dem sopravvissuta alla scissione in Giunta, Anna Rossomando.
Certo, a dire la parola decisiva dovrà essere l’Aula. Ma Salvini può sperare in questo fiorire di garantisti, e nell’attesa ringrazia. Innanzitutto Riccardi e Giarrusso, con appositi sms. Poi l’intera Giunta: “Ha votato liberamente stabilendo che tutto il governo era d’accordo, anche Conte e Di Maio”. E il renziano Bonifazi gli fa eco: “Dal complesso della documentazione prodotta, non sembrerebbe emergere l’esclusiva riferibilità all’ex ministro dell’Interno dei fatti contestati. Pare che le determinazioni assunte abbiano sempre incontrato l’avallo governativo”.
C’è profumo d’intesa tra i due Matteo, nel comune tirare in ballo Conte. Lo notano e ne chiacchierano tutti. Anche ai piani alti del M5S, dove la lettura è unanime: “Renzi strizza l’occhio a Salvini perché alla fine spera di tirare giù Conte”. E l’eurodeputato Fabio Massimo Castaldo traduce così sui social: “Renzi è l’assistente civico del capo della Lega”. Da Iv negano, parlano e riparlano della necessità di “un’istruttoria ulteriore”, giurano di “non voler fare di Salvini un martire”. E anche la grillina Riccardi, che il capo politico reggente Vito Crimi aveva provato fino all’ultimo a far recedere, giustifica il sì “in punta di diritto”.
Nel M5S sospettano che voglia passare alla Lega. Ricordano che giorni fa si era dimessa dal Direttivo, e che per il voto in Aula sulla mozione di sfiducia al Guardasigilli Bonafede non si era presentata. Lei nega traslochi: “Sono nel Movimento”. Giarrusso anche: “Non andrò nel Carroccio”. Tutti e due rammentano che sul caso della nave Diciotti il M5S votò no al processo per Salvini. Rivendicano coerenza, quella di cui non abbonda il Renzi che il 23 gennaio twittava: “Voterei sì al processo per Salvini per la nave Gregoretti”. Nel frattempo a Palazzo Chigi osservano, preoccupati.
Così attivano i canali con i partiti, mentre Salvini giura: “Con Renzi siamo il giorno e la notte”. E già il doverlo precisare racconta lo stato delle cose, che dalle parti di Conte alimenta cattivi pensieri. “Dicono che Renzi chiarirà sulle agenzie” filtra nel pomeriggio da ambienti di governo. La attendono anche a Chigi, quella nota. Invocano spiegazioni. Così invece del comunicato arriva un contatto diretto, con Maria Elena Boschi e altri dirigenti di Iv. Compatti nel giurare che non c’è alcuna volontà di tendere imboscate al premier. Ma l’aria resta cupa. “Io spero nel voto di tutti i senatori, a patto che Iv non faccia le bizze” riassume la grillina Elvira Evangelista.
Mentre Crimi precisa che Riccardi non verrà deferita ai probiviri, anche se lei già annuncia che in Aula confermerà il no al processo. Non se lo può permettere il M5S, perché i numeri della maggioranza sono già sottili a Palazzo Madama. Teatro perfetto per agguati, in punta di diritto.

Poveretto, come s’offre. - Marco Travaglio

Conte avvisa i due Mattei: il premier sono io - Tiscali Notizie
Gli inciuci fra i magistrati del caso Palamara devono aver ingelosito i due Matteo, che hanno ripreso i loro traffici per non farsi scavalcare. Con una differenza fondamentale: se le toghe dello scandalo erano dedite ai do ut des , nel caso dei due Matteo si vede solo il do e mai il des. Nel senso che ci guadagna sempre Salvini, mentre l’Innominabile gli fa da palo: nella giunta per le immunità del Senato gli regala l’impunità dal processo Open Arms (con la collaborazione straordinaria della M5S Riccardi e dell’espulso Giarrusso) e in Regione Lombardia gli presta uno dei suoi italomorenti, tale Patrizia Baffi, per guidare la commissione che dovrebbe indagare sui cabarettisti Fontana&Gallera per la brillante gestione della pandemia e ora invece li beatificherà. Ma, per l’eterogenesi dei fini, quello che nasce come favore spesso si trasforma in dispetto. Abbiamo sempre pensato che Salvini dev’essere processato dai giudici e non dai suoi colleghi senatori, ma che nei processi per sequestro di persona e abuso d’ufficio sulle navi delle Ong cariche di migranti bloccate fuori dai porti italiani verrà assolto. Checché ne dica la sua cattiva consigliera Giulia Bongiorno, quella che scambiava Andreotti mafioso e prescritto per assolto e ora teme la condanna del Cazzaro Verde, il sequestro di persona non regge; reggerebbe la vecchia omissione in atti d’ufficio, che però purtroppo non esiste più dal ’97, quando l’Ulivo svuotò l’abuso d’ufficio rendendolo impossibile da provare (a meno che si dimostri un “vantaggio patrimoniale” indebito per chi lo compie, e Salvini bloccando i migranti guadagnava voti, non soldi).
Dunque, se anche l’aula del Senato respingerà la richiesta dei giudici di Palermo per Open Arms, Salvini avrà una passerella e un’aureola di martire in meno da spendere nella sua propaganda per risalire nei sondaggi sulla pelle dei migranti. Cioè: con l’aria di fargli un favore, l’Innominabile gli ha fatto un dispetto. Già che c’era, siccome si crede molto astuto, ha fatto dire ai suoi che per Open Arms bisognerebbe processare non solo l’allora ministro dell’Interno, ma tutto il governo Conte-1, che avrebbe condiviso il blocco della nave spagnola per 20 giorni in base al dl Sicurezza-bis varato il 2 agosto 2019. Così – si è detto tutto soddisfatto – colpisco anche Conte (la sua vera bestia nera) e i 5Stelle: furbo io. Ma, nella fretta, s’è scordato di dare un’occhiata non solo alla richiesta dei giudici, ma anche alle date e alla rassegna stampa. Altrimenti avrebbe scoperto che all’epoca il governo Conte-1 non esisteva più. L’8 agosto il Cazzaro Verde aprì la crisi (pur restando incollato alla poltrona, anzi alla sdraio del Papeete).
Il 9 agosto i legali dell’Ong si rivolsero al Tribunale dei minori di Palermo per far sbarcare almeno i minorenni. Il 12 il Tribunale chiese spiegazioni al governo. Il 14 il Tar Lazio sospese il divieto di sbarco. La nave fece rotta verso l’Italia, ma senza mai ricevere dal Viminale l’indicazione del porto sicuro. Il 15 agosto, dopo giorni di braccio di ferro con Salvini, Conte gli scrisse una durissima lettera, pubblicata anche su Facebook: per i giudici, è la prova che il ministro fece tutto da solo (anche perché il governo non si riuniva più) e contro le indicazioni del premier. Conte ricordava a Salvini: “Ti ho scritto ier l’altro (13 agosto, ndr) una comunicazione formale, con la quale, dopo avere richiamato vari riferimenti normativi e la giurisprudenza in materia, ti ho invitato, letteralmente, ‘nel rispetto della normativa in vigore, ad adottare con urgenza i necessari provvedimenti per assicurare assistenza e tutela ai minori presenti nell’imbarcazione’. Con mia enorme sorpresa, ieri hai riassunto questa mia posizione attribuendomi, genericamente, la volontà di far sbarcare i migranti a bordo. Comprendo la tua ossessiva concentrazione nell’affrontare il tema dell’immigrazione riducendolo alla formula ‘porti chiusi’. Sei… proteso a incrementare costantemente i tuoi consensi. Ma parlare come Ministro dell’Interno e alterare una chiara posizione del tuo Presidente del Consiglio, scritta nero su bianco, è questione diversa. È un chiaro esempio di sleale collaborazione, l’ennesimo, che non posso accettare”.
Poi rivendicava la linea di “maggiore rigore rispetto al passato” contro l’immigrazione clandestina e i successi raccolti in Europa sulla condivisione dell’accoglienza degli sbarcati: “Francia, Germania, Romania, Portogallo, Spagna e Lussemburgo mi hanno appena comunicato di essere disponibili a redistribuire i migranti. Ancora una volta i miei omologhi europei ci tendono la mano. Siamo agli sgoccioli di questa nostra esperienza di governo… ho sempre cercato di trasmetterti i valori della dignità del ruolo che ricopriamo e la sensibilità per le istituzioni che rappresentiamo. La tua foga politica e l’ansia di comunicare, tuttavia, ti hanno indotto spesso a operare ‘slabbrature istituzionali’, che a tratti sono diventati veri e propri ‘strappi istituzionali’… Hai alle spalle e davanti una lunga carriera politica. Molti l’associano al potere. Io l’associo a una enorme responsabilità”. 
Molti, quella lettera che anticipava la ramanzina del 20 agosto in Senato, l’avevano dimenticata. Ora torna d’attualità grazie agli intrighi dell’Innominabile. Che, mentre s’offre a Salvini per fargli da palo, si rivela il migliore sponsor di Conte. Meglio di Rocco Casalino.

I magistrati furbetti che fanno milioni con le aste immobiliari. - Maria Elena Vincenzi

I magistrati furbetti che fanno milioni con le aste immobiliari

Case e ville comprate per poco e rivendute a prezzi da capogiro. Così un gruppo di toghe in Sardegna lucrava sulle gare e sulle speculazioni edilizie.


I magistrati furbetti che fanno milioni con le aste immobiliari 
Magistrati proprietari di ville “vista mare” da milioni di euro o che comprano immobili da capogiro ai prezzi ribassati dell’asta e poi li rivendono al valore di mercato, intascandosi la differenza. In barba alla legge che prevede che le toghe non possano partecipare alle aste giudiziarie, per ovvi motivi di conflitti di interessi.

Invece a Tempio Pausania, in Sardegna, c’erano giudici che facevano speculazioni edilizie facendo vincere le gare ad amici i quali poi li nominavano come aggiudicatari. E a quel punto, i magistrati rivendevano quegli immobili al triplo del prezzo.

Un giro di affari smascherato da altri magistrati, quelli di Roma, in particolare il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pubblico ministero Stefano Fava, che hanno iniziato a indagare nel 2016 su una villa affacciata sul mare di Baia Sardinia.

L’immobile, appartenuto a un noto imprenditore della zona finito male, venne messo all’asta e aggiudicato, complice il giudice fallimentare Alessandro Di Giacomo, a un avvocato «per persona da nominare». Le persone che poi sono state indicate erano Chiara Mazzaroppi, figlia dell’ex presidente del tribunale di Tempio Pausania, Francesco, e il di lei compagno, Andrea Schirra, anche loro magistrati in servizio (presso il tribunale di Cagliari). La villa, grazie alle «gravi falsità» contenute nella perizia, per usare le parole del gip di Roma Giulia Proto, è stata pagata 440 mila euro. Un ribasso ottenuto con «vizi macroscopici nella procedura di vendita»: tra l’altro si certificava la presenza in casa del comodatario che in realtà era morto qualche mese prima. A nulla erano valse segnalazioni e proteste dei creditori: il giudice ha deciso di ignorarle. Per garantire alla figlia del suo ex capo, o forse direttamente a lui, un affare immobiliare non da poco: l’intenzione era di ristrutturare il complesso e di rivenderlo a 2 milioni di euro. Ovvero con una plusvalenza di 1,6 milioni.

Insomma, un affare niente male. Per il quale, poco prima di Natale, il giudice Alessandro Di Giacomo è stato punito con l’interdizione a un anno dalla professione. I Mazzaroppi, padre e figlia, e Schirra sono indagati.

L’indagine ha svelato anche una serie di affari simili per i quali, però, non è possibile procedere: i reati sono già prescritti. Dalle carte depositate dalla procura di Roma, infatti, si scopre che gli affari immobiliari di Francesco Mazzaroppi hanno origini ben più lontane. Correva l’anno 1999 quando il giudice Di Giacomo, ancora lui, assegnò a un’avvocatessa, Tomasina Amadori (moglie del suo collega Giuliano Frau), il complesso alberghiero “Il Pellicano” di Olbia, una struttura da 34 camere. Amadori, a quel punto, indicò come aggiudicataria la Hotel della Spiaggia Srl, società riconducibile al commercialista Antonio Lambiase. Il prezzo dell’operazione era poco più di un miliardo di lire. Un anno dopo, “Il Pellicano” venne venduto da Lambiase, vicino a Mazzaroppi padre, a 2,3 miliardi: più del doppio del prezzo di acquisto. Scrive il pm di Roma Stefano Fava: «Risultano agli atti gli stretti rapporti economici intercorrenti tra Antonio Lambiase e Francesco Mazzaroppi. Lambiase ha infatti acquistato un terreno in località Pittolongu di Olbia cedendone poi metà a Rita Del Duca, moglie di Mazzaroppi.

Su tale terreno Lambiase e Mazzaroppi hanno edificato due ville», nelle quali vivono tuttora. Chiosa il pm: «Le evidenziate analogie, oggettive e soggettive, con la vicenda relativa all’aggiudicazione dell’immobile di Baia Sardinia, nonché la perfetta sovrapponibilità delle condotte dimostrano come anche la vendita a prezzo vile dell’albergo “Il Pellicano” sia conseguente a condotte illecite, non più perseguibili penalmente perché prescritte».

A corredo di tutto ciò, la procura di Roma ha raccolto anche una serie di testimonianze tra le quali quella dell’allora presidente della Corte d’Appello di Cagliari, Grazia Corradini, che non usa mezzi termini: «In relazione all’acquisto del terreno su cui Francesco Mazzaroppi aveva edificato la sua villa c’erano state in passato delle segnalazioni relative a rapporti poco limpidi con i locali commercialisti e in particolare con Lambiase, consulente del Consorzio Costa Smeralda, insieme al quale avrebbe acquistato più di dieci anni fa il terreno su cui era stata realizzata la villa».

La Corradini racconta poi di come a queste segnalazioni fossero seguite due indagini, una penale e una predisciplinare senza alcun esito.

Poi Corradini parla anche della villa a Baia Sardinia: «La vicenda indubbiamente appare poco limpida se si considera il prezzo di vendita di una villa assai prestigiosa che si affaccia su Baia Sardinia, il cui prezzo di mercato si può immaginare pari ad almeno alcuni milioni di euro». Una questione su cui «ha relazionato il presidente del Tribunale di Tempio, la cui relazione allego unitamente ai documenti acquisiti che sembrerebbero confermare una “regolarità formale” nelle procedure di vendita, come ci si poteva attendere visto che eventuali interferenze è difficile che risultino dagli atti della procedura».

Il presidente del tribunale di Tempio chiamato in causa era Gemma Cucca, che ora è presidente della Corte d’Appello di Cagliari, dove è succeduta proprio alla Corradini. Anche lei è indagata dalla procura di Roma.

Ce ne sarebbe abbastanza, ma il torbido al tribunale di Tempio Pausania continua con le rivelazioni di segreto d’ufficio, ingrediente indispensabile in un sistema che si reggeva su favori e amicizie. Sempre nel corso delle indagini sulla villa di Baia Sardinia, infatti, gli inquirenti hanno sentito due indagati parlare tra di loro del fatto che il gip Elisabetta Carta, che aveva firmato il 1 giugno 2016 un decreto d’urgenza per intercettarli, li avesse prima avvisati. Scrive il giudice di Roma: «La vicenda è particolarmente grave: il gip che ha autorizzato una intercettazione informa gli indagati che sono sotto intercettazione dicendo loro di “stare attenti”, il tutto mentre le intercettazioni sono ancora in corso».

Elisabetta Carta si è difesa negando le accuse a suo carico e ammettendo solo di avere avuto con la coppia buoni rapporti lavorativi. Per lei è già stata disposta l’interdizione per un anno.

Non è finita: di quelle intercettazioni, chissà come, venne informato anche Francesco Mazzaroppi, all’epoca presidente della Corte d’Appello di Cagliari e - come detto - padre dell’acquirente Chiara Mazzaroppi.
Tutto questo sembrava normale, nel tribunale di Tempio Pausania, dove i magistrati erano preoccupati soltanto di fare affari immobiliari.

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