sabato 17 gennaio 2015

Primarie Liguria, l’ombra della mafia sul voto per la corsa alla Regione. - Ferruccio Sansa

Primarie Liguria, l’ombra della mafia sul voto per la corsa alla Regione

“Ho visto arrivare una quarantina di persone in gruppo. Erano tutti siciliani, tra i 50 e 70 anni. Mi hanno chiesto ‘è qui che si paga?’", ha raccontato Walter Rapetti, il presidente di seggio a Certosa. Blitz della Digos nella sede del Pd genovese: chiesto l'elenco dei votanti.

La Digos che entra nella sede del Pd genovese e chiede l’elenco dei votanti alle primarie. Gli uomini dello Sco dei carabinieri che vanno nella sezione del quartiere Certosa e ascoltano il presidente di seggio. La Direzione Distrettuale Antimafia di Genova che vuole vederci chiaro. Il segretario provinciale di Savona che presenta esposti in procura. Il castello delle primarie liguri del Pd rischia di crollare. Con due soluzioni – entrambe traumatiche – all’orizzonte: l’annullamento delle primarie o la conferma con immediato rischio di scissione. “Che amarezza”, spalanca le braccia il segretario provinciale di Genova, Alessandro Terrile, appena consegnate le carte alla Digos, “non era mai successo”.
Raffaella Paita alza già i calici. L’ha detto più volte: “Le primarie valgono più delle regionali”. Ma adesso si trova davanti due ostacoli. Il giudizio dei Garanti Pd, previsto per oggi, sulla regolarità del voto. Ma soprattutto l’interessamento di almeno due Procure sullo svolgimento delle primarie. Ora tocca a Genova. E non a investigatori qualunque. Ma a quelli che si occupano di mafia. Già, perché sulle primarie Pd si allunga anche l’ombra della criminalità organizzata. Sono stati gli stessi dirigenti Pd a denunciarlo. In due casi particolari: prima di tutto a Certosa. Parliamo di un quartiere che a Genova è soprannominato la “piccola Riesi”, perché qui è massiccia l’immigrazione dalla cittadina siciliana. E qui sono forti le infiltrazioni mafiose. Ecco cosa ha riferito Walter Rapetti, il presidente di seggio: “Ho visto arrivare una quarantina di persone in gruppo. Erano tutti siciliani, tra i 50 e 70 anni. Sembravano spaesati, non sapevano nemmeno cosa fossero le primarie. Mi hanno chiesto ‘è qui che si paga?’. La scena era surreale. Quelli hanno firmato e se ne sono andati. Senza votare. Li ho fermati e mi hanno detto: ‘Votare? Cos’è la scheda?”.
Non solo: un militante di Sel avrebbe riconosciuto un ex consigliere comunale Idv (già indagato con l’accusa di aver raccolto firme taroccate a favore dello schieramento di Claudio Burlando nel 2010) che a Certosa organizzava “plotoni” di votanti. L’interessato, intervistato dal Fatto, smentisce. Com’è finita? “Cofferati 241 voti, Paita 95, ma pensavamo pigliasse meno”, raccontano rappresentanti Pd.
A Savona, il segretario provinciale Fulvio Briano ha presentato un esposto in Procura. I pm stanno già lavorando, soprattutto sull’ipotesi di versamenti di denaro effettuati per convincere la gente a votare. La Procura sta studiando quanto acquisito ad Albenga e Pietra Ligure, dove Paita ha sgominato Cofferati sfiorando il 90%. Due comuni dove il rapporto tra politica, affari e figure al centro di inchieste è noto. “Ad Albenga abbiamo fotografie di incontri tra esponenti del centrosinistra e soggetti condannati per reati gravissimi”, punta il dito Christian Abbondanza della Casa della Legalità. Ma Paita e il marito – il presidente del Porto di Genova, Luigi Merlo – sono già stati in passato al centro di polemiche sui loro rapporti con personaggi al centro di inchieste. Niente di illegale, ma Paita nelle settimane precedenti alle primarie ha ricevuto l’appoggio di quell’Alessio Saso, oggi Ncd, così definito dagli stessi vertici Pd: “Oltre a essere un ex esponente diAn, Saso è indagato (voto di scambio, ndr) nell’inchiesta Maglio 3 sulle infiltrazioni della criminalità organizzata nel Ponente”. Toccò poi a un altro sponsor scomodo: Eugenio Minasso, anche lui Ncd, in passato fotografato mentre festeggia l’elezione in Regione con famiglie calabresi al centro di inchieste.
Non solo. Già due anni fa, il Fatto riportò le intercettazioni di colloqui avvenuti tra Luigi Merlo (il marito della candidata Pd) e un imprenditore calabrese che in Liguria ha il monopolio degli appalti pubblici in materia di scavi e movimenti terra. Quel Gino Mamone che nelle informative del 2008 per l’inchiesta  Mensopoli veniva così definito dagli investigatori: “Il tenore delle conversazioni intercettate ha evidenziato collegamenti di Gino Mamone sia con il mondo politico sia con il mondo delle cosche calabresi. Egli potrebbe rappresentare il punto di contatto tra i due mondi”.
Il 22 maggio 2007, Merlo inviò a Mamone un sms per caldeggiare l’appoggio elettorale ad Andrea Stretti attuale assessore alla Politiche sociali di La Spezia. “Caro Gino – scriveva Merlo – se hai qualcuno a Spezia ti sarei grato se facessi votare Andrea Stretti”. Immediata la risposta di Mamone: “Ti lascio due numeri di telefono dei miei ragazzi (…) questi conoscono mezzo mondo”.
Parliamo di quel Mamone che nelle intercettazioni dice: “Noi ci siamo con quei settemila voti, non uno, noi tutti i calabresi, qua a Genova ce li gestiamo noi”. Mamone, mai indagato per mafia, che è stato però arrestato per appalti pubblici da oltre dieci milioni di euro. Anche per le alluvioni che flagellano la Liguria. Mamone infine che al telefono dice: “Gli viene il cagotto a Burlandino”, lasciando intendere, sostengono i pm, che potrebbe avere l’intenzione di ricattare il governatore della Liguria, Claudio Burlando, Pd, il grande sponsor di Paita. Il vero vincitore delle primarie.
Chissà a quali conclusioni arriveranno gli investigatori. E anche i garanti del Pd che oggi decideranno sull’esito delle primarie. La presidente del comitato, Fernanda Contri (Pd), ha ottenuto incarichi di prestigio da Merlo, marito di Paita.

Enasarco: Il M5S tutela le pensioni dei professionisti e delle partite IVA. - Roberta Lombardi



"La Bicamerale sulla attività degli Enti gestori della previdenza e dell’assistenza ha deliberato, su input del M5S, di chiedere ai ministeri del Lavoro e dell’Economia il commissariamento di Enasarco
E’ una nostra vittoria importante, un primo passo verso una riforma complessiva delle casse pensionistiche privatizzate.
Enasarco, l’ente previdenziale degli agenti di commercio, ha scommesso i soldi delle pensioni degli iscritti nella roulette russa della finanza spericolata e dei derivati. Ha provato a coprire i buchi con artifici contabili e con una gestione del patrimonio immobiliare che ha calpestato le prerogative degli inquilini. Il M5S segue questa vicenda da quasi due anni e nell’ultima audizione, in Commissione, della Fondazione Enasarco avevamo presentato formale richiesta di commissariamento dell’ente, fornendo un approfondimento sui bilanci Enasarco e sulle procedure di autorizzazione dei conferimenti del suo patrimonio immobiliare.
l lavoro che è stato fatto, attraverso il capillare controllo di ogni documento fornito (oppure omesso) da chi aveva il dovere di porre all’attenzione della commissione Enti gestori la documentazione richiesta (chi aveva il dovere di vigilare sull’Ente), ha portato alla convinzione che obbligo morale, politico e giuridico del MoVimento 5 Stelle sia far rilevare come risultino più che sufficienti i presupposti per il commissariamento della Fondazione Enasarco.
Dal luglio 2013 abbiamo presentato interrogazioni, interpellanze urgenti, mozioni, inviato lettere ai ministri competenti e chiesto a tutti gli organi di vigilanza documentazione per fare chiarezza. Tutto ciò mentre la Fondazione Enasarco diceva che “va tutto bene, è tutto a posto ed i ministeri hanno sempre controllato”.
Ma non ci siamo fermati e abbiamo continuato a lavorare. Alcuni risultati sono arrivati con dei cambiamenti significativi all’interno dei ministeri, che hanno provocato la sostituzione di alcuni dirigenti punti cardine della vigilanza.


Negli ultimi mesi del 2014, precisamente il 14 ottobre, abbiamo inviato una primo esposto alla Banca d’Italia e alla Consob. Successivamente, il 17 dicembre, abbiamo richiesto appunto il commissariamento alla bicamerale Enti gestori e il 24 dicembre abbiamo presentato una nuovo esposto alla Covip e alla Corte dei Conti, ma contemporaneamente abbiamo inviato richiesta di commissariamento ai ministeri competenti. Infine, il 14 gennaio ecco nuovo esposto del MoVimento alla Banca D’Italia e alla Consob.
Il M5S ha puntato sull’immediata sospensione delle dismissioni immobiliari Enasarco e sulla vendita degli appartamenti residenziali. Inoltre, riteniamo che il commissariamento sia la prima cosa da fare assieme alla costituzione di un comitato per la valutazione indipendente degli asset, finanziari ed immobiliari, sospendendo tutti i processi in corso di implementazione.
Il M5S crede che la vigilanza vada poi concentrata presso un unico soggetto istituzionale, con responsabilità precise e penetranti poteri di ispezione. Serve una gestione oculata degli asset e una diversificazione che riduca i rischi. In più è necessaria una definizione normativa univoca di questi soggetti, che non possono più essere degli ircocervi metà pubblici e metà privati. Le casse pensionistiche, infatti, vanno riportate in toto nell’alveo della previdenza pubblica.
La richiesta di commissariamento di Enasarco è un primo passo per tutelare le pensioni dei professionisti, delle partite Iva e gli inquilini degli immobili delle Casse.
Tanti altri ne faremo insieme…in alto i cuori!" 


http://www.beppegrillo.it/2015/01/enasarco_il_m5s_tutela_le_pensioni_dei_professionisti_e_delle_partite_iva.html

Corruzione nel cuore dello Stato. Solo alla Difesa 130 dipendenti sotto accusa. - Thomas Mackinson

Corruzione nel cuore dello Stato. Solo alla Difesa 130 dipendenti sotto accusa

Al Mef c'è chi si porta via pure i timbri. Nel giro di due anni hanno subito provvedimenti disciplinari per reati penali anche 800 dipendenti della Guardia di Finanza. Neppure la Presidenza del Consiglio e il Consiglio di Stato sono immuni. Ecco la radiografia degli illeciti nelle istituzioni che non avete mai letto. E l'Anac corre ai ripari: dipendenti onesti, segnalate a noi.

Al Tesoro c’è chi si porta via pure i timbri. Se parlare di 60 miliardi l’anno quasi non impressiona più, si possono però citare i 130 dipendenti della Difesa per i quali nel giro di due anni l’amministrazione ha avviato procedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti. Certo potevano essere anche di più, visto che l’amministrazione conta 31.589 dipendenti tra militari e civili. Fatto sta che tra il 2013 e il 2014 per 109 di loro è scattata la sospensione cautelare dal servizio con privazione della retribuzione, cinque sono stati licenziati in tronco. A cercare bene si scopre che neppure la Presidenza del Consiglio, coi suoi 3.382 dipendenti, è immune agli illeciti: negli ultimi due anni Palazzo Chigi ha dovuto vedersela con un dirigente accusato di peculato e sei procedimenti disciplinari legati a vicende penali, una delle quali per rivelazione di segreto d’ufficio. Nel frattempo al Ministero dell’Economia e Finanze si sono registrati 15 casi su 11.507 dipendenti, compreso quello che s’è portato a casa i timbri dell’ufficio, e vai a sapere per farne cosa.
La mappa anche le guardie fanno i ladriPillole da una casistica che disegna una inedita “mappa della corruzione” nelle amministrazioni che sono il cuore dello Stato. La si ottiene analizzando una per una le “relazioni annuali sull’attività anticorruzione” che i funzionari responsabili della prevenzione delle amministrazioni pubbliche devono predisporre entro il 31 dicembre di ogni anno, così come previsto dalla legge Severino (n.190/2012), le norme in fatto pubblicità e trasparenza (decreto n. 33/2013) e le successive “disposizioni sulla condotta per i pubblici dipendenti” (n. 62/2013). Prescrizioni cui ha contribuito in maniera importante l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), fornendo le linee guida del Piano nazionale anticorruzione, elaborando schemi operativi e modelli organizzativi e operativi per le amministrazioni e predisposto formulari destinati alla raccolta, gestione e diffusione dei dati nei piani triennali delle singole PA.
Un articolato sistema di prevenzione e contrasto che – visti i numeri – sembra ancora insufficiente a contenere un fenomeno che si consuma prevalentemente nelle amministrazioni statali. Il bubbone, infatti, è tutto lì, come certificano le 341 sentenze pronunciate negli ultimi 10 anni dalla Corte dei Conti per casi di corruzione e concussione: il 62% ha riguardato i dipendenti dello Stato, a pari merito col 12% quelli dei comuni, sanità, enti previdenziali e assistenziali. Residuali, al momento, i reati che riguardano province, regioni e università.
Dunque il problema è nel cuore dello Stato. E la tendenza non sembra cambiare, anzi. Dai documenti aggiornati a dicembre si apprende anzi di amministrazioni che hanno visto raddoppiare gli episodi di illecito penale nel giro di un anno. Al Ministero per i Beni culturali ad esempio erano stati 12 nel 2013, nel 2014 sono stati 24. Altri rapporti fanno intravedere la penetrazione verticale dell’inquinamento corruttivo. Non fa gli argine, ad esempio, il Consiglio di Stato. Siamo in casa di giudici, non ci si aspetterebbe che ladri e corrotti avessero dimora. Invece su 869 dipendenti sono stati avviati 15 provvedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti, due sono terminati con il licenziamento. E che cosa succede, allora, a casa delle guardie?
La Finanza reprime gli illeciti. Ma molto lavoro arriva direttamente dai suoi uffici, e su dimensioni di scala impressionanti. La Gdf conta 433 dirigenti, 2.477 ufficiali, 56mila tra ispettori, appuntati e finanzieri. Negli ultimi due anni le Fiamme Gialle hanno avviato ben 783 procedimenti disciplinari per fatti penali a carico dei propri dipendenti: 17 riguardano ufficiali, 766 personale non dirigente o direttivo. Con quali effetti e sanzioni? Una degradazione generale: 658 sanzioni disciplinari di corpo, 40 sospensioni disciplinari, 66 perdite di grado. Nota di colore: nel cortocircuito tra guardie e ladri spunta anche il finanziere “colluso con estranei per frodare la Finanza”.
La via italiana all’anticorruzione, visti questi, sembra ancora in salita. La difficoltà è palese, avvertita e denunciata sia dall’interno degli uffici pubblici e sia all’esterno, come in più occasioni ha segnalato la stessa Anac. I responsabili della trasparenza lo dicono chiaramente: a due anni dalla legge che è il perno delle politiche di contrasto al fenomeno, le amministrazioni non hanno poteri effettivi, non ricevono risorse adeguate, devono muoversi in un quadro normativo sempre più complesso e farraginoso che affastella leggi su leggi. Solo gli obblighi di pubblicazione hanno raggiunto quota 270. “Un monitoraggio efficace è difficilmente attuabile”, ammette Luigi Ferrara, da sei mesi responsabile anticorruzione del Mef, “anche in considerazione del fatto che l’Amministrazione non ha poteri d’indagine e che i terzi potenzialmente interessati sono molto numerosi”. E abbiamo visto quanto.
Una macchina senza benzina. Che non va avanti
Il dito è puntato sull’insufficienza di strumenti e risorse per debellare la natura pervasiva e sistemica della corruzione. Si è fatto un gran parlare dei fondi per l’authority, spesso centellinati in nome del risparmio. Per nulla di quelle che servono alle amministrazioni per utilizzare gli strumenti via via codificati dal legislatore per fare opera di prevenzione dall’interno. L’impressione, ammette un funzionario, è che si vuol fare la guerra a parole, a costo zero. E questo atteggiamento vanifica gli sforzi. Un esempio? Il personale individuato dalle amministrazioni per vigilare sui settori a maggior rischio si sarebbe dovuto formare “senza ulteriori oneri per lo Stato, nella Scuola superiore della pubblica amministrazione”. Questo dice la legge 190. Ma quasi mai succede. “Alcune misure e raccomandazioni, per lo più riferite alla Scuola Superiore dell’economia e delle finanze, sono state superate a seguito della soppressione della Scuola medesima”, fa notare con sottile ironia il responsabile anticorruzione del Mef, Luigi Ferrara. L’Anac gli dà ragione, sottolineando come il legislatore avesse assegnato alla formazione un ruolo essenziale, ma a distanza di un anno era ancora “la tessera mancante del mosaico”. Tanto che le attività progettate dalla Scuola nazionale dell’amministrazione “non si può dire siano andate a regime”.
A volte le carenze riguardano cose banali: “Mancano gli applicativi informatici ad hoc per il supporto dell’attività di monitoraggio e di attuazione delle misure anticorruzione”, mette a verbale il capo dipartimento per la programmazione e la gestione delle risorse umane del Miur, Sabrina Bono. Del resto, spiega, il nuovo complesso di norme che ha investito le amministrazioni si scontra con la mancanza di personale dedicato. Per far seguito agli impegni previsti dalla normativa anticorruzione la funzionaria si è avvalsa di un dirigente e di due funzionari che “hanno svolto tali funzioni congiuntamente ai compiti assegnati in ragione dell’ufficio d’appartenenza”. Uno modo delicato per dire che non c’è personale da dedicare alla missione, a fronte di un aumento esponenziale degli adempimenti. In questo quadro, l’invito a ciascuna amministrazione a disegnare una propria politica di prevenzione rischia di cadere nel vuoto.
L’authority chiama in causa la politica
Sono criticità ben note all’Anac che negli anni ha lanciato più volte l’allarme sul rischio che le iniziative assunte si traducano in un mero adempimento formale degli obblighi, senza effetti reali sul malcostume nella cosa pubblica. Già nel primo anno di applicazione della 190/2012 l’Autorità chiamava in causa la politica e inviava al Parlamento una durissima relazione: “Appare particolarmente problematica – si legge – la constatazione che il livello politico non abbia mostrato particolare determinazione e impegno”. La rampogna era diretta al legislatore che affastellava leggi su leggi per spegnere l’incendio della corruzione salvo dimenticarsi di aprire i rubinetti. Ma era rivolta anche ai vertici delle amministrazioni pubbliche che all’invito a render conto delle proprie attività, segnatamente in fatto di trasparenza, rispondevano alzando un muro di gomma. Dopo un anno, per dire, solo l’8% dei ministeri si era premurata di indicare un responsabile interno. Molte non trasmettevano i dati, altre non davano seguito agli obblighi in materia di pubblicazione. Con la beffa finale, segnalata direttamente da Cantone pochi mesi dopo, per cui – a fronte del quadro sopra descritto – “la quasi totalità dei dirigenti pubblici ha conseguito una valutazione non inferiore al 90% del livello massimo atteso”.
Quelle denunce mai fatte. Ecco l’ultima speranza
Il dato fa poi il paio con la scarsa propensione dei dipendenti degli “uffici” a denunciare “fatti penalmente rilevanti per i quali siano venuti a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro”. Doveva essere la mina che fa saltare il sistema dall’interno, il famoso whisteblowing di matrice anglosassone, tanto enfatizzato dai mezzi di informazione all’indomani dell’approvazione della legge Severino. E quanti “sussurrano”? Pochi, quasi nessuno. Le “Relazioni” dei responsabili anticorruzione confermano che le segnalazioni si contano sulle dita di una mano e che quasi mai arrivano da dentro gli uffici, nonostante la promessa protezione contro rappresaglie e discriminazioni. Se ci sono, quasi sempre arrivano da fuori. Esempi. La Difesa, con 30mila dipendenti, registra un solo caso che abbia comportato una misura di tutela del segnalante. Il Ministero dell’Istruzione ha 4.223 dipendenti in servizio. Il responsabile anticorruzione nel suo rapporto conferma che la procedura è attivata via mail. Quanti l’hanno usata in due anni? Nessuno. Segno che il timore e l’omertà tengono ancora banco negli “uffici”. E forse per questo lo scorso 9 gennaio l’Anac ha diramato una nota per segnalare la propria competenza a ricevere segnalazioni. L’indirizzo è whistleblowing@anticorruzione.it.